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Autunno
Fino a cinquant’anni fa i nostri pastori scendevano dagli alpeggi a fine settembre perché avevano acquisito il diritto di sostare ancora una settimana sui pascoli delle malghe che le vacche avevano lasciato liberi a San Matteo. Ora capita che le greggi rimaste scendano verso il piano con un anticipo di almeno venti giorni perché sempre meno vengono pascolati argini e terreni incolti attorno alle città. Ma per quanto ancora vedremo esercitare cosí la pastorizia nomade, un’arte tra le piú antiche nella storia dell’uomo?
Le prime brine, lassú sulle quote piú alte, hanno rinsecchito gli ultimi fiori e nei luoghi a nord, che il sole sfiora per pochi minuti a fine giugno, permane quell’odore caratteristico di iodio, muschio e felci. I marassi cercano l’ultimo calore sulle pietre assolate; le marmotte portano nelle tane bocconate d’erba secca per prepararsi il letto per il letargo invernale, ma anche mangiano con avidità quel che rimane di verde per mettersi attorno il grasso che consentirà loro di vedere rifiorire la primavera.
In certe giornate limpide di sole e pulite dal vento, da Cima XII o dal Castelnuovo si possono ammirare le Alpi dal Bernina alla Vetta d’Italia e, girando lo sguardo dalla parte opposta, il baluginare dell’Adriatico e, ancora piú lontani, gli Appennini tosco-emiliani. Anche da laggiú, in una mattina cosí, uno con commovente stupore potrebbe scorgere dal campanile dell’isola di San Giorgio il lungo e possente dorso di Cima Portule.
Sono questi i giorni piú belli per camminare le montagne alte dell’Altipiano da soli o con poca compagnia; i larici incominciano a prendere il colore dell’oro vecchio e le azzurre genziane sembrano amplificatori del sottosuolo che imprigionano il calore e la luce del sole.
Volano alti gli uccelli di passo, chiamandosi in volo. Se il tempo è bello, sostano sui pascoli o nel bosco, ma se una burrasca li minaccia da nord o da est, allora si affrettano e il loro canto, invece di richiamo, diventa un invito a volar via in fretta.
Le prime piogge di fine settembre lavano i residui dell’estate e ogni foglia d’erba, ogni ramoscello ha la sua perla. I cervi e i caprioli, immobili dentro il bosco, godono della pioggia che li lava e li libera dai fastidi degli insetti alati. Anche per noi è bello e liberatorio andare con stivali e mantellina impermeabile tra la pioggia, vagabondare senza prefissare una meta e incontrare con reciproca sorpresa uno scoiattolo che ti fissa da un ramo, o gli occhi di un pettirosso immobile dentro un cespuglio di rose canine carico di bacche rosse.
I tuoi passi si confondono con il rumore delle gocce che cadono sugli alberi e poi nel sottobosco con rumore piú forte; con questo tempo diventa piú probabile avvicinare e sorprendere quegli animali che con l’uomo hanno poca dimestichezza o che per esperienza lo temono. Come il mitico urogallo e il fagiano di monte, che per non bagnarsi le penne e rendere faticoso l’involo amano camminare cercando pastura lungo i sentieri; cosí può capitare di vederli camminare davanti a te. Fermati, non spaventarli: lasciali andare e pensa come a noi sia fastidioso il telefono quando stiamo mangiando. Se sorprendi il cervo o il capriolo non spaventarti; ammirali rimanendo immobile: dopo il loro grido d’allarme che ti ha cosí impressionato saranno loro ad allontanarsi.
Tante cose nel corso delle stagioni la natura può insegnare a chi osserva; ma è nell’autunno che il bosco si fa leggere con chiarezza: lo sviluppo delle crescite annuali degli alberi, la maturazione dei frutti e delle drupe nel sottobosco e, magari, le brutte tracce del passaggio degli uomini incivili.
Dall’abbondanza delle squame e dei torsi degli strobili sotto le conifere possiamo intuire le famiglie degli scoiattoli acrobati sopra le nostre teste, da una rosso-bianca amanita muscaria sbocconcellata puoi supporre che un capriolo o un cervo l’abbiano ricercata per drogarsi. Forse potrai sorprenderti nel vedere un cerchio, o due cerchi a forma di 8 attorno a un giovane abete o a un faggio: è come un sentiero battuto e tutt’intorno l’erba è calpestata e anche strappata; qui, tra luglio e agosto, i caprioli avevano fatto la giostra, ossia quando erano quasi pronti per l’accoppiamento maschio e femmina si erano insistentemente rincorsi emettendo dei fischi come sospiri amorosi.
Non mi sentivo di andare in Val Trompia, in quella famosa fabbrica d’armi, per comperare un fucile da caccia, presentandomi con quel biglietto che mi aveva scritto a Viareggio Paolo Monelli quando mi diedero il premio per Il sergente: «Vai dai Beretta con questo e scegli un bel fusil da caza. Ti faranno un buono sconto».
Anche se con lo sconto, non mi potevo permettere un fucile troppo costoso. Avevo degli impegni; per questo incaricai Lambi, un cugino di terzo grado che aveva bottega dove con i casalinghi vendeva cartucce da caccia, bossoli, polvere da sparo, pallini. Gli dissi: «Cercami un fucile non costoso, buono da bosco e da montagna, non troppo pesante, calcio all’inglese e a cani esterni. Sulle trentamila lire».
Era quanto potevo permettermi per quello che veniva considerato quasi un capriccio.
A Milano, in una famosa e antica armeria, trovò quanto desideravo: una doppietta Bayard, 65 cm di canna, la prima quasi cilindrica buona da bosco, la seconda con strozzatura da montagna aperta. Il certificato di fabbricazione e di prova portava la data del 1938. Pesava poco piú di tre chilogrammi. Anche il prezzo era onesto. Me lo sentii come fosse stato fabbricato su misura per me e mi promisi d’inaugurarlo sparando solo su selvaggina alpina o beccacce. Piú che a Hemingway avrei voluto assomigliare a Turgenev, e come compagno di uscite avrei voluto il caporale Pintossi della prima squadra fucilieri del primo plotone, che sul Don mi parlava del suo cane e delle coturnici del Passo di Gavia. Non ritornò dalla Russia. Mi diceva: «Quando ritorneremo andremo a caccia insieme».
Quell’anno, era il 1953, dopo San Matteo, con Roberto e Alcide, ancora prima dell’alba ci incamminammo verso una bella montagna buona da galli e da coturnici. Era caldo che sembrava ancora agosto; l’aria secca non aveva lasciato umidità sul terreno. Forse si erano rifugiati nel mughetto piú fitto e intricato. Le pernici bianche ci erano volate via da lontano, verso pareti al nord dove era impossibile cacciarle. Stanchi e accaldati prendemmo il sentiero del ritorno sperando nel premio di consolazione: un lepre, o una beccaccia che aveva anticipato, dentro il bosco umido dove il sole non arrivava.
Fu alla Croce del Diavolo, da una busa, che d’improvviso s’involò un bellissimo gallo. Avevamo il fucile in spalla, immalinconiti, stanchi e distratti per la giornata negativa: – È lungo, – dissero i miei compagni. Ma io avevo già il fucile in linea di tiro. (Per essere svelto la guerra mi aveva insegnato a portare il fucile sulla spalla sinistra: viene piú rapido il movimento mano sinistra - impugnatura lunga, mano destra - impugnatura - grilletto).
Ripeterono: – È lungo! – Me lo vidi giusto e lasciai andare la fucilata con la seconda canna dove tenevo la cartuccia piú buona. Sí, il bel gallo era lontano ma lo vidi centrato e poi cadere sull’erba di una radura tra i mughi piú fitti. Cosí inaugurai la mia bella Bayard, comperata con il premio Viareggio.
La cagna me lo riportò. Con uno stecco a uncino, senza rompere, lo ripulii dalle interiora che odoravano di mirtillo e con il temperino lo liberai dal ventriglio che conteneva pietruzze di selce e fogliette di mirtillo rosso. Era davvero un bell’esemplare di Lyrurus tetrix e la fucilata non l’aveva rovinato. A quella distanza aveva preso solo due o tre pallini. Riprendemmo il sentiero e come seguito di un pensiero dissi ai due compagni: – Se siete d’accordo, questo gallo vorrei regalarlo a un amico che abita a Milano. Pareggerò con le beccacce.
Il lunedí mattina, prima ancora di andare al lavoro, confezionai il bel gallo in una scatola con felci di bosco e lo portai alla Posta: pacchetto urgente per Elio Vittorini. Fui sciocco a non spiegare con poche parole che cosa era quell’uccello e come si doveva preparare. Naturalmente un siciliano non poteva conoscere un tetraonide e la signora Ginetta certamente non ne aveva mai cucinato uno, nemmeno gli amici che frequentavano la loro casa. Dopo qualche tempo Vittorini mi disse che quel volatile era certamente molto bello, che non avevano saputo dargli un nome, e che a mangiarlo era selvatico e coriaceo. Da allora, all’autunno, gli mandavo solo tordi.
Per il mio secondo libro, Il bosco degli urogalli, fu diverso. In quell’autunno del 1962 c’era stato a Padova un convegno italo-francese tra amici pittori, poeti e scrittori. La signora Niní pensò di ospitarli una sera nella sua bella villa settecentesca nei pressi di Arquà Petrarca. C’erano Diego Valeri, Tristan Tzara, Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, un poeta francese che non ricordo. Insomma, con le signore, una dozzina in tutto. Diego Valeri, che mi aveva manifestato il suo entusiasmo per Il bosco degli urogalli, mi aveva fatto sapere che sarebbe stato davvero bello poter festeggiare con selvaggina, proprio come nel Settecento. Naturalmente mi invitava a essere con loro. Per l’occasione potei mettere insieme due beccacce, due francolini di monte e due pollastri di gallo forcello. Aggiungendo in un biglietto che i tordi li avrebbero trovati sul mercato di piazza delle Erbe, a Padova, e che io non potevo esserci perché il capoufficio mi aveva negato il permesso. Aggiunsi pure una lettera per Valeri e i suoi amici dicendo che le beccacce, come poeti e letterati, dovevano ben sapere cosa fossero; per i francolini spiegavo che i nostri montanari ne facevano dono ai dogi e ai patriarchi per le loro isquisitissime carni e che i pollastri di gallo forcello erano cresciuti mangiando uova di formica, fragole e mirtilli.
Certamente quella serata fu particolarmente bella tra amabili signore, poeti e pittori, ottimo vino, frutta colorata d’autunno, fuoco nel grande camino.
Dopo qualche giorno che era partita la cassetta con la selvaggina a mezzo della corriera Asiago-Padova, mi venne il dubbio che non mi lasciava, orribile, di aver scritto connifere là dove spiegavo l’habitat del francolino di monte, Tetrastes bonasia ecc. Chissà, pensavo con vergogna, cosa avrà detto Diego Valeri leggendo la mia lettera. Mi davo dell’ignorante, dello zotico montanaro. Mia madre e la maestra Elisa mi avrebbero ripreso mettendomi in ridicolo per il mio italiano scritto da un dialettofono che mette consonanti doppie dove non occorrono e non le usa dove ci vogliono. Ora, a distanza di tanti anni, Valeri e anche Comisso, e pure Migliorini, sorriderebbero bonari della mia vergogna di allora. Un giorno Migliorini, sui miei dubbi sorrise e mi disse: – Non preoccuparti, la lingua è una cosa viva e non farti correggere troppo dai pedanti delle case editrici.
Certamente, quella sera della favolosa cena, anche se avessi scritto connifere, Diego Valeri non avrebbe rivelato il mio banale errore; certamente avranno gradito e gustato in bella compagnia la selvaggina dei miei monti.
Quando viene l’ottobre, con le sue piogge arrivano anche le beccacce che hanno lasciato i luoghi di nidificazione del Settentrione dove il terreno gela e il giorno è sempre piú breve; sostano qui prima di raggiungere i luoghi dello sverno nel nostro Sud. È il momento magico del bosco, dei silenzi, delle albe nebbiose, dei colori smorzati verde-bruno-giallo in tante tonalità che a tratti una luce misteriosa rende evidenti nel sottobosco pre-invernale. Certe volte ti fermi ad ascoltare il campanello e poi il trotto di un cane del cacciatore solitario che passa, si allontana e svanisce dentro il bosco.
Tra i possibili modi di cacciare, questo d’autunno – con la pioggia e con un cane in luoghi che ben conosci, con un fucile che senti tua continuazione, e l’ora e la stagione, e i ricordi che ti accompagnano – ti fa intensamente partecipare a un mondo che senti esclusivamente tuo, che ti aiuta a capire le stagioni della tua vita che nessuno mai potrà rubarti.
Con le piogge dell’autunno arrivava anche la noia della domenica pomeridiana; non si poteva giocare sulla strada e nemmeno sui prati, o lungo il torrente che diventava giallo e impetuoso. Non sempre, poi, si avevano quei cinquanta centesimi di lira per pagare l’ingresso al cinema parrocchiale dove davano i film di Tom Mix.
Elsa, mia cuginetta di secondo grado, aveva avuto in dono dal padre un teatrino con alcune marionette, bello e completo anche se piccolo, cosí in quell’autunno piovoso del 1932 pensammo di fare teatro per i bambini e i ragazzi della nostra via nella ex stalla dei cavalli di casa mia. (I miei avevano sostituito i cavalli con un autocarro Fiat 15 Ter residuo della Grande Guerra, che stava nel portico).
Pulimmo ben bene la stalla e diedi persino una mano di calce alle pareti; preparammo un supporto a giusta altezza dividendo il palcoscenico dalla platea con teli di iuta che erano serviti a raccogliere il fieno; in platea, come sedili, sistemammo balle di paglia e tavolame d’occasione, allestimmo i posti a sedere graduando l’altezza dal basso verso l’alto. La sala fu pronta dopo una settimana di lavoro pomeridiano.
Restava da creare lo spettacolo. Feci delle prove con delle favole di Andersen che mi erano particolarmente piaciute, con brani di Pinocchio, con storie di fate e di maghi. Riuscivo persino a fare tre voci: da uomo, una sottile da donna, una grossa da diavolo o mago. Elsa mi faceva da aiutante passandomi le marionette, suggerendomi quando non trovavo l’attacco giusto; era anche lesta a cambiare le scene dopo aver calato il sipario.
La notizia si sparse tra i nostri amici e c’era attesa per il pomeriggio della prima. Elsa e io pensammo di far pagare l’ingresso per coprire le spese, che erano per le candele, la pece greca, gli acquerelli per dipingere le scene e le quinte. Stabilimmo dieci centesimi per le bambine e quindici per i ragazzi. Pioveva forte quella domenica d’ottobre, facemmo un pienone e il nostro spettacolo fu un successo.
Naturalmente si cambiava programma a ogni rappresentazione e tre o quattro erano i nostri soggetti; i burattini erano: Pinocchio, Orlando e Angelica, il dottor Balanzon, la Fata, il Mago, il Diavolo. Sapevo improvvisare dei colpi di scena che davano forti emozioni e il mio pubblico reagiva con esclamazioni o incitamenti.
Orlando faceva fuggire a fendenti di spada il mago Merlino al fine di liberare Angelica; Pinocchio non voleva la medicina della Fatina dai capelli turchini; Arlecchino prendeva a bastonate il conte Bragheonte; il Diavolo compariva in scena da una vampata che creavo facendo cadere una presa di pece greca pestata fina fina sulla fiamma di una candela. A questa apparizione i bambini piccoli si spaventavano.
C’era pure la comica finale con una canzoncina che chissà dove e come avevo sentita, forse in una sagra o al Teatro del Patronato. Cantavo Martino e Martina che litigavano perché, ora l’uno ora l’altra, al mercato avevano comperato delle cose che l’altra o l’uno dicevano troppo costose, si erano fatti imbrogliare, insomma. Per un cappello, per un paio di zoccoli, una pignatta, una gallina, uno scialle. Martino e Martina discutevano, si beccavano, litigavano a voce alta ma alla fine facevano la pace con un bacio e un balletto. Applausi, bis!
Andammo avanti cosí finché non venne la neve, ché ci divertiva sciare.
L’anno dopo, con le piogge autunnali, ripresi le rappresentazioni. Nel frattempo Elsa e io, con tavolame di recupero, avevamo costruito un teatrino piú grande, con altri scenari, un bellissimo sipario con dipinto un castello. Avevamo persino creato altri personaggi. Con la creta scavata in un luogo particolare del torrente avevamo fatto testa e busto di nuove marionette e le rendemmo di terracotta cucinandole nel forno di casa; per gambe e braccia ci aggiustammo con pezzetti di legno dolce, per i costumi con pezzi di stoffa, di cotone e di seta avuti dalle nostre madri. Cucimmo persino i costumi con una vecchia macchina da cucire di marca tedesca.
Il successo si ripeté e cercai d’inventare altre storie. Un sabato, quando andai con dieci centesimi a comperarmi «Il monello», Nini, il giornalaio, mi disse che aveva un libretto di teatro che certamente andava bene per i nostri spettacoli. Costava cinquanta centesimi, ma avevamo un po’ di cassa.
Erano troppi i personaggi della Locandiera di Carlo Goldoni: Mirandolina, il conte d’Albafiorita, il marchese di Forlipopoli, il cavaliere di Ripafratta. Erano troppi. Cosí cercai di eliminarne qualcuno e alla fine rimasero sul palcoscenico soltanto Mirandolina, Fabrizio e il cavaliere di Ripafratta. Povero Goldoni, come lo avevo maltrattato!
Devo dire che non fu un successo e l’anno dopo, l’ultimo della mia carriera di teatrante, lo levai dal programma.
Nel nostro Altipiano ci sono due luoghi, forse anche tre, dove i cervi a ottobre lanciano i loro bramiti d’amore: è una forte voce di richiamo, di sfida e di possesso di un territorio che si fa sentire anche lontano. È il segno certo della loro presenza anche per chi non li vede. In questa stagione il colore del loro mantello è cambiato e da bruno rossastro è diventato bruno-grigio con sfumature piú scure; i maschi adulti hanno attorno al collo il pelo lungo e folto come una criniera; lenti e possenti esibiscono la loro corona e si mettono in mostra controluce per manifestare alle femmine e ai maschi concorrenti la loro possanza.
Girano per le montagne in cerca del branco delle femmine, mugghiano nella sera come a dire: «Sono qua... sono qua, guardatemi». I giovani maschi che seguono l’harem rispondono con bramiti meno possenti: «Ci siamo anche noi... noi». I cervi maschi, dicono gli esperti, hanno molte possibilità di comunicare vocalmente tra di loro, di far capire quando è il momento di osare o di ritirarsi e abbandonare il campo. La lotta per il possesso della femmina è piú visiva e uditiva che di forza, ma accade anche che questo non sia sufficiente ad allontanare il rivale, e allora si passa alla lotta di forza fisica intrecciando i palchi delle corna, spingendo, puntando gli zoccoli, tendendo i muscoli, facendo cerchio a testa bassa. Chi soccombe viene inseguito per breve tratto dal vincitore che gli lancia come delle risate di scherno: «Via... via». Poi ritorna a controllare e a riunire il gruppo delle sue cerve.
Le foglie degli aceri montani hanno preso la luce dall’ambra e la brezza del mattino le stacca dai rami, adagiandole al suolo. I sorbi dalle rosse e lucenti bacche sono irresistibile richiamo alle cesene e alle tordelle; i galli forcelli si radunano sui solivi nelle radure tra i mughi, ma quando il tempo minaccerà neve, allora saranno lesti a cercare rifugio nelle buse riparate dal vento. I prati attorno alle contrade e i pascoli si sono adornati degli ultimi fiori: i colchici autunnali dai colori azzurri e violetti. Nel bosco gli ultimi funghi sono i cortinari viola e gialli, l’agarico violetto, l’agarico nebbioso. Qualche raro porcino cresciuto con l’ultima lunazione d’autunno è golosamente ricercato dalle arvicole e dagli scoiattoli. Il sottobosco emana odori di legni marcescenti, di muschio, di funghi, di bacche appassite.
Arrivammo il pomeriggio e l’autunno era avanzato; le mele erano state raccolte, l’uva pigiata e nei masi alti asp...