1. Faccio selfie, quindi ci sono2.
Uno spot televisivo della marca Samsung che pubblicizzava il modello di una delle sue fotocamere digitali ha riassunto in sessanta secondi un trattato fenomenologico sull’evoluzione della fotografia. Ci troviamo su una spiaggia solitaria e una ragazza si avvicina passeggiando vicino alla riva. Improvvisamente scopre un cadavere trascinato dalle onde e incomincia a urlare spaventata. Tuttavia, prende la sua macchina fotografica e scatta una serie di fotografie usando il lampo del suo flash. Dopo qualche foto, prende delle alghe e le butta attorno al corpo, in modo che entrino nell’inquadratura. Senza smettere di fotografare, parla con qualcuno al suo telefono cellulare. Alla fine, si gira e si fa un selfie con l’annegato sullo sfondo. La pubblicità finisce con lo slogan: «Ci sono tante scene interessanti nella vita!»3.
Figura 28. Fotogramma di uno spot televisivo delle fotocamere digitali Samsung, 2006.
Conclusione: abbiamo bisogno di avere sempre a disposizione la nostra macchina fotografica per non perderci queste occasioni irripetibili.
Questa breve storia pone in risalto tre stadi dell’espressione fotografica. La prima tappa rivela l’impulso a documentare, l’azione che soddisfa la curiosità e la sorpresa, e possiamo associarla ai primi passi della fotografia: la necessità di registrare e conservare immagini di una realtà ‘bruta’. Nella tappa seguente la giovane fotografa interviene sulla scena, rendendola ‘retorica’ con l’aggiunta delle alghe. Questa azione, che avviene spontaneamente, indica la tendenza a interpretare la situazione che abbiamo di fronte e non solo a testimoniarla, in modo da ottenere un’immagine piú esplicita ed espressiva. Dal punto di vista della metodologia documentaria ortodossa, la ragazza sta commettendo un’infrazione, però si tratta di una violazione perdonabile perché permette l’affiorare di una forma incipiente di quella che potremmo definire staged photography o «fotografia allestita», il che implicherebbe un uso artistico e non meramente strumentale della macchina fotografica. Nella prima fase ci focalizziamo su un fatto, nella seconda, su un’intenzione. In entrambi i casi ci troviamo nell’ambito della fotografia, ma nella terza irrompe già la postfotografia: in una rivoluzione copernicana la macchina si stacca dall’occhio, si distanzia dal soggetto che la regolava e, alla distanza di un braccio teso, giustamente si gira per fotografare il soggetto stesso. Abbiamo appena inventato il selfie. Sebbene, dopo aver detto una frase cosí lapidaria, la prima cosa di cui ci viene voglia è setacciare il passato in cerca di precedenti, ed è ovvio trovarli. Gli autoritratti fotografici fatti durante il XIX secolo s’inscrivevano nei canoni grafici e pittorici dei loro predecessori. La trasposizione di se stessi era in quell’epoca appannaggio dei soli artisti. Clément Chéroux indica nel pittore Edvard Munch il precursore dei selfie, quando nel 1908, convalescente da una depressione in una clinica di Copenaghen, girò l’apparecchio verso se stesso per mostrare il suo stato spirituale (ponendo cosí le basi della terapia che, come abbiamo visto, sarà seguita piú tardi da Pasqual Maragall). Un altro famoso selfie ante litteram l’ha fatto nel 1914 la duchessa Anastasija Nikolaevna Romanova, all’età di tredici anni, quando si fece un autoritratto per inviare una foto a un suo amico. Nella lettera che accompagnava l’immagine stampata, scrisse: «Ho fatto questa foto da sola guardando nello specchio. È stato molto difficile perché le mie mani stavano tremando».
Figura 29. Selfie di Anastasija Nikolaevna Romanova, 1914.
Ma il caso di selfie primordiale piú evidente ci è stato donato nel dicembre del 1920 da un gruppo di fotografi della Byron Company (Joseph Byron e Ben Falk vi appaiono impugnando una voluminosa fotocamera, insieme ai loro colleghi Pirie MacDonald, Colonel Marceau e Pop Core), sul tetto del Marceau’s Studio a New York, davanti alla cattedrale di San Patrizio, in un’affascinante istantanea conservata nelle collezioni del Museum of the City of New York che ha suscitato uno speciale interesse in seguito all’inusitata euforia nei confronti dei selfie.
Figura 30. Selfie dei fotografi della Byron Company sulla terrazza del loro studio a New York, 1920. Collezione del Museum of the City of New York.
Nell’ergonomia del selfie, conviene notare in primo luogo che l’esplorazione della realtà non si fa con l’occhio addossato al mirino della macchina. La distanza fisica e simbolica che si frappone fra il soggetto e la fotocamera – spesso accentuata da quel ridicolo ammennicolo che è il selfie-stick, il bastone per selfie –, cioè la perdita del contatto fisico tra l’occhio e il mirino, priva la macchina della sua condizione di protesi oculare, di dispositivo ortopedico integrato nel nostro corpo. Non c’è piú prossimità, la realtà appare qui in una proiezione fuori dal corpo, distaccata dalla percezione diretta, in un’immagine già elaborata che occupa un piccolo schermo digitale. Si potrebbe pensare che non sia un fenomeno nuovo: anche nelle vecchie macchine a banco ottico o a soffietto l’operatore non si serviva di un mirino diretto, dato che doveva coprirsi la testa con un panno nero e immergersi nella penombra necessaria per intravedere la tenue proiezione di una scena sul vetro smerigliato che serviva per l’inquadratura. Però in quel caso si trattava di una semplice proiezione, con un funzionamento facile da capire; l’unica cosa che sembrava strana per il profano era che l’immagine appariva ribaltata. Nello schermo digitale, invece, l’immagine appare in differita e provvista di un vero quadro di comandi: sulla rappresentazione della scena si sovrappone una miriade di dati e regolazioni. È nell’ambito epistemologico, però, che il selfie introduce un cambiamento piú sostanziale, poiché trasforma l’antiquato noema della fotografia ‘questo-è-stato’ in un ‘io-ero-lí’. Il selfie ha a che fare piú con lo stare che con l’essere. Si sposta dalla certificazione di un fatto alla certificazione della nostra presenza in quel fatto, alla nostra condizione di testimoni. Il documento si vede relegato al ruolo di registrazione autobiografica (in qualche modo, è come nel momento in cui i giornalisti diventano protagonisti della notizia stessa, ossia il messaggero diventa il messaggio). Una registrazione che è doppia: nello spazio e nel tempo, come a dire, nell’ambiente e nella storia. Non vogliamo tanto mostrare il mondo quanto segnalare il nostro stare nel mondo.
Che il soggetto prevalga sull’oggetto comporta, nello stadio vernacolare della fotografia, una sorta di crisi del canone oggettivista documentario. La volontà di catalogazione autobiografica implica l’inserimento del sé nel racconto visivo, con un impeto di soggettività che spesso sfocia nel narcisismo. Vale la pena quindi chiedersi se il selfie sia l’espressione di una società vanitosa ed egocentrica. La risposta è che non sempre è cosí: di fatto, sebbene internet faccia da megafono al narcisismo, l’affermazione del sé e la vanità fanno parte di tutta la storia dell’umanità; pensiamo alle mummie dell’antico Egitto, ai busti di marmo dell’Impero romano o ai molti usi del ritratto fotografico nel XIX secolo. La differenza si trova forse nel fatto che oggi abbiamo i mezzi per manifestare questa vanità. I selfie fanno riferimento a precedenti storici, ma, come afferma Jennifer Ouellette, funzionano nell’era digitale come «regolatori di emozioni»4 che continuano ad alimentare la necessità psicologica di accrescere l’affermazione di se stessi. La grande differenza sta nel fatto che da un lato questa affermazione risulta alla portata di tutti, e dall’altro viene amplificata dalla cassa di risonanza dei social network e dei servizi di messaggistica elettronica.
A volte la fotografia analogica è stata considerata come una disciplina propria degli elfi, quegli esseri mitologici scandinavi famosi per la loro bellezza e immortalità. Entrambi questi doni hanno contribuito a profilare l’orizzonte del fotografico: la verità e l’estetica, il tempo e la memoria. Giocando sulla paronimia, si potrebbe dire: se la fotografia è stata elfica, la postfotografia sta diventando selfica. E questa dimensione selfica non è una moda passeggera, anzi consolida un genere d’immagini che è arrivato per rimanere, come i ritratti per il passaporto, le foto di matrimonio o le fotografie turistiche. Per quanto possa essere sgradevole la loro diagnosi, i selfie costituiscono il materiale bruto che permette di capirci e correggerci, per cui non sapremmo piú farne a meno.
Figura 31. Il selfie come nuovo rito sociale. Inaugurazione di una mostra, Montréal, 2015.
2. Dallo specchio smemorato allo specchio dotato di memoria straordinaria.
In ogni caso, il debutto del selfie ha avuto luogo all’inizio della seconda decade del XXI secolo. Nel 2012, la rivista «Time» ha incluso questo neologismo fra le dieci parole piú popolari dell’anno e l’Oxford English Dictionary l’ha insignito definitivamente del titolo di parola dell’anno nel novembre del 2013. Da allora si sarebbero susseguiti fatti mediatici con protagonisti le personalità popolari del mondo dello spettacolo e della politica che si facevano selfie in pubblico o divulgavano i loro risultati. Una particolare notorietà è stata raggiunta, per ovvie ragioni, dal polemico selfie del presidente statunitense Barack Obama al funerale di Nelson Mandela, dai simpatici selfie di Papa Francesco con gruppi di fedeli in Vaticano, e dal ritratto di gruppo glamour orchestrato dall’attrice Ellen DeGeneres all’ottantaseiesima cerimonia di consegna degli Oscar a Hollywood (immagine che venne ritwittata 2,8 milioni di volte nell’arco di sole ventiquattro ore).
Una rapida occhiata alla sterminata produzione di selfie ci permette di distinguere due modalità operative che possono essere definite con due neologismi: autofoto e riflessogramma. Per il primo tipo basta avere un obiettivo grandangolare e un braccio abbastanza lungo da poterci inserire nell’inquadratura in base a un sistema di prove ed errori, perché sebbene alcuni telefoni siano provvisti di fotocamere da entrambi i lati – come concessione alla selfiemania – siamo piú abituati a scattare alla cieca. Nel riflessogramma, invece, ci facciamo un autoritratto davanti allo specchio, cosa che, sebbene vi sia anche qui una certa dose di aleatorietà, comporta un maggior controllo sul risultato. Senza dubbio questo vantaggio giustifica il fatto che i riflessogrammi abbiano preceduto le autofoto sia ne...