La donna che trema
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La donna che trema

Breve storia del mio sistema nervoso

  1. 216 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La donna che trema

Breve storia del mio sistema nervoso

Informazioni su questo libro

«Un testo di un'intensità vertiginosa - brillante e convincente».
Don DeLillo «Il dono della Hustvedt è di scrivere con una chiarezza esemplare di un qualcosa di intrinsecamente ambiguo».
Hilary Mantel Mentre legge un discorso in memoria del padre, scomparso pochi anni prima, Siri Hustvedt è vittima di uno strano attacco: il suo corpo è scosso da un incontrollabile tremore, spasmi così violenti che quasi la fanno cadere. Eppure, come se fosse intrappolata in una bara di cristallo, Siri continua a parlare e la sua mente rimane lucida benché preda del panico di chi comprende di essere stato spossessato del dominio più intimo e peculiare: quello sul proprio corpo. A questo primo episodio ne seguiranno altri - spesso durante occasioni pubbliche, sempre in qualche modo legati al ricordo del genitore - che costringeranno la Hustvedt a interrogare questa «altra Siri» che, come un selvaggio Mr. Hyde, tiene in ostaggio l'io percepito (ma quanto illusoriamente?) come più autentico. Scoprire da dove viene, conoscerne la storia personale e culturale contro cui si staglia, provare a darle finalmente parola, significa anche riconoscere che la «donna che trema» non è dentro di lei, ma è lei.
Nasce così questo libro a metà tra le «memorie di una malata di nervi» e il saggio, tra ricordo personale e storia dei saperi (religiosi, filosofici, medici) che hanno indagato la psiche, un racconto in cui la letteratura scientifica si riverbera costantemente in quella narrativa.
Al termine della Tempesta, Prospero riconosce il mostruoso Calibano come proprio: ma anche la «donna che trema» è fatta della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni? Compagno segreto che sbuca fuori dalla stiva in cui sono stipati i ricordi e le paure, è forse il sintomo di una qualche repressione che inizia a emergere? Oppure è un disturbo totalmente fisico? Questa indagine insegna quanto sia ambiguo il confine tra fisico e psichico, tra corpo e coscienza: quella interiore è ancora la terra più misteriosa.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2011
Print ISBN
9788806206390
eBook ISBN
9788858404553
Quando mio padre morí ero a casa mia, a Brooklyn, ma solo qualche giorno prima sedevo accanto al suo letto in una casa di cura di Northfield, Minnesota. Era debole ma perfettamente lucido e avevamo parlato a lungo, e persino riso, anche se non ricordo il contenuto della nostra ultima conversazione. Mi sembra ancora di vedere, invece, la stanza in cui visse l’ultima parte della sua vita. Le mie tre sorelle, mia madre e io avevamo appeso qualche quadro alle pareti e comprato un copriletto verde pallido per rendere la stanza meno austera. Mio padre soffriva di enfisema, e sapevamo che non gli sarebbe rimasto molto da vivere. Mia sorella Liv, che abita in Minnesota, fu l’unica figlia che ebbe accanto l’ultimo giorno. Quando il polmone era collassato per la seconda volta, il medico aveva capito che non avrebbe superato un altro intervento. Mentre era ancora cosciente, ma non piú in grado di parlare, mia madre aveva telefonato a noi tre sorelle a New York, una a una, per farci parlare con lui. Ricordo perfettamente che mi ero soffermata a riflettere su cosa dirgli; chissà perché pensavo di dover scegliere attentamente le parole, per evitare che mi uscisse di bocca qualche banalità. Volevo dire qualcosa di memorabile, il che era assurdo perché la memoria di mio padre si sarebbe presto spenta, come tutto il resto. Ma quando mia madre gli accostò il telefono all’orecchio, riuscii solo a balbettare un «ti voglio tanto bene». In seguito mia madre mi disse che sentendo la mia voce mio padre aveva sorriso.
Quella notte sognai che ero con lui. Si protendeva verso di me e io mi allungavo per abbracciarlo, ma poi, prima che potesse stringermi, mi svegliai. Mia sorella Liv mi chiamò il giorno dopo, per dirmi che nostro padre era morto. Subito dopo la telefonata, mi alzai dalla sedia su cui sedevo, salii al piano di sopra e, nel mio studio, mi misi a scrivere il suo elogio funebre. Mi aveva chiesto lui di farlo. Parecchie settimane prima, quando ero al suo capezzale nella casa di cura, aveva accennato a «tre punti» di cui voleva prendessi nota. Non disse: «Voglio che figurino nel testo che scriverai per il mio funerale». Non fu necessario. Era implicito. Quando arrivò il momento non piansi, mi misi a scrivere. Al funerale lessi il discorso con voce ferma, senza lacrime.
Due anni e mezzo dopo, pronunciai un altro discorso in onore di mio padre. Ero di nuovo nella mia città natale, in Minnesota, sotto un cielo azzurro di maggio, nel campus del St. Olaf College, accanto al vecchio edificio che ospitava il dipartimento di norvegese dove mio padre aveva insegnato per quasi quarant’anni. Il dipartimento aveva piantato in sua memoria un pino di Norvegia, con sotto una piccola targa che recava la scritta: «Lloyd Hustvedt (1922-2004)». Mentre scrivevo quel secondo testo mi era quasi parso di sentire la sua voce. Mio padre scriveva discorsi brillanti e spesso molto divertenti, e mentre componevo il mio mi piaceva pensare di aver trasferito nelle mie frasi un po’ del suo umorismo. Avevo persino aggiunto: «Se mio padre fosse qui con noi oggi, avrebbe detto...» Sicura e armata di scaletta guardai la cinquantina di amici e colleghi di mio padre che si erano riuniti intorno al pino commemorativo, pronunciai la prima frase e incominciai a tremare visibilmente dal collo in giú. Le braccia erano percorse da spasmi. Mi sentivo battere le ginocchia. Ero scossa da fremiti violenti, come se fossi in preda a un attacco epilettico. Stranamente, la mia voce non era alterata. Non era cambiata affatto. Sconvolta da quello che mi stava succedendo e con il terrore di cadere, riuscii a mantenere l’equilibrio anche se i fogli che tenevo in mano mi svolazzavano sotto gli occhi. Terminato il discorso, il tremito scomparve. Mi guardai le gambe. Erano diventate rosso scuro, con una sfumatura azzurrognola.
Mia madre e le mie sorelle rimasero spaventate dalla misteriosa trasformazione del mio corpo. Mi avevano visto spesso parlare in pubblico, a volte di fronte a centinaia di persone. Liv disse che avrebbe voluto avvicinarsi e stringermi tra le braccia per tenermi ferma; mia madre che le era sembrato di assistere a un’esecuzione sulla sedia elettrica. Era come se una forza misteriosa si fosse impossessata all’improvviso del mio corpo e avesse deciso che avevo bisogno di una scossa potente. In un’altra occasione, nell’estate del 1982, avevo avuto la sensazione che una forza superiore mi afferrasse e sbattesse qua e là come una bambola: in una galleria d’arte di Parigi, il mio braccio sinistro si era drizzato all’improvviso e mi aveva spinto all’indietro, contro un muro. Il tutto non era durato piú di qualche secondo. Poco dopo mi ero sentita euforica, pervasa da una gioia sovrannaturale, e poi era arrivata la violenta emicrania che era durata quasi un anno, l’anno degli analgesici, l’anno di propranololo, cafergot, laroxyl, tofranil e melleril, di un cocktail di sonniferi che mi facevo prescrivere nella speranza di svegliarmi senza mal di testa. Niente da fare. Alla fine, lo stesso neurologo da cui ero in cura mi fece ricoverare e iniziare una terapia a base di un farmaco antipsicotico, la torazina. Quegli otto giorni di torpore nel reparto neurologia, con la mia compagna di stanza anziana ma sorprendentemente agile benché reduce da un ictus, che ogni notte veniva legata al letto con un sistema di cinghie dall’innocuo nome Posey e che ogni notte sfidava gli infermieri liberandosi da quelle pastoie e svignandosela nel corridoio, quegli strani giorni letargici, scanditi dalle visite di giovani in camice bianco che mi mostravano una matita chiedendomi cosa fosse, oppure mi domandavano la data e l’anno e il nome del presidente, mi punzecchiavano con minuscoli aghi («Lo sente questo?»), e dalle rare apparizioni dello Zar del Mal di testa in persona, il dottor C., che in genere mi ignorava e sembrava irritato dal fatto che, oltre a non collaborare, non migliorassi, quei giorni mi sono rimasti impressi come la piú nera delle commedie nere. Nessuno capiva veramente cosa ci fosse in me che non andava. Certo, potevano dargli un nome, sindrome da emicrania vascolare, ma nessuno riusciva a spiegare perché fossi diventata un mal di testa ambulante, un enorme, penoso, opprimente mal di testa da dare il vomito, un Humpty Dumpty dopo la caduta.
I miei viaggi nel mondo della neurologia, della psichiatria e della psicanalisi, erano incominciati molto prima del ricovero al Mount Sinai Hospital. Soffro di emicrania fin da bambina e mi ha sempre incuriosito quell’insieme di dolori, capogiri, divina euforia, sprazzi di luce e buchi neri, e quella mia unica allucinazione, un omino rosa e un bue rosa sul pavimento della mia camera. Leggevo di questi misteri già da molti anni prima del tremito violento che mi travolse quel pomeriggio a Northfield. Ma le mie ricerche si intensificarono quando decisi di scrivere un romanzo in cui avrei rivestito il ruolo di uno psichiatra/psicanalista, un uomo che ero arrivata a considerare come un fratello immaginario, Erik Davidsen. Cresciuto in Minnesota da genitori molto simili ai miei, il mio personaggio era il figlio maschio mai nato nella famiglia Hustvedt. Per diventare Erik mi buttai nei tortuosi meandri delle diagnosi psichiatriche e incominciai ad acquisire dimestichezza con le varie classi di farmaci. Comprai un manuale di test per l’esame di abilitazione alla professione psichiatrica nello Stato di New York, e mi esercitai. Leggevo sempre piú testi di psicanalisi e un numero infinito di resoconti di malattie mentali. Stregata dalle neuroscienze, frequentavo assiduamente gli incontri mensili sulla scienza del cervello al New York Psychoanalytic Institute e fui invitata a partecipare a un gruppo di discussione che si dedicava a un nuovo campo: la neuropsicanalisi.
In quel gruppo, neuroscienziati, neurologi, psichiatri e psicanalisti erano alla ricerca di un terreno comune in cui potessero confluire le intuizioni dell’analisi e i piú recenti risultati della ricerca sul cervello. Mi comprai un cervello di gomma e imparai a distinguere le varie parti; ascoltavo molto e leggevo di continuo. Anzi, leggevo in maniera ossessiva, come mio marito mi ha fatto spesso notare. Gli sembrava addirittura che quelle mie letture voraci assomigliassero a una dipendenza. Poi mi offrii come volontaria per tenere un corso settimanale di scrittura ai pazienti della Payne Whitney Psychiatric Clinic. In ospedale, mi ritrovai vicino a esseri umani affetti da malattie complicate, che spesso somigliavano ben poco alle descrizioni catalogate nel DSM – il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders – ovvero il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quando mi misi a tremare davanti all’albero di mio padre, ero immersa già da anni nel mondo del cervello/mente. Un semplice interesse per i misteri del mio sistema nervoso si era trasformato in una passione divorante; la curiosità intellettuale per i propri disturbi nasce senza dubbio dal desiderio di poterli controllare. Se anche non fossi riuscita a curarmi, forse avrei potuto almeno cominciare a capire me stessa.
Ogni malattia è come un corpo estraneo, un’intrusione e perdita di controllo che risulta evidente nella scelta delle parole che usiamo per descriverla. Non si dice «Sono un cancro» e nemmeno «Sono canceroso», anche se in realtà non c’è nessuna invasione batterica o virale in corso; sono le cellule del nostro stesso corpo che impazziscono. Diciamo dunque «Ho il cancro». Le malattie neurologiche o psichiatriche invece sono diverse perché spesso attaccano la fonte stessa di ciò che l’individuo immagina come il proprio sé. Non ci sembra strano sentir dire «È epilettico», e nelle cliniche psichiatriche è normale che i pazienti si descrivano con «Be’, sa, sono bipolare» oppure «Sono schizofrenico». Malattia e personalità combaciano perfettamente in queste frasi. La mia identificazione con la donna che trema era parziale: dal mento in su ero quella di sempre, dal collo in giú un’estranea in preda ai tremori. Qualunque cosa mi fosse accaduta, qualunque nome venisse assegnato al mio disturbo, le mie strane crisi dovevano avere una componente emotiva in qualche modo collegata a mio padre. Ma c’era un problema: non mi ero emozionata. Mi ero sentita perfettamente calma, lucida. Era successo qualcosa di molto strano in me, ma cosa esattamente? Cosí, decisi di andare in cerca della donna che trema.
Da secoli i medici indagano su convulsioni come le mie. Sono molti i disturbi che possono causare tremore, ma non è sempre facile distinguerli. Da Ippocrate in poi, fare una diagnosi è equivalso a riunire un gruppo di sintomi sotto lo stesso nome. L’epilessia è la piú famosa delle malattie convulsive. Se fossi stata una paziente del medico greco Galeno, che aveva in cura l’imperatore Marco Aurelio e i cui numerosi scritti influenzarono la storia medica per centinaia di anni, mi avrebbe diagnosticato una malattia convulsiva, scartando però l’ipotesi dell’epilessia. Per Galeno, l’epilessia non provocava solo convulsioni in tutto il corpo, ma interrompeva le «funzioni principali»: consapevolezza e uso della parola1. Sebbene tra i Greci fossero diffuse varie credenze popolari secondo cui dei e fantasmi potevano indurre forti tremori negli esseri umani, la maggior parte dei medici aveva una visione naturalistica del fenomeno, e fu solo con l’avvento del cristianesimo che convulsioni e soprannaturale andarono a formare uno sconcertante binomio. La natura, Dio e il diavolo potevano squassarti il corpo, ma gli esperti di medicina faticavano a isolare, fra queste, la vera causa. Come si può scindere un’azione della natura da un intervento divino o da una possessione demoniaca? Le agonie parossistiche e le sincopi di santa Teresa d’Avila, le sue visioni e le estasi erano voli mistici verso Dio, ma le giovani di Salem che si contorcevano e tremavano erano vittime delle streghe. In A Modest Inquiry into the Nature of Witchcraft, John Hale descrive gli attacchi di cui erano preda alcuni bambini, notando però che quelle sofferenze estreme «andavano ben oltre gli effetti di qualsiasi crisi epilettica o malattia naturale»2. Se il mio attacco convulsivo fosse avvenuto durante il periodo della caccia alle streghe di Salem, le conseguenze sarebbero potute essere ben peggiori. Di sicuro sarei sembrata posseduta. Ma non solo: se fossi stata una seguace delle credenze religiose dell’epoca – cosa assai probabile – la strana sensazione che qualche forza esterna fosse penetrata nel mio corpo per provocare quei tremori sarebbe bastata a convincermi di essere vittima di stregoneria.
Nella New York del 2006 nessun medico sano di mente mi avrebbe mandato da un esorcista, eppure la diagnosi rimaneva incerta. I parametri per inquadrare le malattie convulsive erano forse cambiati, ma comprendere esattamente quello che mi era successo non sarebbe stato semplice. Potevo andare da un neurologo per capire se si trattava di epilessia, anche se la mia esperienza al Mount Sinai Hospital mi aveva reso diffidente nei confronti dei medici che indagavano sul sistema nervoso. Sapevo che per ottenere una diagnosi di epilessia bisognava avere avuto almeno due attacchi. Ero convinta di aver subito di sicuro una crisi prima che incominciasse quell’incurabile emicrania, ma sulla seconda nutrivo qualche dubbio. In alcuni casi di attacco epilettico si possono verificare tremori incontrollabili, ma i miei interessavano entrambe le parti del corpo – e poi avevo continuato a parlare per tutta la durata della crisi. Quanti riescono a parlare durante un attacco epilettico? Inoltre, non avevo avuto aura, né avvisaglie di eventi neurologici, come spesso mi capita con l’emicrania, e il tutto era iniziato e finito con il discorso su mio padre. Conoscendo la mia anamnesi, sapevo che un neurologo scrupoloso mi avrebbe fatto un elettroencefalogramma. Sarei dovuta rimanere sdraiata per parecchio tempo con il cranio ricoperto di elettrodi viscidi, e probabilmente il medico non avrebbe trovato niente. Ovviamente molti soffrono di crisi che non vengono identificate con gli esami standard, quindi il medico ne avrebbe prescritti degli altri. Forse dovevo tremare di continuo per arrivare a una diagnosi, altrimenti ero condannata a fluttuare nel limbo dei disturbi sconosciuti.
Da tempo tentavo di risolvere il mistero dei miei tremori quando, un giorno, mi si presentò una possibile risposta. Non emerse gradualmente, ma all’improvviso, come un’epifania. Ero seduta al mio solito posto all’incontro mensile sulla neuroscienza, e ricordai una breve conversazione con una psichiatra che, in un precedente incontro, era seduta dietro di me. Le avevo chiesto dove lavorava e cosa faceva, e lei mi aveva spiegato che lavorava in un ospedale in cui visitava soprattutto pazienti con «disturbi da conversione». «I neurologi non sanno cosa fare, – mi aveva spiegato, – e cosí li mandano da me». Ecco! pensai. Il mio era stato un attacco isterico. Quest’antica parola è stata quasi del tutto eliminata dal discorso medico attuale, e sostituita da disturbo da conversione, ma dietro quel termine di recente invenzione aleggiava, come un fantasma, quello vecchio.
Ogni volta che la parola isteria viene usata in giornali e riviste, l’autore puntualizza immancabilmente che la sua radice deriva dal termine greco per indicare l’utero. Sottolinearne l’origine come problema prettamente femminile collegato agli organi riproduttivi serve a ricordare al lettore che il termine stesso riflette un antico pregiudizio contro le donne, ma la sua storia è molto piú complicata della misoginia. Galeno sosteneva che l’isteria colpisse principalmente donne nubili o vedove, che non avevano un’attività sessuale, ma era convinto che non fosse una forma di pazzia, perché non implicava necessariamente danni psicologici. I medici dell’antichità sapevano bene che le crisi epilettiche e isteriche potevano assomigliarsi, e che era fondamentale riuscire a distinguerle. Ma evidentemente la confusione non si è mai risolta. Il medico Antonio Guainerio, vissuto nel Quattrocento, credeva che l’isteria fosse provocata dai vapori che salivano dall’utero e che si differenziava dall’epilessia perché la persona isterica ricordava tutto ciò che accadeva durante la crisi3. Il grande medico inglese del Seicento, Thomas Willis, scagionò l’utero da ogni responsabilità e associò sia l’isteria sia l’epilessia al cervello. Ma le teorie di Willis non dominarono a lungo la scena scientifica. Alcuni credevano che le due patologie fossero semplicemente forme diverse della stessa malattia. Il medico svizzero Samuel Auguste David Tissot (1728-97), rimasto nella storia della medicina soprattutto per il suo notissimo trattato sui pericoli della masturbazione, sosteneva che le due malattie fossero distinte, nonostante alcune forme di epilessia avessero origine nell’utero4. Dai tempi antichi fino a tutto il Settecento la scienza vide l’isteria come una malattia convulsiva che aveva origine in qualche parte non precisata del corpo – l’utero, il cervello o un arto –, e le persone che ne soffrivano non erano considerate pazze. È verosimile immaginare che, se uno dei medici appena citati avesse assistito al mio convulso discorso commemorativo, mi avrebbe diagnosticato l’isteria. Le mie funzioni superiori non si erano interrotte, ricordavo perfettamente la mia crisi e ovviamente, in quanto donna, il mio utero poteva produrre vapori o comunque essere malato.
È interessante capire quando l’isteria iniziò a essere associata esclusivamente alla mente. Nel parlare quotidiano, il termine viene utilizzato per indicare eccitabilità o emotività eccessiva. L’isteria richiama alla mente l’immagine di una persona che urla, che ha perso il controllo, di solito una donna. Qualunque cosa stesse succedendo al mio corpo dal collo in giú, ero lucida e parlavo con calma, quindi non ero isterica in quel senso. Oggi il disturbo da conversione è classificato come problema psichiatrico, non neurologico, il che spiega perché lo associamo ai problemi mentali. Nella quarta edizione del DSM, il disturbo da conversione è incluso tra quelli somatoformi – cioè che presentano sintomi legati al corpo e alle sensazioni fisiche5. Ma negli ultimi quarant’anni il termine utilizzato per definire la malattia e la sua classificazione ha subito diverse modifiche. Nel DSM-I (1962) veniva chiamato reazione di conversione, mentre il DSM-II (1968) lo includeva nel gruppo dei disturbi dissociativi identificandolo come nevrosi isterica (tipo conversivo). Evidentemente nel ’68, gli autori intendevano ritornare alle radici della malattia recuperando il termine isteria. Dissociazione è un termine molto ampio, utilizzato in vari modi per indicare una certa forma di allontanamento o di rottura rispetto alla condizione ordinaria del sé. Si dice per esempio che una persona è in stato dissociato quando ha un’esperienza extracorporea, oppure se è tormentata dalla sensazione che il mondo non sia reale. Quando uscí il DSM-III (1980), il termine isterico era svanito, rimpiazzato da disturbo da conversione, un problema somatoforme, che rimase invariato anche nel DSM-IV. Tuttavia, il manuale dell’Organizzazione mondiale della sanità, ICD-10 (1992), ovvero la classificazione internazionale delle malattie, non concorda, e lo definisce disturbo dissociativo (da conversione). Potrà sembrarvi tutto molto confuso, e lo è. Evidentemente gli autori dei testi diagnostici di psichiatria non sanno dove collocare l’isteria.
Su alcuni punti, però, i testi concordano. I sintomi del disturbo da conversione spesso simulano quelli neurologici: paralisi, convulsioni, difficoltà a camminare, deglutire o parlare, cecità e sordità...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. La donna che trema
  5. Ringraziamenti
  6. Note