Nel museo di Reims
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Nel museo di Reims

  1. 64 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Nel museo di Reims

Informazioni su questo libro

Si dice che quando si perde la vista si amplino gli altri sensi. Dev'essere per questo che a Barnaba, che sta per diventare cieco, la voce di Anne sembra di un «colore caldo e brillante, lucido di tenerezza».
Ma di Anne forse non ci si può fidare. È elusiva, inventa dettagli, e se deve dire che un vestito è giallo, non dice che è come un limone o un girasole, ma «giallo come l'amore legittimo, o l'adulterio che lo rompe».
Eppure Barnaba decide di farsi guidare dalla sua voce per le sale del museo di Reims, e di condividere con lei il suo segreto, l'ossessione per un celebre dipinto che lo ha spinto fin lì.
Il racconto di due solitudini che si incontrano e si riconoscono.
Una parabola cristallina sul potere evocativo della parola, sul sottile crinale tra capacità immaginifica e menzogna, ma soprattutto sull'esperienza vertiginosa della letteratura. «È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura ». Inizia così il racconto di Barnaba, un giovane ex ufficiale di Marina che a causa di una malattia «malcurata» sta perdendo progressivamente la vista. Ormai le immagini per lui si confondono in «un'opacità indistinta e chiara», una sensazione quasi tattile, tanto deve avvicinarsi alle cose, sfiorarle con gli occhi.
Barnaba ha deciso di sfruttare il tempo che gli rimane per fissare nella memoria alcuni capolavori dell'arte. È per questo che lo troviamo nel museo di Reims, tra le tele di Corot, Géricault e Delacroix. Ma Barnaba è lì per un quadro in particolare: il Marat assassiné di David. Quella tela, da quando l'ha vista in una riproduzione, è diventata un piccolo rovello: ha subito sentito che in qualche modo lo riguardava.
Mentre Barnaba si aggira per le sale del museo, aggrappandosi ai dettagli per dare una forma ai dipinti - come del resto si fa con le nuvole -, la voce accesa e leggera di una donna gli si affianca. È Anne, di cui Barnaba non riesce ad afferrare nemmeno il colore esatto degli occhi.
Anne ha indovinato il suo segreto e inizia a descrivergli i quadri che lui quasi non vede. Tra i due nasce come un gioco fatto di pudica sensualità, di intima tenerezza. Perché Anne in alcuni casi mente, racconta quello che non c'è, inventa particolari. E Barnaba lo sa.
Ma il raccontare in sé non è in fondo un po' mentire? O forse è la possibilità di vedere oltre il dato sensibile, attraverso la capacità immaginativa? La voce di Anne, allora, diventa il filo da seguire nel labirinto che è il museo, che è la letteratura, alla scoperta di passaggi segreti, di percorsi di senso.
E Barnaba si lascia condurre, prendendo a sua volta la parola per raccontare il «suo» Marat, in un continuo scambio di ruoli, quasi un codice amoroso.
La scrittura fluida e precisa di Daniele Del Giudice ci guida in questo racconto in cui i luoghi ancora una volta sono geografie dello spirito, e il dolore una porta da attraversare per attingere alla conoscenza.
Un testo breve in cui c'è tutta la potenza di un grande scrittore. L'atteso ritorno in libreria di un piccolo gioiello letterario uscito nel 1988 per Mondadori.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2010
Print ISBN
9788806203528

Nel museo di Reims

È da quando ho saputo che sarei diventato cieco che ho cominciato ad amare la pittura. Forse amare non è la parola giusta, perché nelle mie condizioni è difficile provare un sentimento verso qualcosa fuori, e poi perché le mie condizioni già non mi permettono di vedere piú bene, e dunque non posso dire con certezza che cosa amo, se i quadri che vado a cercare nei musei, o questo stesso andare e cercare, fin quando la vista non calerà del tutto. Rendetevi conto, non c’è alcun motivo per diventare ciechi alla mia età, del resto non c’è alcun motivo per diventare ciechi in assoluto. Potevo scegliere di trattenere come ultime immagini quelle dei luoghi che non ho mai visto, certe foreste dell’Amazzonia dove la vegetazione è cosí folta e fitta da creare un’oscurità appena di qualche grado inferiore al buio nel quale entrerò, certe cascate nel cuore dell’Africa, il cui bianco abbagliante avrebbe forse ritardato quell’ingresso, certe trasparenze di acque coralline, nelle quali, se fosse accaduto lí, se fossi entrato lí nella definitiva cecità forse il trapasso sarebbe stato piú lieve e dolce. Solo che la prima a cadere è stata proprio la visione da lontano, sfocata velocemente in una specie di marginatura indefinita, poi un’opacità indistinta e chiara. Questa opacità io la sentivo, la soffrivo come un sudore, come una febbre paralizzante, come se fosse non soltanto una malattia degli occhi ma di tutto il corpo; e del resto è per una malattia del corpo, malcurata, che sto diventando cieco. Ormai posso vedere da vicino, soltanto da vicino, cosí da vicino che ciò che mi resta della vista sta diventando quasi una sensazione tattile. Per questo non ho potuto decidere di conservare per me come ultime le immagini di donne e uomini, perché non tutti, non sempre, si possono guardare cosí da vicino da toccarli con gli occhi.
Barnaba, un ragazzo italiano alto e coi capelli neri ricci, era arrivato a Reims la sera prima. Aveva cenato e dormito in un albergo, e atteso che il sonno scendesse in modo naturale. Non beve, non prende pillole. Col tempo si era sforzato di accettare la sua condizione fino in fondo, compresa la difficoltà ad addormentarsi, compreso quell’attimo di blanc al risveglio, quando uno sa che deve ricordarsi qualcosa di molto doloroso, come il fatto di divenire cieco, ma per un attimo ancora non se ne ricorda. Si era alzato, si era lavato e vestito con cura, anche se i colori erano già un problema. Poi era uscito dall’albergo. Conservava un portamento teso, con certi scatti di insofferenza e punti di tenerezza; però, camminando, tendeva appena a strusciare i piedi, cercando meglio il terreno. Poiché si vergognava della sua condizione, e piú di tutto avrebbe voluto che non fosse notata dall’esterno, era riuscito a rendere naturale quella ricerca di aderenza con una specie di passo semplicemente piú allungato. Tutto questo sforzo del camminare dritto e del pudore si frantumava poi in errori clamorosi, in quelle situazioni clamorosamente ridicole in cui può trovarsi un cieco, o quasi cieco. Ma anche il ridicolo alla fine aveva imparato ad accettarlo, come la cosa piú difficile. Il museo di Reims era vicinissimo all’albergo, in rue Henri Jadart; ancora qualche metro ed entrò nel portone. Attraversò la cour d’honneur di un palazzo settecentesco, bombato in cima, e dagli ampi finestroni bianchi. Fu dentro.
Per quanto mi sforzi di guardarli tutti piano piano, ogni volta me ne resta in mente solo uno. Uno del Prado, uno della Tate Gallery, uno del Louvre, uno degli Uffizi, uno di qualche museo meno famoso e periferico, dove magari sono andato per vedere solo quello, come qui a Reims, dove in realtà è un solo quadro che vorrei vedere. Non sono un conoscitore d’arte, non lo sono mai stato. Né so bene cos’è che amo nella pittura, proprio perché non l’amo tutta. Ho visto quadri importantissimi, capolavori, ma mi sono dovuto convincere del loro valore, ho dovuto pensare che lí per la prima volta c’era un certo colore, una certa luce, una certa scena, una certa prospettiva, convincermene senza neanche avere la certezza di vederli bene. Ma del resto alla pittura sono arrivato soltanto per esclusione. Di fronte ad altri quadri invece, quadri di cui magari conoscevo il titolo per fama, ma che non sapevo fossero proprio quelli, fossero proprio cosí, l’emozione è stata piena, la commozione è stata immediata, quadri che venivano in fuori, che ti abbracciavano, che ti portavano dentro. E per un attimo io ero ciò che volevo essere: quel giocatore di dadi in una bettola, quell’ufficiale che prendeva ordini da Napoleone tra fumi di battaglia, io ero un cavallo sbudellato, o il centurione incattivito e stupefatto davanti al sangue del Cristo, oppure ero una bottiglia di vetro su uno sfondo colorato, ero una foglia di lattuga dentro una natura morta. Sono questi i quadri che cerco, sono queste le immagini che voglio trattenere. Ma se mi avvicino tanto da distinguere le figure, fino quasi a sfiorarle, perdo il senso dell’insieme, e se faccio un passo indietro, il passo che dicono sia del pittore, non distinguo piú i contorni. Con i colori poi non ne parliamo. Potrà succedere in un qualsiasi momento, so che a ogni istante posso piombare in un buio pieno e nero, e magari mentre io mi sforzo di passare la piú parte del mio tempo nei musei guardando i quadri, come i Corot che cerco di vedere adesso, lo sguardo si spegnerà del tutto in una vasca da bagno, davanti a una tazza della colazione, alla fermata di un autobus.
La vasque de la Villa Médicis, L’étang à l’arbre penché, Souvenirs des rives méditerranéennes, La liseuse sur la rive boisée sono i quadri che Barnaba passa in rassegna. Passa in rassegna perché non è per questi quadri di Corot che è venuto, lui è venuto per Marat assassiné, la morte di Marat dipinta da David; solo che ogni museo ha un suo percorso, non si possono saltare le sale, non si può arrivare subito, e poi anche questi quadri vorrebbe vederli, e si sofferma, e si piega per leggere i titoli sulle targhette d’ottone, si piega ma non troppo, per non essere visto, perché nessuno dal fondo della sala accorgendosi della sua rigidità o della sua incertez...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Nel museo di Reims