Impressioni di viaggio. Italia
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Impressioni di viaggio. Italia

  1. 272 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Impressioni di viaggio. Italia

Informazioni su questo libro

Dall'agosto al dicembre 1828, Heinrich Heine compì un viaggio in Italia che, dal Brennero attraverso Trento, Verona; Milano e Genova, lo condusse fino in Toscana. Le sue impressioni sul paesaggio e la cultura italiana hanno poco a che vedere con una vera e propria relazione di viaggio. Si tratta piuttosto di godibilissimi racconti lirici che catturano l'attenzione del lettore attraverso le mille rifrazioni della divagazione, dell'ironia, della fantasticheria, della polemica anche personale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817128377
eBook ISBN
9788858656877

I BAGNI DI LUCCA

Io sono come donna all’uomo...
Conte August von Platen Hallermünde.

Se il Conte un balietto vuol fare,
Ha soltanto da dirlo,
Che io l’accompagno.
Figaro.
A KARL IMMERMANN, POETA, QUESTE PAGINE SONO DEDICATE IN SEGNO DELLA PIÙ CORDIALE AMMIRAZIONE.

I

Quando entrai, Matilde aveva finito di abbottonarsi l’amazzone verde e stava per mettersi un cappello dalle piume bianche. Appena mi vide lo buttò via e, in un ondeggiare di riccioli d’oro, mi si precipitò incontro.
— Dottore del cielo e della terra! — esclamò e, secondo una sua vecchia abitudine, mi prese per i lobi delle orecchie e mi baciò con l’effusione più chiassosa. – Come va, oh il più folle dei mortali? Sono felice di rivederla, giacché un uomo più pazzo non lo troverò mai, su questa terra. Stolti e babbei ce n’è a bizzeffe, e molte volte gli si fa l’onore di crederli pazzi; ma la vera follia è rara come la vera saggezza; forse non è che saggezza disgustatasi di saper tutto, tutte le infamie di questo mondo, e perciò giunta al saggio consiglio di impazzire. Gli orientali, che sono popoli intelligenti, onorano un pazzo come se fosse un profeta; noi, invece, ogni profeta lo consideriamo pazzo.
— Ma, milady, perché non mi ha scritto?
— Certo che le ho scritto, dottore; una lunga lettera con tanto di indirizzo: Da consegnare a New-Bedlam.1 Ma poiché, contro ogni previsione, lei non c’era, la lettera fu rispedita a Saint Luze e, poiché non risultava neppur lì, proseguì per uno stabilimento confratello, e fece tutto il giro dei manicomi d’Inghilterra, Scozia e Irlanda, finché mi tornò indietro con l’annotazione che il gentiluomo di cui nell’indirizzo non era stato ancor ricoverato. Ma, a proposito, come ha fatto a rimanere a piede libero, lei?
— L’ho fatta da furbo, milady. Dovunque andassi, son sempre riuscito a girare al largo dai manicomi, e penso che ci riuscirò anche in Italia.
— Oh, qui è al sicuro, amico mio; prima di tutto, manicomi qui intorno non ce ne sono; in secondo luogo, siamo noi in sopravvento.
— Noi? Dunque, milady si considera dei nostri? Permetta che le dia in fronte un bacio da fratello!
— Bah, volevo dire noi bagnanti, tra i quali, per la verità, io sono ancora la più savia... Si faccia dunque un’idea della più pazza, Giulia Maxfield, la quale continua a sostenere che gli occhi verdi significano primavera dell’anima. E poi, abbiamo due giovani bellezze...
— Inglesi, senza dubbio, milady...
— Che significa codesto tono beffardo, dottore? Le facce giallo-grasse da maccheroni le piacciono tanto, qui in Italia, da non aver più gusto per le inglesi?
— Plumpuddings2 con occhi di zibibbo, seni di rosbiffe con festoni di rapanelli bianchi, pasticci superbi...
— Ci fu un tempo, dottore, che, a vedere una bella inglesina, lei andava in visibilio...
— Sì, un tempo! Non che non sia più disposto a rendere omaggio alle sue compaesane: sono belle come il sole, ma un sole di ghiaccio; sono bianche come il marmo, ma anche fredde come marmo... sui loro cuori frigidi si muore congelati...
— Oh! Conosco un tale che non è affatto morto; anzi, ha attraversato la Manica sano come un pesce, ed era un tedescone impertinente...3
— Comunque, s’è talmente infreddolito, ai gelidi cuori britannici, che ha ancora addosso il cimurro.
Di questa risposta, milady parve piccata; brandì il frustino infilato a guisa di segnalibro nelle pagine di un romanzo; lo fece guizzare alle orecchie del bianco levriere, che ringhiò sommesso; raccolse in fretta il cappello, lo posò con aria spavalda sulla testolina ricciuta, si guardò e riguardò compiaciuta nello specchio, e disse con orgoglio: — Sono ancora bella, però! — Ma d’un tratto rimase lì, come vinta da un oscuro senso di pena, si tolse lentamente il guanto bianco, mi tese la mano e, cogliendo al volo il mio pensiero, disse: — Vero che questa mano non è più bella come ai tempi di Ramsgate? Matilde ha molto sofferto, da allora!
Lettore caro, non è facile scoprire dove una campana sia incrinata: è solo dal suono che ci se ne accorge. Avessi sentito il timbro con cui queste parole furon dette, capiresti subito che il cuore di milady è una campana del metallo migliore, ma una segreta incrinatura ne attenua le vibrazioni più gaie e le vela di una misteriosa tristezza. Ma io voglio bene, a questo tipo di campane; nel mio cuore esse trovano sempre un’eco affettuosa: e baciai la mano di milady quasi con più tenerezza di una volta, sebbene fosse meno florida e qualche vena troppo azzurra e marcata sembrasse dirmi: «In verità, Matilde ha molto sofferto, da allora».
Il suo occhio mi guardò come una malinconica stella solitaria nel cielo autunnale e, tenera, dolce, mi disse: – Sembra che lei non mi ami più molto, dottore. Solo per compassione, come un’elemosina, la sua lacrima è caduta sulla mia mano.
— Chi l’autorizza a interpretare così volgarmente il linguaggio muto delle mie lacrime? Scommetto che il suo levriere, che ora le si stringe contro, mi capisce meglio; guarda me e poi lei, e sembra stupito che gli uomini, questi superbi padroni del mondo, siano, nel fondo di se stessi, tanto infelici. Ahi, milady, solo un dolore affine può strapparci le lacrime, e ognuno, in fondo, piange soltanto per sé.
— Basta, basta, dottore! C’è almeno da ringraziare che siamo contemporanei, e ci siamo trovati, con le nostre lacrime pazze, nello stesso angolino di terra. Oh, è un guaio che lei non sia vissuto due secoli prima, come è capitato al mio amico Miguel Cervantes de Saavedra, o non sia venuto al mondo un secolo dopo, come un altro mio amico intimo di cui non so neppure il nome, giacché ne avrà uno soltanto alla sua nascita, anno Domini 1900! Ma via, racconti come se l’è passata, dall’ultima volta che ci siamo visti!
— Ho fatto come al solito, milady; ho continuato a rotolare la gran pietra, e appena l’avevo spinta a metà montagna, di colpo ruzzolava in fondo e bisognava ricominciare daccapo; un su e giù che cesserà solo il giorno ch’io stesso rimanga sotto la gran pietra e Mastro Scalpellino ci scriva sopra, in maiuscolo: «Qui riposa in Dio...».
— Per bacco, dottore, non le darò tregua... Basta con le malinconie! Rida, se non vuole che...
— No, non mi stuzzichi, preferisco ridere da me.
— E sia. Lei mi piace esattamente come a Ramsgate, dove ci siamo per la prima volta avvicinati.
— E più che avvicinati! Sì, voglio essere allegro. È una fortuna che ci si sia rivisti; così il tedescone... avrà un’altra volta il piacere di rischiare la vita al suo fianco.
Gli occhi di milady ridevano come i raggi del sole dopo un leggero acquazzone, il suo buonumore ricominciava a scintillare, quando John entrò e, col più solenne pathos da lacchè, annunciò Sua Eccellenza il marchese Cristoforo di Gumpelino.
— Sia il benvenuto! E lei, dottore, potrà conoscere un pari del nostro Regno dei Matti. Non si lasci urtare dal suo aspetto esterno, massime dal naso. Ha qualità preziose: molti soldi, buonsenso, e la smania di riunire tutte le follie del secolo, senza contare ch’è innamorato della mia verde-occhiuta amica Giulia Maxfield, e chiama lei la mia Giulietta e se stesso Romeo, e declama e sospira... e lord Maxfield, il cognato, cui la fedele Giulia è stata affidata dal marito, è un vero Argo...
Stavo per osservare che Argo custodiva una vacca, quando la porta si spalancò e, con mia somma meraviglia, rotolò dentro, col suo sorriso beato e la sua pancia in grazia del Signore, il mio vecchio amico banchiere Christian Gumpel. Dopo aver forbito alla mano di milady le labbra grosse e lustre, e snocciolate le solite domande sulla sua salute, anche lui mi riconobbe... e l’amico si buttò nelle braccia dell’amico.

II

Matilde aveva mille ragioni di ammonirmi che non mi lasciassi urtare da quel naso: poco mancò, infatti, che mi cavasse un occhio. Non ne dirò male, per questo: tutt’altro, era della forma più nobile, e autorizzava il mio amico a farsi precedere, come minimo, dal titolo di marchese. Glie lo si vedeva dal naso ch’era di sangue nobile; che discendeva da un’antichissima famiglia mondiale con cui, senza tema di mésalliances, perfino il buon Dio si è, ai tempi, imparentato. È vero che da allora la famiglia è un tantino decaduta e, fin da Carlo Magno, è perlopiù costretta a guadagnarsi di che vivere commerciando in calzoni vecchi e in cartelle della lotteria di Amburgo; non ha però perso nulla dell’antica albagia, né ha abbandonato la speranza di riottenere gli antichi possessi, o, quanto meno, il congruo indennizzo dovuto agli emigrati, non appena il legittimo sovrano manterrà quella tal promessa di restaurazione, con cui da duemila anni li va menando per il naso. Che appunto per questo eterno esser-menati-per-il-naso, i loro nasi si sian tanto allungati? O che siano una specie di livrea, dalla quale il Dio-Re Geova riconosce le antiche guardie del corpo, anche se han disertato? Comunque, il marchese Gumpelino, che di questi disertori era uno, continuava a portare la livrea, e una livrea splendida, tempestata di crocette e stellucce di rubini, con l’ordine dell’aquila rossa in miniatura e altre decorazioni.
— Vede? — disse milady. — Questo è il mio naso preferito: in tutto il mondo, non conosco fiore più bello.
— Questo fiore, — sogghignò Gumpelino, — non potrei posarlo sul suo splendido seno, milady, senza posarvi anche la mia faccia ardente e, col caldo che fa oggi, quest’appendice le darebbe un bel fastidio. Ma le porto un fiore non meno prezioso, e qui rarissimo...
Così dicendo, il marchese aprì l’involto di carta velina che teneva in mano e con mille riguardi ne trasse un magnifico tulipano.
Appena milady vide questo fiore, si mise a gridare a squarciagola:
— Uccidermi! uccidermi! Lei vuole uccidermi! Lungi da me l’orribile vista! — E, agitandosi come se volessero ammazzarla, si nascose gli occhi con le mani, corse come un’indemoniata per la stanza, maledisse il naso e il tulipano di Gumpelino, suonò il campanello, batté i piedi, frustò il cane da farlo guaire e, quando John comparve, gridò, come Kean nel Riccardo III:
Un cavallo! Un cavallo
Il mio regno per un cavallo!
e, come un ciclone, si precipitò fuori.
— Strana donna! — disse Gumpelino impietrito dallo stupore, tenendo il fiore per il gambo come certi idoletti che si vedono, con un fiore di loto in mano, sugli antichi monumenti dell’India. Ma io, che la sapevo lunga su milady e sulle sue idiosincrasie, e mi ero divertito un mondo a quella scena, aprii la finestra e gridai: — Che cosa dovrò pensare di lei, milady? È senno, questo, moralità e, soprattutto, amore?
Da sotto, rise selvaggia la risposta:
Appena sarà in sella,
Che t’ama giurerà
Per sempre la tua bella!

III

— Strana donna! — ripeté Gumpelino, mentre ci dirigevamo verso la casa delle sue due amiche signora Letizia e signora Francesca, alle quali voleva presentarmi. Poiché queste due dame abitavano su una collina un po’ discosto, riconobbi con molta gratitudine la bontà del mio corpulento amico, il quale, trovando un po’ faticosa l’ascesa, su ogni collinetta si fermava a riprender fiato e sospirava: — Gesummio! — Ai Bagni di Lucca, le abitazioni sorgono o in un villaggio circondato da alture o su una di queste, non lungi dalla sorgente principale, dove un pittoresco gruppo di case guarda giù nell’incantevole valle. Ma ve ne sono anche di sparpagliate qua e là sui pendii, e per raggiungerle bisogna arrampicarsi fra tralci di vite, cespugli di mirto, macchie di caprifoglio, di lauro, di oleandro, di geranio e altri splendidi alberi e fiori; insomma, un vero e proprio paradiso selvatico. Una valle più incantevole io non l’ho mai trovata, specie a guardar sul villaggio dalla terrazza dei Bagni Alti, cui fan da sentinella dei cipressi di un verde cupo. Si vede, di qui, un ponte gettato su un fiumicello che si chiama Lima e che, tagliando in due il paese, precipita alle due estremità in dolci cascatelle, e mormora fra le rocce come se volesse dir le cose più gentili e il chiacchierio dell’eco tutt’intorno gli impedisse di prender la parola.
Ma il fascino della valle sta soprattutto nel fatto che non è né troppo grande né troppo piccola, che l’anima di chi guarda non è sopraffatta ma armonicamente nutrita dal paesaggio delizioso, che le stesse cime dei monti, come dovunque negli Appennini, non hanno la forma sgraziata, bizzarramente e goticamente sublime, delle caricature di montagne di cui la Germania è piena come di caricature d’uomo, ma sembrano esprimere nelle forme nobilmente modellate, di un verde gaio, una civiltà superiore, e accordarsi melodicamente col cielo di un pallido azzurro.
— Gesummio! — gemette Gumpelino, quando, piuttosto accaldati dalla ripida salita e dal sole mattutino, raggiungemmo la collina incoronata di cipressi e, guardando giù nel villaggio, ci apparve la nostra amica inglese, che, alta sul suo destriero, saettava sul ponte come un personaggio da fiaba romantica e scompariva con la stessa rapidità di sogno. — Gesummio, che strana donna! — ripeté. — in tutta la mia vita, una donna compagna non mi è mai accaduto di vederla. Solo nelle commedie se ne trovano, e credo che la Holzbecher, ad esempio, potrebbe magnificamente interpretarla. Ha dell’ondina. Che gliene pare, a lei?
— Mi pare che lei abbia ragione, Gumpelino. Quando facemmo insieme la traversata da Londra a Rotterdam, il capitano ebbe la geniale idea di paragonarla a una rosa cosparsa di pepe. A titolo di ringraziamento per questo piccante confronto, milady, trovatolo che sonnecchiava in cabina, gli rovesciò in testa una pepaiola intera, e da allora non lo si poté più avvicinare senza starnutire.
— Strana donna! — continuava a ripetere Gumpelino. — È delicata come la seta bianca e altrettanto forte, e sta a cavallo come potrei starci io. Purché non ci si rovini la salute. Ha visto l’inglese lungo e magro che le correva dietro su una cavallina pelle e ossa, come la tisi galoppante? Questo popolo ha la mania del cavalcare; darebbe tutto l’oro del mondo, per un cavallo. Il leardo di lady Maxfield costa trecento luigi d’oro sonanti... Pensare che i luigi d’oro sono andati tanto su, e salgono ogni giorno!
— Sì, i luigi d’oro saliranno tanto, che un povero letterato come me non riuscirà mai più a raggiungerli.
— Non ha idea, dottore, quanti soldi mi tocchi spendere. E dire che mi contento di un unico servo, e solo a Roma mi concedo un cappellano per la cappella privata. Oh, guardi, ecco il mio Giacinto.
La figurina che in quel momento apparve a una svolta del colle avrebbe piuttosto meritato il nome di giglio porporino; indossava un giacchettone scarlatto svolazzante sovraccarico di galloni d’oro che scintillavano al sole, e da quella profusione di rosso spuntava una testuccia grondante sudore, che mi salutò come un’antica conoscenza. E invero, osservati più attentamente il visuccio pallido e ansioso e gli occhi che ammiccavano inquieti, riconobbi qualcuno che mi sarei aspettato di trovare piuttosto sul Sinai che sugli Appennini, e quest’uno era il signor Hirsch, cittadino adottivo di Amburgo, in vita sua non soltanto stimatissimo spacciatore di biglietti del lotto, ma pratico di occhi pollini e di gioielli, pratico al punto di saper non soltanto distinguere i primi dai secondi, ma estirpare con grande abilità i calli e stimare con grande approssimazione i brillanti.
— Voglio sperare, — disse quando mi fu più vicino, — ch’ella mi riconosca, sebbene non mi chiami più Hirsch ma Giacinto, e sia cameriere del signor Gumpel.
— Giacinto! — esclamò questi, stupito e insieme furioso dell’indiscrezione del servo.
— Calma, calma, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. PREFAZIONE
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. BIBLIOGRAFIA
  6. VIAGGIO DA MONACO A GENOVA
  7. I BAGNI DI LUCCA
  8. LA CITTÀ DI LUCCA
  9. IL TÈ - (1830)