Premessa
«No busques refugio.
Puedes mirar a tu alrededor.
Puedes sonreír libremente.
Puedes pensar en mi extensa presencia.
Te está permitido emitir opiniones contrarias a la moral pública,
en mi presencia; alcayata de lo que fui, vecino de la otra orilla.»
Francisco Iñigo
Tra le mani
Dire luce è l’espressione di un concetto impossibile. Non si può dire la luce, come non si può vedere il verbo. Nei luoghi dell’immagine e della parola, si trovano gli estremi del pensiero estetico di María Zambrano. Gli stessi estremi che l’accompagneranno lungo tutta la sua vita. La pittura non l’ha mai abbandonata, come lei stessa dichiara nell’Introduzione alla prima e, fino a poco tempo fa, unica edizione di Luoghi della pittura (Editoriale Phaidos, Madrid 1989), titolo originale della prima parte della presente opera. Come la luce, la pittura è una presenza costante: l’immagine, il colore, la figura, il peso e le opere che nelle forme più diverse sono state parte d’un immaginario personale in cui sintetizzare, se non completare, i passaggi fondamentali del suo vasto e in parte ancora sconosciuto pensiero. L’immagine e il suo ruolo: ponendo questioni intorno alla pittura, gli scritti qui presentati si interrogano su cosa sia guardare l’arte, quale sia la sua ultima funzione, come essa si rapporti all’uomo e come egli la interpreti.
Già nel 1935 appaiono le prime notizie. Nostalgia della terra o Nasce la pittura sono i primi testi ai quali dobbiamo fare riferimento e nei quali Zambrano dedica una speciale attenzione alla creazione e alla pittura. Di tutte le arti, sarà quest’ultima a concentrare insieme alla poesia gran parte del suo interesse; ed è a essa che viene concessa un’autonomia piena, una sorta di statuto speciale.
In quest’ottica, il primo degli argomenti da trattare è come far fronte a una vasta, vastissima, produzione. María Zambrano è prolifica e non smette mai di scrivere. Scriverà ovunque, appuntando pensieri che poi abbandona o riprende. Durante i quarantaquattro anni che vivrà fuori dalla Spagna, si sposterà in vari paesi e continenti, dall’America all’Europa e viceversa. L’esilio è una condizione fondamentale, uno stato che marcherà in maniera profonda tutto il suo pensiero, facendo della condizione d’esiliata il vetro attraverso il quale tutto accade e tutto è. La sua concezione del tempo e dello spazio, della memoria e del presente, è la sua risposta a una solitudine esistenziale oltre ogni limite o verbo.
La circostanza reale dei suoi spostamenti e questo produrre di continuo fanno sì che l’impresa di raccogliere una selezione dei suoi testi rischi sempre di essere limitativa, esposta all’inconveniente di trascurare qualche documento, qualche saggio o articolo. D’altra parte, è da segnalare l’assenza di un programma che vada oltre un criterio meramente cronologico. María Zambrano non ha mai voluto ordinare il suo pensiero estetico dentro un qualche sistema o altri analoghi artifici. Non lo ha fatto per nessuna delle grandi questioni da lei affrontate e non lo farà nemmeno per la pittura.
I testi della presente opera vennero scelti per la maggior parte dalla stessa autrice: durante gli anni romani, la Zambrano aveva progettato la pubblicazione di un volume interamente dedicato alla pittura, che si sarebbe intitolato Spagna, luogo sacro della pittura. Un’opera che non vide mai la luce. Poi, nel 1989, Zambrano decise di mettere ordine, con l’aiuto di Amalia Iglesias e Rosa Mascarell, nell’ingente quantità di saggi da lei dedicati alla pittura: nacque così la prima edizione di Luoghi della pittura. In Spagna, l’opera è stata ripubblicata nell’ottobre del 2012, con la regia del filosofo e pensatore Pedro Chacón: un’edizione esaustiva e completa che è stata alla base della presente traduzione.
In Italia, Luoghi della pittura fu pubblicato in maniera parziale nel 2002, per opera di Rosella Prezzo (Editoriale Medusa). Alcuni dei saggi qui contenuti sotto lo stesso titolo, invece, sono parti integranti di altri volumi pubblicati in Italia. Tale è il caso di «Metodo» o «Il vuoto e la bellezza», entrambi contenuti nell’opera Chiari del bosco, edito dalla Feltrinelli e successivamente dalla Bruno Mondadori nella traduzione di Carlo Ferrucci. Paradossalmente, nonostante l’enorme interesse che il suo pensiero ha da sempre suscitato in Italia, la pittura e il suo pensiero estetico sono oggetto di approfondimento da relativamente poco tempo.
Nella selezione dei testi, così come è stata raccontata da Amalia Iglesias, si scelse di dividere l’opera in tre grandi blocchi: da una parte, i testi dedicati alla pittura in generale, nell’ordine cronologico in cui vennero scritti. In una seconda parte, e sempre nell’ordine cronologico con cui erano nati, i saggi dedicati a specifici pittori. Per ultimi, gli articoli apparsi in maniera puntuale in riviste o in altre opere ma che fanno riferimento alla pittura e alle arti in generale. Nel presente volume, si è stabilito di rispettare questo criterio. E anche se, alla luce dei posteriori approfondimenti, un ordine tematico faciliterebbe la lettura e la comprensione dell’opera, si è deciso lo stesso di rispettare la volontà dell’autrice e di continuare a dividerla in questi tre grandi blocchi: pittura, pittori e riflessioni sparse.
La cosa cambia però riguardo agli inediti e agli articoli che appaiono qui insieme ai Luoghi della pittura. La selezione di questi undici saggi, alcuni del tutto inediti sia in Spagna che in Italia e altri apparsi in pubblicazioni di diversa natura, risponde alla volontà di «dare luce» ampliando la visione, la comprensione, del pensiero estetico di María Zambrano.
I testi raccolti nell’Appendice comprendono un periodo che va dal 1935 al 1988, e si trovano nella loro totalità negli archivi della Fondazione María Zambrano, a Vélez-Málaga. Il criterio della selezione può sembrare non omogeneo: si è tentato sia di fornire nuovi spunti di riflessione, sia di dare visibilità a una scrittura spontanea, dotata a volte di grande profondità e spesso sostenuta da una raffinata ironia. Nei testi di nuova pubblicazione, appaiono alcuni abbozzi preparatori così come semplici riflessioni che saranno poi, quelli e queste, sviluppati in articoli posteriori, presenti anch’essi in questa raccolta. Tale è il caso di «Tempo e luce», il cui collegamento con «La pittura di Ramón Gaya» appare del tutto evidente. Sulla stessa linea si trovano «La grotta della pittura» e «Sogno e destino della pittura». Altri testi sono semplici appunti quasi di viaggio – è il caso de «Lo strano sorriso della Gioconda» o «Lo specchio» – oppure, come «L’attenzione» o «Mistero e distribuzione della luce», trattazioni di argomenti raramente toccati.
Su questa linea, il titolo dell’insieme della raccolta, volutamente ambiguo, allude a due termini fondamentali, parola e visione, che sintetizzandone da subito il tema indicano però anche che esso rimarrà, comunque, aperto. Dire luce è, in altre parole, una raccolta di testi che non pretende di essere né un riflesso della totalità del pensiero della Zambrano né, come in certi casi si potrebbe pensare, una serie di scritti specialmente rilevanti. Si tratta piuttosto di un ventaglio di riflessioni e, forse per questo motivo, il suo proposito è più ambizioso. Ciò non solo per la sovrabbondanza di alcuni argomenti, che vengono reiterati e sottolineati, ma anche per l’esigenza di occupare certi spazi di riflessione intorno alla Zambrano finora mai contemplati. Il rischio è alto.
Per la maggior parte, i testi sono il risultato di incontri effettivi con le opere, con gli autori, con i pittori. Nascono da un’esperienza reale e diretta che si presenta come ricordo o come risposta immediata alla visione. Per questo motivo, leggerli significa intervenire, partecipare, entrare in un dialogo aperto nato dal bisogno di raccontare l’accaduto. Essi non cercano di stabilire una tesi definitiva, né qualcosa di simile a un dogma; si tratta, piuttosto, di una lunga conversazione di cui il lettore è parte integrante. In essa, bisogna mettere in gioco se stessi, perché c’è spazio per nuove interpretazioni e interpretare è, in qualche modo, il compimento del testo.
Essere chiamati a partecipare a queste conversazioni con le opere d’arte significa essere chiamati a riconoscerci per quel che siamo, a seguire i passi di queste esperienze che ci costituiscono. Nel dialogo con la tradizione, con l’altro e con noi stessi, si inizia un gioco. La conversazione non è uno strumento ma un metodo, una prassi.
I saggi mantengono questa posizione aperta e sono sottilmente tessuti con i fili di Platone, Aristotele, Nietzsche, Jung e Heidegger per formare una fitta trama non finita. Già questo spazio privilegiato sarebbe sufficiente a sottolineare l’importanza di colei che è considerata una delle più importanti pensatrici spagnole del XX secolo. La sua interpretazione e la creazione di un metodo, la ragione poetica, coniugano i diversi pensieri senza limiti di tempo, attualizzandoli e dimostrando che essi sono i «nostri più antichi contemporanei». La lettura diventa, così, nuova e inedita. Nel gioco del fare e disfare, nasce la domanda, e nella domanda la convinzione che la vita è sempre lì che veglia: rivela e occulta, per citare Heidegger. L’inevitabile incertezza richiama uno spazio di luce, di visione, dove una nuova ragione si desta.
È la pittura, che mi ha portato a scrivere su di essa. Questi testi sono venuti nascendo nel corso di molti anni e in momenti diversi, senza un preesistente progetto unitario […]. È la pittura, che mi ha portato a scrivere su di essa. Le sono grata perché è stata come uno specchio dopo aver guardato nel quale non potevo non parlare, anche, di ciò che vedevo, per svelarlo, per svelare l’enigma che la pittura racchiude.
In queste parole dell’Introduzione, appaiono le ragioni fondamentali che attraversano, come un infinito leitmotiv, il pensiero di María Zambrano. L’avido lettore troverà già lì le battute che compongono la melodia. Le parole ci sono tutte: lo sguardo, lo specchio, il dono. Il ricordo e la presenza, l’enigma e lo svelamento. Sono le parole che, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, dal «periodo romano», formeranno parte del suo abbecedario.
Sebbene nei primi testi, Nostalgia della terra e La distruzione delle forme, le prema annunciare la fine della cultura d’Occidente, l’irrimediabile fallimento della Filosofia e l’urgenza di ritrovare un senso (materia) con e attraverso le arti, con l’arrivo a Roma e l’assimilazione dell’esilio, il pensiero della Zambrano assume la sua forma definitiva e l’arte trova un protagonismo inconsueto. È da segnalare che in questi anni, segnati dallo scoppio della violenza bellica e dall’inizio dell’esilio, di profonda riflessione sulla situazione europea – sintetizzata nell’opera L’agonia d’Europa (1945) –, Zambrano non si unisca al coro di quelli che dichiarano la fine, la morte, dell’arte, ma assimili quest’ultima come possibilità, come speranza.
L’arrivo a Roma segna l’inizio di un nuovo modo. La più profonda delle tristezze e la consapevolezza del non ritorno significano anche la definitiva liberazione dai precetti orteghiani e l’arrivo di altre letture, Jung e Bergson tra gli altri. La libertà e l’autonomia vanno prendendo forma man mano che l’esilio diventa definitivo e il desarraigo (sradicamento) è la nuova patria. Si fa strada, così, un universo di simboli. Leggerli (vederli) assomiglia alla lettura di un’opera di Joan Miró, dove ogni particolare forma parte da un equilibrio e l’equilibrio è un mondo composto da simboli che si ripetono, che s’improvvisano sparsi qua e là per ritrovare, infine, il proprio luogo.
Sarebbe il caso, allora, di seguire i consigli che Salvador Dalí offriva rispetto all’immagine: «Allontani, la prego (anche contro la sua volontà), gli occhi dal centro ipnotico di quella fotografia, e li rivolga con cauta aspettazione verso l’angolo inferiore sinistro».1 Leggere María Zambrano richiede che ci si allontani dal colore principale per trovare nei margini, nei meandri, il motivo che regge tutto il suo pensiero.
Leggere
Il compito portato avanti da María Zambrano consiste nell’individuazione delle forme di realizzazione della persona. Riguarda la natura conoscitiva dell’uomo: cosa egli può conoscere, come e in che modo avviene il contatto con l’altro, quando esattamente l’essere è in se stesso, compiuto, conforme. L’ontologia zambraniana è accompagnata da un ampio progetto etico e metafisico che si presenta con una terminologia simbolica a volte piuttosto ermetica. Nella sua formulazione, la Zambrano assegna un ruolo fondamentale alla creazione, che assimila a un luogo privilegiato della visione e a una forma di mediazione tra l’essere e l’altro. Si parte dal sospetto, dall’incontro con un’intuizione oscura: resistenza della realtà a essere pienamente conosciuta. La parola ordina la realtà, ma non la dà a conoscere. La parola poetica, invece, illumina, guida l’uomo in questo difficile compito di confronto, conoscenza, rivelazione. La ragione poetica, creatrice di uno spazio comprensivo, sorge come risposta a questa resistenza, come uscita dal sogno. Si tratta allora di vedere come questa conoscenza si dia. Non essendoci ormai dubbi sul compito della poesia, cercheremo qui di comprendere quale sia la funzione dell’immagine e se essa abbia o no qualcosa da dire nel difficile processo che l’uomo affronta.
A questo proposito, conviene soffermarsi un attimo sul linguaggio della Zambrano. Uno dei suoi tratti caratteristici è l’uso di un linguaggio simbolico, quasi, poetico. L’intenzionale ambiguità delle sue parole ha dato luogo, sulla base dei criteri filosofici più ortodossi, a critiche non sempre costruttive e poche volte azzeccate. In effetti, queste critiche confermano che l’esperimento è riuscito. Con l’intenzione di fare chiarezza su questo punto, vale la pena di prendere in esame l’uso che ella fa dell’analogia, del simbolo e della metafora. E siccome quel che a noi interessa è sapere cosa c’entri l’arte in tutto ciò, un’analisi in questi termini eviterà di indurci in errore.
Esiste una certa tendenza a pensare come equivalenti il simbolo e la metafora, o a credere che la metafora sia l’espressione di un rapporto simbolico, come se entrambi fossero due facce della stessa moneta, oppure l’una il prolungamento dell’altro. La differenza tra di essi risiede, secondo Michel Le Guern, nel ruolo che ricopre a ogni passo l’immagine. Nel simbolo, la percezione dell’immagine è necessaria per comprendere l’informazione logica contenuta nel messaggio. L’immagine simbolica richiede l’intellettualizzazione dell’analogia, mentre l’immagine metaforica ne prescinde: le è sufficiente svegliare l’immaginazione o la sensibilità. Nel rapporto simbolico, il legame tra il significante e l’elemento simbolizzato non è mai interrotto e, a differenza della metafora, il simbolo è una rappresentazione analogica che mantiene viva la coscienza dell’attribuzione di significato.
Questa coscienza si estende per analogia agli universi simbolici: nell’attività simbolica non c’è un’invenzione di significato, ma una costruzione di mappe d’equivalenze. Un rapporto simbolico non ha bisogno di postulare l’esistenza di una realtà fondamentale rappresentata da ogni singola costruzione, anzi, una costruzione simbolica può perfettamente essere simbolo e mediatrice tra altre due realtà.
In quest’universo di pensiero, i simboli stanno ai concetti ed essi, a loro volta, mutano e si arricchiscono di significato. Muta il senso mentre la parola rimane sempre la stessa. Ciò si spiega solo perché, nel pensare della Zambrano, non ci sono gli assiomi, le massime, ma le relazioni. Così, ogni singolo elemento deve essere preso in considerazione dentro il contesto concreto di quella precisa riflessione.
Nulla è quel che sembra e l’attenta lettura comporta la comprensione di una nuova lingua dove il simbolo sta all’idea, alla nozione storica, all’immagine o all’intuizione. Un dizionario unico: mondo, terra, materia, segreto. Anima, mistero, luce, aurora e sogno. Si potrebbe dire che questo è un tratto distintivo comune ad altri pensatori (Nietzsche) o alla fenomenologia (Heidegger) e, in effetti, lo è di pieno diritto, ma nel caso di María Zambrano la carica simbolica è cruciale perché, da una parte, ella coltiverà il saggio lirico come principale genere di scrittura, dall’altra metterà lei stessa in atto la ragione poetica. L’universo simbolico necessita allora dell’analogia e solo la coscienza di questa eco mutua e costante tra concetto e simbolo potrà guidarci verso un nuovo modo di vedere (vivere) l’arte.
Due precetti
Ci sono un’infinità di parole possibili, l’arte si chiama in molti modi. Essa è sempre stata oggetto di ammirazione, di studio, di riflessione, e, in ogni momento storico, ha dato la sua versione dei fatti. I fatti rimangono e, oltre ogni altra peculiarità, si può affermare che, se l’arte è qualcosa, è una questione d’esperienza: il rapporto tra soggetto e oggetto determina l’esistenza dell’opera. La visione è parte costitutiva dell’arte e l’interpretazione dona il senso ultimo all’opera. Per dirla con Gadamer, bisogna lasciar parlare l’opera. L’arte contemporanea ha portato all’estremo questo principio fino alla disintegrazione completa dell’oggetto e la scomparsa di ogni possibile traccia fisica. Dunque, l’opera esiste nel rapporto soggetto/oggetto in un gioco di aspettative e di sospetti.
Nella quotidianità, la realtà si adegua perfettamente, l’orizzonte corrisponde alla sua definizione, determinando, ogni parola, una minima frazione della nostra esperienza. Conosco il mondo perché esso corrisponde al concetto che ne ho. La prima, e forse più studiata, caratteristica dell’esperienza estetica, è la rottura di questo principio: straniamento e stupore sono i risultati di una discontinuità tra l’oggetto e la sua definizione. Essi accadono quando l’individuo si trova davanti a una realtà che non si presenta in forma abituale alla comprensione. Sono, per definizione, il contatto repentino con l’inatteso, e sollecitano entrambi una sospensione dell’attenzione, un tempo di discontinuità in cui individuare le nuove coordinate.
L’e...