I.
Il primo di gennaio dell’anno 1891 una donna minuta e un uomo imponente passeggiano al Cimitero monumentale di Genova. Sono entrambi sulla quarantina. Lei ha la testa grande, infantile, incoronata da fitti riccioli scuri, e un’espressione accesa, vagamente supplice. Il suo viso ha cominciato a mostrare i segni del tempo. Lui è smisurato. Pesa centotrenta chili distribuiti su una stazza possente ed essendo russo viene spesso paragonato a un orso, o anche a un cosacco. Al momento è accovacciato sopra a certe lapidi e scrive su un taccuino, nel quale raccoglie iscrizioni e si interroga su alcune abbreviature che non gli risultano subito comprensibili, benché parli russo, francese, inglese e italiano e capisca il latino classico e medievale. La sua erudizione possiede la vastità della sua corporatura e, sebbene sia specializzato in diritto amministrativo, è in grado di dissertare sullo sviluppo delle attuali istituzioni politiche americane, sulle caratteristiche dei sistemi sociali russo e occidentale, nonché su codici e pratiche legali degli imperi antichi. Ma non è un pedante. È arguto e socievole, a proprio agio con gente di vari livelli, e in grado di condurre un’esistenza agiata, grazie alle sue proprietà nei dintorni di Char’kov. Gli è stato tuttavia impedito di ricoprire l’incarico di docente universitario in Russia, a causa delle sue idee progressiste.
Il nome che ha gli calza a pennello. Maksim. Maksim Maksimovič Kovalevskij.
Anche la donna con lui è una Kovalevskij. È stata sposata a un lontano cugino di Maksim, ma ora è vedova.
Gli si rivolge in tono scherzoso.
– Lo sai, no, che uno di noi deve morire, – dice. – Uno di noi morirà entro l’anno.
Prestandole un ascolto alquanto distratto, lui le chiede, Come mai?
– Perché abbiamo passeggiato in un cimitero a Capodanno.
– Ma pensa.
– Ci sono ancora alcune cose che non sai, – ribatte lei con quel suo tono tra l’impertinente e il preoccupato. – Io lo so da prima di compiere otto anni.
– Le femmine passano piú tempo in cucina con le cameriere, e i maschi nelle stalle; immagino sia per questo.
– E nelle stalle non si sente parlare di morte?
– Non granché. Ci si concentra su altre cose.
C’è neve quel giorno, ma è neve molle. Dove passano, lasciano impronte d’acqua nera.
Il loro primo incontro avvenne nel 1888. Maksim era arrivato a Stoccolma in veste di consulente per la fondazione di un istituto di scienze sociali. La nazionalità e addirittura il cognome in comune li avrebbero fatti incontrare anche senza bisogno di una particolare attrazione. A lei sarebbe toccato il compito di intrattenerlo e piú genericamente di occuparsi di un connazionale come lei progressista, e sgradito in patria.
Il compito tuttavia si rivelò tutt’altro che gravoso. Si corsero incontro come se fossero davvero parenti che non si vedevano da molto tempo. Poi vennero un torrente di domande e battute scherzose, un’intesa immediata, un profluvio di chiacchiere in russo, quasi che le lingue dell’Europa d’Occidente fossero labili prigioni nelle quali anche troppo a lungo erano stati reclusi, o misere succedanee del solo, autentico linguaggio umano. Anche il loro comportamento ignorò presto la decenza secondo i dettami di Stoccolma. Maksim si fermava fino a tardi nell’appartamento di lei. Lei andava da sola a pranzo con lui nel suo albergo. Quando Maksim si fece male a una gamba in seguito a un incidente sul ghiaccio, lei lo aiutò a lavarsi e vestirsi e, quel che è peggio, lo raccontò in giro. Era talmente sicura di sé, al tempo, e soprattutto, talmente sicura di lui. Prendendo spunto da de Musset, spedí a un’amica una sua descrizione:
È un tipo allegro, e al tempo stesso tristissimo;
vicino antipatico, compagno grandioso;
frivolo all’eccesso, eppure molto ricercato;
scandalosamente ingenuo, e ciononostante blasé;
tremendamente sincero, e al tempo stesso sornione.
E alla fine scrisse: «E un autentico russo, per giunta».
Maksim il Grosso, lo definiva poi.
«Non ho mai avuto voglia di scrivere storie d’amore, come quando sono con Maksim il Grosso».
E ancora: «Occupa troppo spazio, sul divano come nei pensieri della gente. In sua presenza, mi è semplicemente impossibile pensare ad altro che a lui».
Era il periodo in cui avrebbe invece dovuto lavorare giorno e notte per preparare la partecipazione al Premio Bordin. – Sto trascurando non soltanto le mie Funzioni, ma anche i miei Integrali ellittici e il mio Corpo rigido, – disse scherzando col collega matematico Mittag-Leffler, il quale convinse Maksim che era venuto il momento di andarsene per un po’ a Uppsala a tenere un ciclo di conferenze. Lei se lo strappò a fatica di mente, abbandonò i sogni a occhi aperti e tornò a dedicarsi al movimento dei corpi rigidi e alla soluzione del problema della cosiddetta sirena matematica grazie all’uso di funzioni theta a due variabili indipendenti. Lavorò senza tregua, ma felice, perché lui rimaneva sullo sfondo costante dei suoi pensieri. Rientrando, Maksim la trovò stremata ma esultante. Per ben due ragioni: l’articolo pronto per gli ultimi ritocchi, prima di essere inviato in forma anonima alla commissione del premio, e il suo amante nervoso ma allegro, lieto di poter metter fine al proprio allontanamento coatto e, a suo modo di vedere, chiaramente propenso a fare di lei la donna della sua vita.
Fu il Premio Bordin a rovinarli. O cosí credette Sof’ja. Da principio, lei stessa ne fu travolta, abbagliata dallo scintillio delle luci e dello champagne. I complimenti la frastornarono, insieme alla meraviglia e ai baciamano distribuiti a profusione a copertura di certe verità tanto importune quanto immutabili. Il fatto che non le avrebbero mai concesso un incarico degno del suo talento, che poteva già reputarsi fortunata se avesse ottenuto un posto da insegnante presso un liceo femminile di provincia. Mentre lei si crogiolava nel presente, Maksim se la svignò. Mai una parola riguardo alla vera ragione, è ovvio: giusto gli articoli che aveva da scrivere, giusto il suo bisogno della pace e della tranquillità di Beaulieu.
Si era sentito trascurato. Lui, un uomo non avvezzo a esserlo, ma che al contrario, da quando era entrato nell’età adulta non doveva aver mai fatto il proprio ingresso in un salotto o a un ricevimento correndo il rischio di passare inosservato. E non era stato cosí neppure a Parigi. Non si può dire che fosse diventato invisibile quando le luci della ribalta puntarono su Sonja, ma piuttosto si era trasformato nell’ordinaria amministrazione. Un uomo di indiscusso valore e spendibile prestigio, dotato di una certa maestosità fisica e intellettuale unita a una lievità di ingegno e a un sapiente fascino virile. Lei, in compenso, rappresentava la novità assoluta, un delizioso fenomeno, la donna che disponeva di un dono per la matematica, di una timidezza femminile, di un aspetto piuttosto attraente ma, sotto i riccioli, anche di un cervello del tutto eccezionale.
Maksim le spedí da Beaulieu le proprie scuse tiepide e accigliate, rifiutando di accogliere la proposta di lei di andarlo a trovare appena il trambusto si fosse placato. Era con lui una certa signora, le disse, che non poteva di sicuro presentarle. Meglio che Sonja tornasse in Svezia, aggiunse; doveva essere lieta di incontrare gli amici che la aspettavano. Di certo gli studenti avevano bisogno di lei, come pure la sua bambina. (Una stoccata al suo scarso senso materno? L’allusione non le era nuova).
E in chiusura della lettera, quella frase isolata e tremenda.
«Se ti amassi, avrei scritto cose diverse».
La fine di tutto. Di ritorno da Parigi con il suo premio e il luccichio di quella notorietà stravagante, si ritrovò con i vecchi amici che all’improvviso significavano meno di niente per lei. Con gli studenti, di cui le importava qualcosa di piú, ma solo quando era loro di fronte nel ruolo di matematica, un ruolo stranamente ancora accessibile. E infine, con la sua piccola Fufu, teoricamente trascurata eppure sempre di una devastante allegria.
A Stoccolma ogni cosa le ricordava lui.
Sedeva nella stessa stanza, con quei mobili traslocati sul mar Baltico a un costo folle. Di fronte a lei, lo stesso divano che aveva, poco tempo addietro, stoicamente sostenuto il peso di Maksim. Nonché il suo, quando lui se la stringeva con grazia fra le braccia. A dispetto della stazza non era mai impacciato come amante.
Stesso damasco rosso sul quale si erano accomodati ospiti piú o meno illustri, nella sua vecchia casa perduta. Forse Fëdor Dostoevskij, con la sua eterna inquietudine funesta, abbagliato da Anjuta, la sorella di Sof’ja. Di certo, Sof’ja stessa, la figlia meno riuscita di sua madre, deludente come al solito.
C’era il vecchio stipetto portato a sua volta dalla casa di Palibino, con i ritratti dei nonni dipinti su porcellana e incassati nel legno.
I nonni Schubert. La loro immagine non la confortava. Lui in uniforme, lei in abito da ballo, tronfi di un assurdo orgoglio. Avevano ottenuto quel che volevano, pensava Sof’ja, e sapevano mostrare solo sdegno per i meno fortunati o conniventi.
– Lo sapevi che sono per metà tedesca? – aveva domandato a Maksim.
– Certo. Se no, come saresti diventata un simile prodigio di laboriosità? E chi ti avrebbe riempito la testa di numeri mitici?
Se ti amassi.
Fufu le portò della marmellata su un piatto, chiedendole di giocare con lei un gioco a carte per bambini.
– Non mi seccare. Sei capace di non seccarmi?
Piú tardi le asciugò le lacrime e implorò il suo perdono.
Ma Sof’ja, dopotutto, non era tipo da abbattersi per sempre. Trangugiò l’orgoglio, fece appello alle proprie risorse e scrisse lettere scanzonate che, attraverso i numerosi riferimenti a futili piaceri come il pattinaggio e l’equitazione, nonché l’interessamento agli scenari politici francese e russo sarebbero potute bastare a metterlo a suo agio, forse persino a fargli capire quanto fosse stato superfluo e brutale da parte sua l’ammonimento impartito. Riuscí a carpirgli un altro invito e partí per Beaulieu non appena ebbe concluso il giro di conferenze, nell’estate.
Bei momenti. Anche qualche incomprensione, come le chiamava lei. (Prima di passare a definirle «conversazioni»). Dissapori, rotture, semi-rotture, idilli improvvisi. Un viaggio accidentato per l’Europa durante il quale si presentarono a tutti apertamente, e scandalosamente, come amanti.
Talvolta Sof’ja si chiedeva se lui avesse altre donne. Lei stessa si trastullò con l’idea di sposare un tedesco che la corteggiava. Ma era un uomo troppo cerimonioso, e sospettava che fosse in cerca di una Hausfrau. Senza contare che di lui, non era innamorata. A sentirlo pronunciare le sue scrupolose parole d’amore in tedesco, il sangue le si raffreddava a poco a poco.
Quando venne a sapere di quel rispettabile corteggiamento, Maksim disse che avrebbe fatto meglio a sposare lui. A condizione, aggiunse, che sapesse accontentarsi di quel che aveva da offrire. Cosí dicendo, finse di riferirsi al denaro. Accontentarsi della sua ricchezza era ovviamente un paradosso. Tutt’altra cosa, invece, era accontentarsi di una disponibilità emotiva tiepida e formale, che escludeva scenate e contrarietà perlopiú innescate da lei.
Sof’ja si rifugiò nell’ironia, lasciandogli credere di non averlo preso sul serio, e non si decise piú nulla. Di ritorno a Stoccolma tuttavia, si sentí una stupida. Perciò, prima di tornare a sud per Natale, aveva scritto a Julia spiegandole che non sapeva se fosse diretta verso la felicità o il dolore. Voleva dire che si sarebbe dichiarata in modo esplicito e avrebbe scoperto se anche le intenzioni di Maksim erano serie. Si era preparata alla piú umiliante delle delusioni.
Che invece le era stata risparmiata. Dopotutto Maksim era un galantuomo e onorò la parola data. Si sarebbero sposati in primavera. Una volta presa la decisione, divennero piú disinvolti che mai da quando si erano conosciuti. Sof’ja si comportava bene, evitando scatti e malumori. Maksim si aspettava un certo decoro, ma non quello dell’Hausfrau. Non ebbe mai a ridire sulle sue sigarette, come avrebbe potuto fare un marito svedese, né sulle innumerevoli tazze di tè o le intemperanze politiche. E a Sof’ja non dispiaceva constatare che, quando la gotta lo affliggeva, anche Maksim poteva rivelarsi irragionevole, seccante e vittimista quanto lei. Erano compatrioti, in fondo. E pur sentendosi in colpa, Sof’ja trovava noiosi i ragionevolissimi svedesi, gli unici disposti ad affidare a una donna una cattedra presso la loro nuova università. La capitale era troppo ordinata e pulita, le usanze troppo regolari, le feste troppo beneducate. Se decidevano che una prassi era corre...