Federico Morpio si fermò a riprendere fiato. Finalmente era al riparo nella Galleria delle Carrozze, il vestibolo esterno della Stazione Centrale di Milano. Rimase cosí per qualche secondo, sotto il portico altissimo. Ansimava ancora, dopo la corsa sotto la pioggia. Tentò di calmarsi. Da giorni non riusciva piú a respirare come si deve. L’aria si bloccava alla sommità del petto. Buttava giú piccole sorsate di ossigeno, come se fosse sempre in fuga. Non aveva bisogno di un medico per sapere che cosa lo affliggesse.
Forse avrebbe dovuto scappare davvero, come si faceva una volta, piantando in asso tutti, a cominciare dai suoi debiti. Ma al giorno d’oggi lo avrebbero acciuffato subito. Tutto era tracciato. Anche pochi minuti prima aveva lasciato una piccola orma elettronica facendo un prelievo al bancomat. Cercò di riacquistare un po’ di quiete, restando ad ascoltare il rumore che faceva la pioggia, annusando l’odore che si spandeva nell’aria. Del rabbioso monsone che si stava abbattendo sull’Europa gli arrivava nel naso un sentore di asfalto inzuppato. Si aggrappò a quella sensazione per smettere di pensare ai soldi. Pensò alle tonnellate di polveri sottili, sospese come pollini di carta vetrata sopra le strade di Milano; le immaginò mentre venivano intercettate dall’acqua. I granelli di polvere zigrinavano ogni goccia con un piccolo rostro aguzzo. Cadevano a terra crepitando. Non era vero che crepitavano, non era vero che zigrinavano ogni goccia con un piccolo rostro aguzzo, ma cosí aveva bisogno di immaginarsele in quel momento. Esagerava la prima cosa che gli veniva in mente, per distrarsi dall’angoscia della bancarotta.
“Forse le polveri sottili rendono davvero la pioggia piú rumorosa”, si disse. Il rumore delle polveri sottili. Suonava bene, come titolo di un video. L’attenzione che dedicava alle cose era interessata. Tutto quello che gli succedeva intorno poteva diventare lo spunto per un video. Che cosa ne sarebbe stato di lui, senza l’arte? Era una domanda a cui era impossibile rispondere. Senza l’arte non si sarebbe ridotto al fallimento. Ma, d’altra parte, si sarebbe disconnesso dalla realtà. Sarebbe diventato indifferente a tutto. Non aveva alternative. All’infuori dell’arte, non riusciva a trovare un motivo per stare attento alle cose. La vita non era poi cosí interessante.
Eccolo lí davanti a lui, il mondo. Che senso aveva dargli retta, che senso aveva viverlo, se non per ricavarne un’opera? Cosa offriva il menu, in quel momento? Si guardò intorno con sarcasmo. Diede un’occhiata strafottente a tutto ciò che accadeva. “Brave, brave”, ripeteva, sbeffeggiando le cose che esistevano e si ostinavano a continuare, “brave”. Le persone si rifugiavano nella stazione scappando dagli scrosci. Un ragazzo si riparava sotto la sua valigia di plastica dura; correva tenendola sollevata sopra la testa con tutte e due le mani, ansando. Una donna fece un saltello insieme al suo cane, per scavalcare una pozzanghera fra due auto parcheggiate. Un vecchio tirò fuori da una tasca un fazzoletto e si tamponò i capelli. Il cielo si sfogava. Le raffiche di pioggia si dimenavano nel vento, cambiavano direzione, si addensavano attorcigliandosi, scure come stormi di calabroni. “Bravissime”. Dietro il tendaggio di pioggia, lo sfondo di nuvole era pastoso; grigie masse globulari si amalgamavano in 3D. Aveva senso stare a guardarle? Aveva senso descriverle? «Per quanto me ne importa, potrebbe scomparire tutto», mormorò.
Era un pomeriggio di inizio estate. Sotto il portico i venditori abusivi avrebbero fatto buoni affari. Smerciavano ombrellini ripiegabili made in China, a cinque euro l’uno. Cinque euro. Di nuovo il pensiero dei soldi.
Solo un paio di loro erano arrivati sul posto di lavoro senza gli articoli adatti alla pioggia. Uno dei due, un pakistano venditore di giocattoli, telecomandava un elicotterino. Lo faceva decollare dalla mano, lo manteneva in volo un po’ piú in alto della sua testa, come il balloon di un fumetto, poi lo guidava di nuovo verso il basso, acchiappandolo con disinvoltura. Ore e ore di quell’attività dimostrativa lo avevano reso abilissimo. Avrebbe potuto eseguire missioni impossibili per l’aviazione della Nato, interventi di precisione come pilota di droni da guerra e aerei-spia telecomandati.
A Morpio venne un’altra idea. Si sarebbe visto un uomo in mezzo a una piazza, con un braccio proteso verso l’alto; una quantità di piccioni in volo gli si sarebbero affollati intorno, per posarsi sulla sua mano colma di becchime. Dopo un minuto, nell’inquadratura sarebbe entrato un piccione diverso da tutti gli altri, telecomandato con precisione. Si sarebbe avvicinato alla mano dell’uomo, per mangiare la sua porzione di becchime.
“Bravo, continua a pensare ai video”, si disse. “Invece di trovare il modo per guadagnare due soldi”. Lasciò perdere quella fantasticheria e riprese a guardare i venditori abusivi sotto il portico della stazione.
Uno offriva bastoncini telescopici su cui inastare il telefono per farsi delle foto. Morpio provò a figurarsi il proprio autoritratto, con i capelli piatti sul cranio, bagnati di pioggia. Scacciò l’immagine e diede un’occhiata alle altre merci. Il venditore cercava di rifilare ai passanti anche dei piccoli ciclisti giocattolo, che pedalavano in tondo suonando un carillon elettronico. Continuavano a roteare cosí, all’infinito, finché non si scaricavano le pile o non li abbattevi a mazzate. C’era da uscire pazzi ad ascoltare quella musichetta per un minuto, chissà che supplizio subirla tutto il giorno. Forse i cinesi che l’avevano composta ed esportata la usavano nelle loro carceri per torturare i prigionieri.
Morpio immaginò un uomo legato a una sedia, al centro di una grande palestra vuota. Intorno a lui, sul pavimento, in cerchi concentrici sempre piú ampi c’erano centinaia di piccoli ciclisti giocattolo, che tintinnavano senza pietà nella cubatura della palestra. Il prigioniero confessava.
[La storia di Federico Morpio mi riguarda piú di quella di un carcerato di Qincheng vessato da torture cinesi? Di chi devo occuparmi per capire com’è fatto il mondo e immaginare che cosa mi sono perso restando inattuato, impartorito?]
“Questi qui”, pensò Morpio guardando i venditori abusivi di giocattoli, “o crolleranno per l’esaurimento nervoso, oppure organizzeranno una rivolta. E saranno massacrati da agenti antisommossa con i nervi a pezzi, esasperati anche loro da trilli di ricetrasmittenti e telefoni, e da tutto il risentimento accumulato su facebook e twitter. Non saranno le guerre di religione o la lotta di classe a far saltare in aria tutto, ma la meningite elettronica, l’irritabilità costante in cui sono immersi tutti quanti”.
Si inorgoglí di avere concepito questo pensiero. Rivolta sociale e ciclisti giocattolo. Enormità e piccolezze. Pensare al tumulto lo tranquillizzava.
Ormai era bagnato. Un ombrello non gli sarebbe servito piú. E poi volevano cinque euro. Investendo il suo conto in banca… Ecco. Aveva rovinato tutto. Di nuovo l’oppressione al petto, il fiato corto, la difficoltà a respirare. Gli mancava l’aria. Investendo tutti i soldi che aveva, avrebbe potuto comprarne – fece la divisione a mente – centosettantacinque. La sua ricchezza in denaro ammontava all’equivalente di centosettantacinque ombrellini comprati nella Galleria delle Carrozze della Stazione Centrale di Milano. Guardò il cielo, vide il profilo affilato del Pirellone. Le folate di pioggia si gettavano contro lo spigolo del grattacielo a forma di coltello, tagliandosi in due. “Brave”.
Ritirare tutti i soldi che aveva in banca, comprare centosettantacinque ombrellini, rosa, gialli, turchesi, verdi, camminare fino alla base del grattacielo, entrare nella soglia d’ingresso, prendere l’ascensore, salire lassú in cima, al trentunesimo piano, sbucare sulla terrazza, aprire gli ombrellini, dal primo all’ultimo, tutti e centosettantacinque, attaccarseli addosso, buttarsi di sotto, da centoventisette metri d’altezza. Morire alla grande, precipitando, in un nugolo di mini-paracadute colorati, da cinque euro l’uno, perfettamente inutili a salvarlo.
Meglio cosí. Assecondare il pensiero della catastrofe, invece di distrarsi. Era inutile cercare di uscire dal gorgo. Sempre lí veniva risucchiato. Poteva immaginare sé stesso in versione Frivolo Suicida, o Martire Delle Proprie Illusioni, ma anche invertendo l’ordine dei fattori il prodotto non cambiava. Cinque euro per centosettantacinque ombrellini, o 5 € × 175
[
il codice Unicode del glifo “ombrello” è: U+2602; il codice HTML dello stesso glifo è: ☂ fare tesoro di queste liofilizzazioni, sono i miei talismani], il risultato era sempre lo stesso. Era sul lastrico.
Prima di correre sotto il portico aveva prelevato dal bancomat venti euro, la cifra piú bassa fra le opzioni consentite. Sullo schermo gli era apparsa la domanda standard: «Desidera la stampa dello scontrino?»
“Premi NO, premi NO! Non farti del male”, lo aveva ammonito una vocina interiore. Ma Morpio si era fatto coraggio, aveva premuto SÍ, chiedendo alla macchina di stampargli la ricevuta. Era rimasto ad aspettarla sotto la pioggia, dopo la restituzione della tessera bancomat e l’erogazione della banconota da venti euro. Aveva preso il biglietto di carta termica stampata a caldo, aveva controllato il piccolo estratto conto in fondo alla ricevuta. Lo aveva letto di sottecchi, come si guardano le carte che ti hanno appena servito a poker. Aveva scrutato la parte bassa dello scontrino, quella che riportava gli ultimi cinque movimenti del conto corrente.
Niente.
Nessun bonifico.
L’estratto conto registrava solo i suoi cinque patetici prelievi degli ultimi giorni, da venti euro l’uno.
Quella stoica sosta al bancomat sotto il nubifragio, il mancato bonifico, il saldo totale di 855 euro (piú 20 in tasca) rappresentavano con esattezza la sua situazione. Trovò ugualmente la forza di sorridere al venditore di ombrellini. «Grazie, ma è troppo tardi», disse all’africano che gliene porgeva una filza.
Il venditore li teneva appesi agli avambracci, a mazzetti penzolanti. Rossi, blu, verdi, dondolavano foderati nei loro prepuzi di stoffa. Al posto del manico avevano un’impugnatura stondata di plastica, un cappuccio semisferico, a cappella di fungo, che spuntava fuori dalla fodera. A Morpio facevano pensare a – no, non a quello. Sembravano scettri. Scettri colorati. Chi era che regnava, fra stranieri e italiani? Chi avrebbe prevalso, nel giro di qualche anno? Quelli che adesso vendevano gli scettri, quasi mendicando? O quelli che li compravano, che si degnavano di comprarli?
Tutto questo, all’africano superdotato d’ombrellini, Morpio non lo disse. Entrò nell’atrio della stazione.
L’acqua gli era filtrata dentro le scarpe, la stoffa dei calzini si impiastrava alle dita dei piedi.
[Sarei disposto a vivere, a queste condizioni? Accetterei il disagio fisico, l’ansia economica, la sensazione di fallimento? La mediocrità, l’assenza di nobiltà morale? Devo essere contento di non essere nato? Che cosa significa, essere contenti senza essere nati?]
Si era messo una giacca un po’ troppo pesante, l’unica decente che aveva. La pioggia l’aveva imbevuta, si era fatta strada nella stoffa mentre il sudore percorreva la direzione opposta, dall’interno all’esterno, attraverso le fibre della maglietta e della camicia. Le due acquerugiole si erano congiunte e rimescolate. Morpio sentiva il cotone incollarsi alla schiena. Le mutande erano bagnate fra le cosce, fin sotto i testicoli. “Allora, quello che ho annusato prima non era l’odore della pioggia”, pensò. Credeva di avere respirato il temporale, e invece aveva odorato solo il suo sudore. Era condannato a conoscere sempre e soltanto sé stesso? “Bravo”, si disse. Ma a pensarci bene, anche quella pioggia furibonda non era forse il risultato del surriscaldamento planetario, dell’abuso di risorse, dei consumi forsennati, del modo di vivere sulla Terra – compreso il suo? Il clima non era una cosa aliena, era l’umanità tradotta in intemperie. Esisteva ancora qualcosa di esterno agli esseri umani, nell’Antropocene?
Salí sulla scala mobile e si voltò all’indietro, lasciandosi trasportare girato di schiena, con il naso all’insú, per ammirare meglio l’atrio della stazione.
[Provo a immaginare i suoi occhi innalzati dalla scala mobile. Punto di vista in salita. Carrellata diagonale. ↗]
Sembrava appena inaugurata. Tutto era stato ripulito e rimesso a nuovo. Muratori, elettricisti, carpentieri, maestranze si erano dati da fare per mesi, inerpicandosi sui ponteggi d’acciaio, percorrendo avanti e indietro tramezze, andatoie, passerelle accastellate. Avevano scrostato via la patina di vecchiume dai muri e dai lucernari, a decine di metri d’altezza; avevano sostituito vetri, installato fari e proiettori. Ora il giorno elettrico si mescolava al giorno siderale, che passava attraverso le lastre opalescenti del soffitto. Cosí era stata ottenuta una terza sostanza luminosa, un nimbo che non era piú né giorno né elettricità, ma qualcos’altro: un’irradiazione soprannaturale, o soprartificiale. La perfezione esisteva, lassú, e non era nemmeno troppo distante. Morpio non sarebbe arrivato a toccarla, ma la maestà era lí, a poche decine di metri dal terreno, assisa sopra di lui. Era attingibile; poteva guardarla.
I locali a piano terra, dove fino a pochi mesi prima c’erano le biglietterie, erano stati sventrati, ristrutturati e trasformati in passaggi e spazi commerciali da affittare a negozi, bar, catene in franchising. Paratie posticce, in legno compensato medium density, occludevano vecchi stanzoni, disbrighi, uffici e depositi, da sempre inaccessibili ai viaggiatori, promettendo OPENING SOON. Fra non molto, merci glassate di luce avrebbero occupato gli arcani penetrali che fino a poco tempo prima sembravano destinati per l’eternità alle Ferrovie dello Stato e a Trenitalia. Morpio immaginò come dovevano essere stati i vecchi uffici delle ferrovie. Cripte inaccessibili, occulti purgatori di scartoffie. Si ricordò dei vecchi sportelli della biglietteria: le lastre di vetro massiccio, minerale, che separavano i viaggiatori dai bigliettai; i davanzali marmorei, di pietra verde; le scodelle girevoli d’ottone, incastonate sul banco, per ricevere le monete. Si ricordò anche dei vecchi computer Olivetti, con...