Il giro di vite
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Il giro di vite

Henry James

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Il giro di vite

Henry James

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Due bambini orfani vengono affidati alle cure di una giovane governante. Il clima iniziale è di idilliaca serenità, poi nella vicenda iniziano a insinuarsi le misteriose presenze di due servitori, ormai morti, che nella convinzione della governante hanno corrotto i bambini, e altri segnali inquietanti. I servitori sono davvero fantasmi? I bambini sono corrotti o innocenti? L'istitutrice è una visionaria? Molti critici hanno tentato di rispondere a queste domande. In realtà è proprio questa ambiguità il risultato a cui tendeva lo scrittore: fare del mistero lo strumento per costruire il più inquietante dei racconti.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858654729

IL GIRO DI VITE

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Il racconto ci aveva tenuti col respiro sospeso attorno al focolare, ma, salvo l’ovvia osservazione che era raccapricciante come è giusto che sia una strana storia narrata la vigilia di Natale in una vecchia casa, non ricordo che da principio suscitasse commenti, finché qualcuno accennò che era il primo caso a sua conoscenza, in cui una prova del genere fosse toccata a un fanciullo. Si trattava, rammento, d’una orrenda visione apparsa a un bimbo che dormiva nella camera della madre e atterrito la destava; e la madre, prima di riuscire a vincere il terrore del figlioletto e a riaddormentarlo, veniva a trovarsi ella pure, improvvisamente, davanti allo spettacolo che lo aveva sconvolto. Fu questa osservazione che, non sul momento ma più tardi nella serata, provocò da parte di Douglas una risposta sulla cui interessante conseguenza richiamo la vostra attenzione. Un altro dei presenti cominciò allora a raccontare una storia priva di particolare interesse, ma notai che Douglas non ascoltava. Compresi subito che aveva qualcosa da dire: non c’era che aspettare. E aspettammo infatti due sere; ma quella sera stessa, prima di separarci, egli ci partecipò quello che stava pensando.
— Convengo, nei riguardi del fantasma di Griffin o di quello che fosse, che il fatto di essere apparso prima che ad altri a un fanciullo, e in così tenera età, dia alla storia un mordente particolare. Ma, per quanto ne so, non è la sola volta che un così simpatico fenomeno accade a un bambino. Se il fatto che ci sia un bambino dà un giro di vite di più all’effetto, che direste, allora, di due bambini?...
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— Diremmo, naturalmente, — osservò qualcuno, — che darebbero due giri di vite! E che vogliamo saperne qualcosa di più.
Vedo ancora Douglas in piedi, appoggiato al camino, le mani in tasca, gli occhi fissi sul suo interlocutore.
— Finora sono il solo a sapere: è troppo orribile.
Subito parecchie voci dichiararono che ciò conferiva alla cosa un estremo interesse, e il nostro amico si preparò il trionfo con arte raffinata, girando gli occhi su di noi e aggiungendo:
— È una cosa che supera qualunque immaginazione; non conosco nulla che possa avvicinarvisi.
— Per lo spavento che suscita? — ricordo d’aver chiesto io.
Sembrò che egli volesse dire che la cosa non era tanto semplice, e che però non trovava parole per definirla. Si passò una mano sugli occhi e accennò a una smorfia dolorosa.
— Quanto a spavento... oh, sì, è spaventevole!
— Che bellezza! — esclamò una delle signore. Douglas non la udì nemmeno: guardava me, ma come se al mio posto vedesse quello di cui parlava.
— Per il suo insieme di laidezza, d’orrore e di dolore inumani.
— Allora, — dissi, — sedete e incominciate. Egli si voltò verso il fuoco, spostò un tizzone col piede e rimase un momento a fissarlo. Poi si rivolse di nuovo a noi:
— Non posso cominciare. Bisogna prima che scriva a casa.
Queste parole furono accolte da un mormorio generale di disappunto e da molte rimostranze. Al che egli, con fare preoccupato, spiegò:
— La storia è scritta; ma sta chiusa a chiave in un cassetto, e non ne è stata tratta da anni. Potrei scrivere al mio domestico mandandogli la chiave; mi farebbe recapitare il plico come si trova.
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Sembrava che rivolgesse la proposta a me personalmente, quasi implorandomi che l’aiutassi a superare le sue esitazioni. Aveva rotto uno strato di ghiaccio formatosi in chissà quanti inverni; chissà quali ragioni erano state responsabili di quel lungo silenzio. Perciò agli altri la dilazione dispiacque; ma quanto a me, erano proprio i suoi scrupoli a sedurmi. Lo scongiurai di spedire la lettera con la prima posta, e di mettersi d’accordo con noi per una sollecita lettura; poi gli chiesi se quella a cui si riferiva fosse stata un’esperienza sua. Questa volta la risposta fu pronta:
— No, grazie a Dio!
— E il racconto è vostro? L’avete scritto voi?
— l’impressione soltanto. E l’ho scritta qui... —e si toccò il cuore. — Non l’ho mai dimenticata.
— Ma il manoscritto, allora?...
— È vergato con un inchiostro ormai sbiadito e in una bellissima grafia. — Si avvicinò ancora al fuoco. — Di una donna: una donna morta da venti anni, che mi mandò quelle pagine prima di morire.
Ora stavamo tutti in ascolto, e qualcuno, naturalmente, cercò di scherzare, o meglio di trarre da quelle parole l’inevitabile conseguenza. Ma se negò questa senza sorridere, Douglas non dimostrò neppure di esserne minimamente irritato.
— Era una donna deliziosa, — disse lentamente, — ma di dieci anni più anziana di me: l’istitutrice di mia sorella. La donna più attraente che mi sia capitato incontrare in quella occupazione: avrebbe potuto svolgerne qualsiasi altra. È passato molto tempo da allora, e molto di più da questo episodio. In quell’epoca io ero al collegio Trinity, e la trovai in casa quando vi tornai per le vacanze del secondo anno. Quella volta mi trattenni a lungo in famiglia, perché la stagione era incantevole; nelle sue ore di libertà facevamo lunghe passeggiate o discorrevamo in giardino, e durante quelle conversazioni ero colpito dalla sua non comune intelligenza e simpatia. Oh, non sorridete: mi piaceva moltissimo, e ancora oggi mi lusingo di credere che le piacessi anch‘io; se no, non mi avrebbe raccontato ciò che non aveva mai raccontato a nessuno. E che non l’avesse raccontato a nessuno, lo credevo non soltanto perché me lo diceva: sapevo che era così; ne ero sicuro; lo sentivo. Ne capirete il motivo anche voi, quando mi avrete ascoltato.
— Perché quell’episodio l’aveva tanto sconvolta?
Continuò a guardarmi fisso.
— Lo capirete facilmente, — ripeté; — voi sì, lo capirete.
Gli ricambiai lo sguardo.
— Ho inteso: era innamorata.
Allora rise per la prima volta.
— Siete perspicace. Sì, era innamorata, o meglio lo era stata. Era evidente: non poteva raccontare la storia senza far sì che questo trapelasse. Me ne accorsi, ed ella lo capì; ma non ne facemmo parola. Ricordo il tempo e il luogo, il margine del prato, l’ombra dei grandi faggi e il lungo e caldo pomeriggio d’estate: non era ambiente per una storia da suscitare i brividi, ma...
Si allontanò dal fuoco e tornò a sprofondarsi nella poltrona.
— Riceverete il plico per giovedì mattina? — domandai.
— Non prima della seconda posta, probabilmente.
— Bene, allora, dopo pranzo...
— Vi ritroverò tutti qui? — E il suo sguardo si posò nuovamente su ognuno di noi. — Non parte nessuno? — Nella sua voce c’era quasi un accento di speranza.
— Ci saremo tutti.
— Anch‘io, anch’io! — esclamarono le signore che avevano già preannunciato la propria partenza. Ma la signora Griffin disse di aver bisogno di qualche schiarimento.
— Di chi era innamorata?
— Ve lo dirà il racconto, — mi presi la responsabilità di rispondere.
— Oh, non voglio aspettare il racconto!
— Il racconto non lo dirà, — precisò Douglas, —o almeno non lo dirà chiaro e tondo, a parole.
— Peccato, allora, perché quello è il solo modo che capisco.
— E voi non ce lo direte, Douglas? — chiese un altro.
Egli si alzò di nuovo. — Sì, domani. Ma ora devo andare a coricarmi. Buona notte. — E affrettatosi a prendere un candeliere, se ne andò, lasciandoci alquanto perplessi. Dal fondo del grande atrio scuro ci giunse l’eco dei suoi passi sù per le scale. Allora la signora Griffin disse:
— Bene, se non so di chi era innamorata lei, so di chi era innamorato lui.
— Ma lei aveva dieci anni di più, — osservò il marito.
— Ragione di più, a quell’età! Commovente, però, la sua lunga reticenza.
— Quarant’anni! — rincarò Griffin.
— E, alla fine, questa esplosione.
— l’esplosione, — replicai, — farà della serata di giovedì qualcosa di memorabile. — E si trovarono tutti così d’accordo con me, che nell’attesa non riuscì ad interessarci più nulla. L’ultima storia, per quanto incompleta e simile all’inizio di un racconto a puntate, era stata narrata; e con strette di mano e «strette di candeliere», come qualcuno disse, andammo a coricarci.
Seppi il giorno dopo che una lettera contenente la chiave era stata spedita da Douglas con la prima posta all’indirizzo del suo appartamento di Londra. Ma a dispetto o, forse, proprio a causa del diffondersi di questa notizia, lo lasciammo tranquillo sino a dopo il pranzo, sino all’ora, cioè, più indicata per il genere di emozione che ci aspettavamo da lui. Egli divenne allora generosamente comunicativo, e ce ne fornì persino la ragione. Rimanemmo ad ascoltarlo davanti al fuoco, nella stessa sala in cui, la sera prima, avevano avuto luogo le nostre vaghe congetture. Risultò che il racconto che ci aveva promesso di leggere aveva bisogno, per essere compreso, di qualche parola d’introduzione.
Mi sia lecito affermare, una volta per tutte, che tale narrazione, da me esattamente trascritta molto tempo dopo, è quella che darò qui appresso. Poco prima di morire, il povero Douglas mi consegnò il manoscritto che gli era stato recapitato tre giorni dopo la sera in questione, e che la sera seguente cominciò a leggere, nella cornice già descritta e creando un effetto senza pari, al nostro piccolo circolo attentissimo. Naturalmente, le signore che avevano dichiarato che sarebbero rimaste, grazie a Dio non restarono; partirono, costrette da impegni precedenti e in preda a una profonda curiosità, dovuta, sostenevano, ai particolari coi quali il narratore aveva già stuzzicato il nostro interesse. Così il piccolo uditorio divenne più intimo e più scelto, e si raccolse attorno al focolare in preda a un’emozione appassionante.
Per prima cosa Douglas ci avvertì che il racconto contenuto nel manoscritto iniziava la storia in certo modo già incominciata. Bisognava infatti sapere che la sua vecchia amica, la minore delle numerose figlie di un povero parroco di campagna, a venti anni, agli esordi della sua professione d’insegnante, si era recata un giorno a Londra, tutta trepidante, per rispondere di persona a un annuncio col cui inserzionista aveva già avuto un breve scambio di corrispondenza. Avvenne che il suo probabile padrone – al quale ella si presentò in una casa di Harley Street che la colpì per l’ampiezza e l’imponenza – era un nobile, uno scapolo nel fiore dell’età, un personaggio, insomma, che a una ragazza timida ed emozionata, proveniente da un presbiterio dell’Hampshire, poteva sembrare uscito da un sogno, o dalle pagine d’un romanzo d’altri tempi.
Il tipo è facile a descriversi, perché è uno di quelli che, fortunatamente, non scompaiono: bello, ardito e seducente, affabile, pieno di brio e di garbo. E, come era inevitabile, la colpì, con i suoi modi aristocratici e affascinanti; ma ciò che più di tutto conquistò la giovane e le ispirò quel coraggio che in seguito doveva dimostrare, fu che egli presentò la cosa quasi come una grazia, un favore di cui le sarebbe stato sempre obbligato. Ella lo giudicò ricco, ma di una stravaganza pazzesca: lo vedeva in un alone di raffinata eleganza, bellezza, prodigalità, galante cortesia La sua casa in città, vastissima, era piena di cimeli dei suoi viaggi e di trofei di caccia; ma egli la invitò a recarsi immediatamente nella sua casa di campagna nella contea di Essex, antica dimora della sua famiglia.
Egli era diventato, a causa della morte dei loro genitori, avvenuta in India, tutore di un nipotino e di una nipotina, figli di un suo fratello minore che aveva intrapreso la carriera militare e si era spento due anni prima. Quei bimbi, capitatigli così inaspettatamente sulle spalle, erano un grosso peso per un uomo nelle sue condizioni, senza esperienza di sorta e senza un briciolo di pazienza. Ne era derivata tutta una serie di noie, e, per colpa sua certamente, una catena d’errori; ma i poveri orfanelli gli ispiravano una profonda pietà, sicché aveva fatto per loro tutto il possibile: cioè li aveva mandati nell’altra sua casa, poiché era evidente che la campagna si addiceva loro assai meglio, e sin dall’inizio li aveva affidati al personale più idoneo che aveva potuto trovare, giungendo fino a separarsi dai propri servitori, a causa loro, ed a recarsi a visitarli quanto più spesso poteva, per vedere come stavano.
Il guaio maggiore consisteva nel fatto che in pratica essi non avevano altri parenti, e che gli affari personali assorbivano tutto il suo tempo. Li aveva alloggiati a Bly, luogo salubre e sicuro, e aveva messo a dirigere la piccola colonia – ma soltanto in funzione di capo dei domestici – un’ottima donna, la signora Grose, antica cameriera di sua madre, che, ne era sicuro, sarebbe piaciuta alla sua visitatrice. La signora Grose badava all’andamento domestico e adempiva anche, temporaneamente, al compito di governante della bimba, alla quale per fortuna era molto affezionata, non avendo figli propri. Il personale di servizio era numeroso; ma naturalmente la signorina inviata laggiù in veste d’istitutrice avrebbe rappresentato l’autorità più alta della casa. Durante le vacanze ella avrebbe dovuto sorvegliare anche il ragazzo che da un trimestre era in collegio, per quanto ancora in tenera età; ma come fare altrimenti? Le vacanze stavano per cominciare, e il bambino doveva rincasare da un giorno all’altro.
In un primo tempo i due fanciulli erano stati affidati a una signorina che avevano avuto la sventura di perdere. Si trattava di una persona degnissima, che aveva mirabilmente esplicato la proprie funzioni sino alla morte: grave contrattempo che non aveva lasciato altra alternativa se non quella appunto di mandare il piccolo Miles in collegio; e da allora la signora Grose aveva fatto quanto stava in lei per attendere all’educazione di Flora e perché nulla le mancasse. V’erano inoltre una cuoca, una cameriera, una donna addetta agli animali, un vecchio pony, un vecchio palafreniere e un vecchio giardiniere, tutti parimenti rispettabili.
Douglas era giunto a questo punto del racconto, quando gli venne rivolta una domanda:
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— E di che cosa era morta la prima istitutrice? Di troppa rispettabilità?
La risposta del nostro amico fu pronta:
— Lo saprete al momento opportuno. Non anticipiamo.
— Scusatemi: credevo fosse proprio quello che stavate facendo.
— Al posto della signorina che doveva succederle, — insinuai, — avrei desiderato sapere se il posto comportava...
— ... di necessità pericolo di morte? — finì Douglas, completando il mio pensiero. — Sì, ella desiderava saperlo, e lo seppe: in che modo, ve lo dirò domani. Frattanto, com’era naturale, la proposta le apparve sotto un aspetto preoccupante: ella era giovane, nervosa, inesperta; le si apriva dinanzi la prospettiva di gravi doveri che avrebbe dovuto adempiere da sola. Esitò, dunque: prese due giorni per riflettere e chiedere consigli; ma poiché l’onorario offerto superava di molto quanto mai potesse sperare, dopo un secondo colloquio decise di affrontare le condizioni, e accettò.
Douglas tacque, ed io ne approfittai per buttar lì, a beneficio della compagnia, questa osservazione:
— La morale della favola è che il giovane e affascinante gentiluomo esercitò una seduzione irresistibile, cui ella cedette.
Il narratore si alzò e, come la sera precedente, avvicinatosi al fuoco, respinse col piede un tizzone e rimase per un momento così, voltandoci la schiena.
— Lo vide due volte sole.
— Sì, ma proprio in questo è la bellezza della sua passione.
A queste parole Douglas si girò verso di me, non senza un certo stupore da parte mia.
— Sì, in questo fu la sua bellezza, — proseguì. — Altre non si erano lasciate commuovere. Egli le confessò francamente le difficoltà che incontrava nelle sue ricerche; a parecchie candidate le condizioni erano apparse impossibili: in certo qual modo, ne sembravano spave...

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