Paolo Volponi
Il pianeta irritabile
Immortaltà selvaggia.
GIACOMO LEOPARDI,
Gli accorgimenti di memoria
Piove a dirotto da sempre, senza interruzioni né rallentamenti. Nemmeno se una collina frana o se una foresta entra nell’acqua che sale in fondo, qualche cosa muta dentro la pioggia. Solo i giorni e le stagioni girano toccando la luce; e questo è l’unico segno che il tempo ancora esiste.
Un segno che sparisce spesso, ogni volta che la pioggia cambia e si mette a piovere petrolio, catrame, acqua salata, acqua mista a sabbia o a madreperla. Allora si socchiudono gli occhi dei viventi che stanno sotto la pioggia: quattro paia d’occhi diversi di grandezza e di colore, mischiati dalla stessa fissità. La mancanza di qualunque rumore che non sia quello della pioggia è totale; questo silenzio debbono sentire sopra, come loro spazio, le teste di quegli occhi.
Adesso sta piovendo acqua, una languida acqua piovana mista a rena. Il fenomeno non desta alcuna curiosità: gli occhi continuano a rimanere fissi e semichiusi, un paio addirittura confusi dentro un alone rossastro. Quando la rena cessa e l’acqua diventa ancora piú scivolosa, cambia la luce per tutto un grande cerchio, accendendo un arcobaleno di un colore solo.
Si alza un grido, che si ripete subito, e che pare l’inizio di una canzone. L’accento è duro, di chi canta una canzone amata, troppe volte ripetuta. Nelle note ormai deve trovare solo una cadenza mentale: «Catarí, Catarí» oppure «la libertà, la libertà».
Ancora piú duro è il latrato che esplode e che cattura il grido con uno scatto. Ogni cosa intorno, vegetale o minerale, aspetta che il latrato si ripeta: aspetta per una regola naturale, e anche per capire e collegare i segnali. Ma la testa che ha latrato ha saputo smettere e deve essere superiore a qualsiasi regola. Non deve avere abitudini naturali e sociali e la sua forza logica deve essere superiore alla stessa catena dei propri segni, libera da qualsiasi indulgenza. Anche la pioggia aspetta e anche l’arco mentre brucia il proprio raggio. Gli occhi dentro la massa folta e indecifrabile che li circonda non hanno mutato la loro fissità. L’attesa resta alta per un lungo tratto e poi viene presa dalla pioggia che ne riceve un effetto luminoso e si dirada, e anche si schiarisce contro l’ora della giornata fluttuando qua e là e scomponendo l’arco di luce.
Un enorme albero appare sopra il punto degli occhi. Un chiarore autonomo lo compone dentro le macchie sfigurate e lo rivela per uno straordinario leccio di colore nero-verde. L’albero risulta sempre piú grande e il suo colore vivo come una pelle: composto a blocchi sovrapposti e da rami ordinati verso tutte le direzioni; è una cupola immensa, sfrangiata sulla sinistra da un tratto di punte piú alte.
Il seme che ha generato questo prodigio vegetale è venuto dai boschi dei Tatra, importato da un console veneziano che per tutto il viaggio invernale da quelle nevi a Praga e poi a Venezia se lo era tenuto tra le mutande e la pancia notte e giorno perché non soffrisse i rigori del freddo e gli sbalzi della temperatura. Quando da lí lo cavò, nel maggio del 1623, fu per regalarlo a una contessa Tea Viti o della Vite incontrata a Pesaro. Il seme era unto e incrostato come una verruca o un grappolo di cimici sanguinarie. La Timotea lo involtolò nella pezzuola di taffettà con la quale si era appena ripulita delle largizioni abbondanti quanto sbadate di quel diplomatico, lí nei primi camerini di Palazzo Mosca, e cacciò il fagottello nella borsetta. Tre giorni dopo, recatasi direttamente da quella festa a una villa diletta tra le colline del Foglia, gettò tutto l’involto, recuperato il solo borsuolo, in una profondissima buca in fondo al giardino, dritta sotto la sua finestra.
Nel giro di poche settimane Tea si ammalò di peste bubbonica e fu abbandonata dalla servitú dentro la villa. Capí lucidamente che quelle rose blu dalle quali non staccava piú gli occhi le erano state recate dal veneziano e quando le riuscí di schiodare una porta verso il giardino si trascinò sulla buca del faggio e lí sputò fino a dar di stomaco quel poco di brodo che aveva potuto prepararsi e ingurgitare.
Tutta la notte continuò a guardare, grata alla luminosità degli astri, quella buca ancora fresca come a quella della propria sepoltura. Non aveva paura, sapendo ormai di appartenere alle regole di quella luce; nemmeno quando si scopriva la falce pallida del ventre e la vedeva cedere a quella orrida messe bluastra. La mattina il sole la fece tribolare molto perché il calore, che non sentiva, si tramutava per lei in un fetore insopportabile. Lanciò uno sputo verso la buca insieme con un’ultima occhiata e si voltò per ripararsi dentro casa. Riuscí a trascinarsi fino alla porta e lí, con il capo sulla soglia, a spirare dopo tutta una giornata in cui l’avevano visitata nugoli di mosche e di insetti, ai quali si era rivolta sempre con amore quando la toccavano sulla bocca, sugli occhi e anche sul ventre che aveva scoperto apposta. Morí con gli occhi a filo della terra verso i garofanini della sua aiuola prediletta che rabbrividivano come ogni sera alla prima umidità.
L’ambasciatore invece, lo stesso giorno dopo l’incontro fatale, sulla nave per tornare a Venezia, lasciò intravedere a un compagno di viaggio un bubbone viola al centro del petto, proprio sotto il collo, là dove si era aperta la camicia per potere grattarsi a suo agio. Fu spogliato a sciabolate e poi scaraventato in mare a colpi di remi e di picche. Anche i suoi bagagli furono gettati in acqua dietro di lui, tranne un piccolo forziere che un marinaio trafugò giudicandolo prezioso: gli scaricò addosso tre secchi d’acqua e se lo ripose nel saccone tra certe calzature greche e lame moresche. Cosí la peste potette sbarcare a Venezia e soggiornarvi divertita per molti mesi, congiungendosi piuttosto con uomini giovani e colti, fra i quali ad esempio il pittore di Oldenbourg, Johann Liss.
Il leccio nacque rigoglioso e traversò decenni e secoli sempre piú forte. Lungo la sua esistenza di seicentosettant’anni, settantun fulmini colpirono i suoi rami e altri tredici scesero bruciando lungo il suo tronco fino quasi al fondo andando a rodersi in una specie di ombelico nodoso a qualche metro dal suolo. Via via quello squarcio accrebbe il proprio vano tanto che già dopo trecento anni aveva acquistato le dimensioni di una grande stanza. Nel 2ooo, diciassette persone vi trovarono scampo durante la prima guerra atomica.
Il leccio adesso riceve l’acqua a cateratte e la scarica verso il basso, spargendola prima sulle edere e sulle acacie che lo cingono e poi sui susini e sui ciliegi.
Le sue ghiande non cadono da tempo immemorabile, mentre continuano a crescerne altre senza fioritura. Tutta la vegetazione intorno segue lo stesso corso: le foglie delle acacie nascono grandi come quelle adulte delle magnolie e quelle delle magnolie si avvoltolano su se stesse come bandiere sopra i gradini bianchi della villa sparsi tra tronchi e radici intorno al rudere avviluppato. Le felci hanno tronchi dello spessore di una gamba. Il trifoglio è alto due metri e i garofani di Tea sono arbusti piú alti del rudere, con le radici risalite oltre il giardino fino a sconnettere i pavimenti delle stanze superiori. Si estendono soltanto colline e dirupi vegetali fino a dove è possibile vedere tra le cortine di pioggia.
In fondo, alla base dell’arco lucente, sta crescendo un lago e piú in alto sulla sinistra c’è una grande nuvolaglia di acidi e di gas liberi.
Il leccio appare perfino piú alto per effetto del fumo che adesso di giorno sprigiona con il calore. La pioggia confonde la vista, ma in compenso accresce l’olfatto. La pioggia è sempre piú fitta, con un moto che l’allarga in giro ma che d’un colpo la blocca e la riconduce su qualche punto vicino come su un centro. Niente naviga e niente si muove verso un altro posto. Dal leccio al lago di pioggia ci devono essere all’incirca dieci chilometri di distanza in quattro o cinque ordini vegetali.
Questo bosco variegato è una penisola legata a un continente dalla parte a destra del leccio, quella nascosta dalla sommità delle fronde.
Il leccio da vicino mischia all’odore un lezzo sorprendente, mentre continua ad agitare i rami per distribuire la pioggia. Intorno al tronco le luci affondano in un ordine scuro, ma penetrabile. Il lezzo aumenta e si distingue dagli effluvi della pioggia. Sotto l’albero ogni cosa riesce a sottrarsi all’acqua e a ritornare singola e poi a collocarsi dentro un vicinato della misura di un grande tendone da circo. Anche gli scrosci raschiano per conto loro, ma si ripetono nella propria cadenza... esattamente come il disco di Edith Piaf nei primi giri a vuoto lanciati al massimo dall’altoparlante del circo.
Adesso al momento preciso in cui avrebbe attaccato la voce, esplode il latrato. È vicinissimo e scoperto come una lama. Questa volta è modulato e meno forte. Ma fa lo stesso male alle orecchie e acuisce l’afrore del lezzo come se lo spalmasse sulle mucose.
Il nano, in fondo alla grotta del leccio, si tappa le orecchie e chiude gli occhi. Cerca di ripensare al disco di Edith Piaf e a come si metteva a trottare la gente sulla ghiaia davanti alle gabbie delle bestie feroci.
Il lezzo acido aguzza la vista. Al centro della grotta c’è un elefante e sopra la sua schiena siede una scimmia: una mano penzola rosa mentre l’altra è nascosta dentro l’orecchio del pachiderma. La scimmia ha la faccia girata tra la criniera e muove la coda spingendone la curva verso l’alto lentamente, con un tempo diverso da quello del moto pendolare della mano. Sotto l’elefante c’è un’oca, ritagliata nel bianco.
Dalla mano nascosta della scimmia scende una catena lungo il fianco dell’elefante. L’oca scuote le ali e il biancore scopre un giaciglio. All’altro capo della catena c’è un nano che sta sdraiato su un fianco: anch’egli, come la scimmia, volta la schiena. È rannicchiato sul giaciglio intorno alla catena. Sopra di lui c’è appeso un giaccone rossastro con tracce di alamari d’argento. La scimmia smuove la schiena con dei guizzi, alza la faccia ed emette un lungo sbadiglio. Nel viola della bocca brillano i denti bianchissimi.
È un babbuino amadriade dalla faccia scarlatta e dalla criniera verde-bruna. Gli occhi sono infossati e truci, quasi invisibili; ma se si fermano su qualcosa si allargano e crescono come un fuoco. Quando la scimmia li fissa contro la pioggia sono stretti da un pensiero la cui intensità li fa cambiare continuamente colore. Il babbuino risponde al nome di Epistola. Questo nome deve essergli stato messo dal capo del caravan-serraglio quasi certamente per un volgare doppio senso: Epistola come pistola e pistola come addolcimento labiale di quel prepotente e sproporzionato organo sessuale che tinge il terzo centrale del corpo dell’animale.
Epistola non aveva fatto in tempo a immalinconirsi dentro la gabbia che nel colmo del furore giovanile fu libero e padrone di altri, oltre che di se stesso e del suo smodato desiderio. Dentro la gabbia, quando aveva controllato e messo in ordine ogni cosa, compresi i resti del cibo, guardava il mondo davanti e poi se lo assumeva masturbandosi. Guardava le donne con libidine sempre fresca e non appena il disco di Edith Piaf riattaccava... In fondo al suo universo accanto ai tirassegni, la musica si rincorreva dalle cinque del pomeriggio a mezzanotte e durante i giorni festivi anche fino alle due-tre della notte. Epistola si fissava sulla bionda dello stand «Fotorapida» e vedeva esplodere le vampate di magnesio come segnali amorosi. La bionda capiva di essere osservata e manovrava con disagio i fucili e tutto il tiro e ancora con piú disagio si voltava dietro il bancone per raggiungere i bersagli sapendo di scoprire il culo e le gambe. Epistola dietro quei passi che seguivano le esplosioni si buttava contro le sbarre della gabbia e latrava da torcere le canne dei fucili in mano alla bionda.
– Che schifo quella scimmia, – diceva la bionda, ed Epistola la vedeva muovere le labbra come risposta amorosa al suo richiamo.
Il babbuino era l’unica scimmia di tutto il serraglio cosicché gli era dato riconoscersi soltanto negli umani; tanto piú che era nato in cattività e non aveva avuto altra storia che quella della gabbia. Non sapeva niente di libere foreste, né di famiglie scimmiesche, e quindi non aveva nostalgia né altri sentimenti che quelli della propria testa e della propria carne. Oltre all’amore provava furore contro la gabbia, per tutte le sbarre di ferro una per una e per le due pesanti pareti laterali. Una volta un individuo barbuto aveva provato ad ammaestrarlo e l’aveva liberato dalla gabbia, ma sempre tenendolo con una catena e pungendolo con una picca, anche questa dello stesso gusto delle sbarre. L’esperimento era finito cosí male da restare unico. Sparí il barbuto con un braccio di meno e sparirono alcuni dischi fra i piú noti di quelli chissà come sopravvissuti per quasi quattro secoli in fondo al baule della famiglia del domatore.
Seguí una serie di viaggi durante i quali Epistola restò spesso al buio e anche lontano dal carro della bionda tanto da non potere nemmeno piú sentirne l’odore. Cambiarono le disposizioni del tirassegno e restarono soltanto tre musiche, fra le quali la piú ripetuta il disco di Edith Piaf. Anche i percorsi di spostamento erano diventati piú lunghi e lenti. Finché una volta nel buio di una sosta improvvisa come la brusca fermata che l’aveva svegliato, Epistola vide filtrare luce tra le transenne di una parete: si accostò pieno di speranza e invece gli toccò di assistere all’abbraccio tra la sua bionda e un piccolo uomo bianchiccio.
Epistola guardava e si gonfiava finché la sua rabbia esplose con una violenza che sopraffece ogni cosa: lui stesso ne fu accecato e travolto.
Era ancora impressa la sparizione della bionda nella retina dei suoi occhi quando riprese forza. Non c’erano piú sbarre e pareti e nemmeno luci. Una polvere grigiastra riempiva l’aria e gli pungeva le nari. Cercò di cambiare posto, ma affondò dentro una cenere calda. Allora si mise a scavare perché voleva trovare una cosa dura sulla quale appoggiarsi per liberarsi della polvere.
Scavò con tutta la forza battendosi contro quella massa infuocata che ogni tanto gli incendiava il pelo. Era sul punto di cadere stremato quando toccò il tetto di un carro. Sentí che da dentro qualcuno chiamava con voce umana e fu invaso dalla speranza di ritrovare la bionda e di potere finalmente abbracciarla. Riprese a scavare finché non riuscí a liberare lo spigolo di un carro. Ma era quello degli animali in quarantena. Allungò il muso e si trovò di fronte, mentre il pelo gli prendeva un’altra volta fuoco intorno al collo, l’elefante, il nano e l’oca. Questi tre, che anelavano sicuri di essere salvati, furono terrorizzati ancora di piú da quegli occhi e dalle fiamme che circondavano il muso scarlatto. Epistola si spense il fuoco in ritardo per la delusione. La rabbia lo riprese e lo buttò sulle sbarre come sempre, ma con un dolore nuovo e ancora piú forte. La soddisfazione della vittoria si mutava nel rimorso di aver distrutto insieme con tutto ciò che glielo sottraeva anche l’oggetto del proprio desiderio.
Il carro del fieno e degli animali malati era il piú debole e cedette subito all’attacco cosicché la scimmia sprofondò cadendo sulla pancia dell’elefante. – Oddio, oddio! – si lamentò questi, – che proprio sulla pancia mi tocca sostenere la botte dei tre equilibristi.
L’elefante aveva riflessi e considerazioni suoi propri perché da sempre, da infinite generazioni, non sapeva cosa fossero libertà e indipendenza; aveva solo dovuto servire ed obbedire, fatto a quel modo pachidermico, proboscide, sventole auricolari, schiena carenata, zampe appunto per essere un servitore grosso, pluriattrezzato e disponibile.
L’oca era spaventata, ma anche di piú sospettosa; e s...