Mio padre sta versando caffè nelle tazzine degli ospiti. Sono un bambino e non bevo caffè, ma oggi questa scena mi incuriosisce, perché mio padre è ferito. Sembra averlo scordato, adesso, mentre ride chiacchierando, col carillon dei cucchiaini che girano tintinnanti nel sole pomeridiano. Eppure il suo mignolo è avvolto in una smisurata garza, per proteggere l’unghia rimasta schiacciata nello sportello di un’auto, qualche giorno fa. Io guardo affascinato l’enorme dito bianco che oscilla sulla tavola, finché, di colpo, lo vedo immergersi nel liquido fumante, senza che lui, distratto, se ne accorga.
Sto lí, ipnotizzato, in mezzo al tepore postprandiale, tra l’odore di cibo e di tabacco, senza dire nulla, senza avvertirlo del nero che intanto va montando lungo la fasciatura, risalendo verso la sorgente del dolore, lentamente, inesorabilmente. Piú su, piú su, e lui niente. Adesso, però, l’intera benda è diventata scura, intrisa di un bitume incandescente. Cosí la mia infanzia si arresta, attraversata da un urlo improvviso, il tonfo del bricco, le schegge di ceramica, gli schizzi sulla tovaglia. Ecco cos’è per me “la voce del sangue”: la fitta di chi chiama dall’interno, e chiama e chiama, finché la gente intorno si decide a ascoltarla, mentre lento si spande l’aroma del caffè.
Gli era sempre piaciuto il caffè, per questo, alla fine, non mi sono sorpreso piú di tanto quando ho capito che lo sarebbe diventato. Mi riferisco alla tomba di famiglia. La ricordavo appena, traccia svanita di qualche lontano funerale. Alla sua morte, tuttavia, fui costretto a prendere confidenza con quel luogo e con i suoi protocolli; burocrazia dei cimiteri. Trascurato da oltre un decennio, il sepolcro era caduto in abbandono. Fissai un appuntamento con un addetto, per indagare meglio la situazione. In breve seppi che, tra la colliquazione di alcune salme e l’umidità del posto, il vano risultava mezzo allagato, in uno stato di completo disfacimento. (Tolto il coperchio marmoreo, mi curvo perplesso sul vuoto, e intravedo le casse accatastate in mezzo alla melma, come in un acquitrino, mentre dal basso sale un’aria fredda, da vecchio scantinato).
Ora occorreva fare pulizia. Mi hanno sempre colpito i racconti in cui un gruppo di persone viene esposto alla necessità del sorteggio. La paglia piú corta. In un modo o nell’altro l’estrazione del prescelto possiede una irresistibile forza d’attrazione. Ecco: ho sempre avuto la vertigine della conta, e anche quella volta andò proprio cosí. Nel gorgo della chiamata, finii come al solito io. Fra tanti parenti, toccò a me il compito di ripulire l’avello – non le stalle di Augia, bensí il loculo del Verano. Insomma, come nei giochi di carte da bambino, mi capitò in sorte l’Uomo Nero, anzi, gli Uomini Neri, visto che di cadaveri, lí dentro, ce n’erano diversi. E che dovevo fare, con quel pantano di poveri dormienti?
Le pulizie di Pasqua ebbero inizio allora, con l’aiuto di un esperto, scelto per presiedere ai lavori. Perché si trattò di svuotare, spalare, prosciugare, ricostruire e areare quel mondo sotterraneo popolato di salme. Fu cosí che affrontai la questione delle “rese”.
La resa è la differenza di quanto, dopo morto, ognuno paga con la propria vita: l’avanzo degli avanzi, l’autoreliquia. Ogni resa equivale a un corpo, o piuttosto a ciò che ne rimane una ventina d’anni piú tardi. La tomba, insomma, è una macchinetta distributrice che dà indietro il resto, sia pure dopo un’attesa alquanto prolungata.
Storia curiosa, questa dei residui conservati a oltranza. Conobbi allora il motivo per cui l’Italia dei Sepolcri foscoliani si differenzia da tanti altri paesi. Senza parlare della cremazione (e del cosiddetto “Piano Oceano”, lanciato da Shanghai per abolire i cimiteri nel giro di vent’anni, disperdendo in mare le ceneri dei suoi abitanti), ciò che contraddistingue le nostre usanze funebri è il modo in cui confezioniamo il cadavere. In molte nazioni la spoglia viene affidata alla terra, in una semplice cassa di legno, per poi filtrare via, sciolta nell’humus. Da noi, al contrario, i morti sono accolti in un’architettura che impedisce loro di svanire.
Ospitati dentro caseggiati di pietra, separati dal suolo, sono riposti, sí, entro bare di legno, ma bare foderate di zinco. Cosí facendo, viene impedita loro ogni via di fuga. (E per finire dove, poi? In una specie di residence coi pavimenti in marmo). Diventano perciò mucchi, pozzanghere, ma immobili, bloccati, senza poter evadere da quell’invaso metallico. Siamo una società conservatrice, che non vuole smarrire-smaltire nemmeno i propri cadaveri. Tombe come cibi in lattina, tombe come cassette di sicurezza: e che nulla si perda, strada facendo!
Questo mi disse il tecnico, per spiegarmi in cosa consistessero le rese. La resa era appunto il travaso di quei resti, dopo un certo intervallo, dalla cassa vera e propria a una piccola scatola di latta, numerata. Intanto, fra me e me, vedevo una cantina riempita di barrique. D’altronde, come non pensare all’invecchiamento dei vini, alle botti, alle annate… Legno, tannino, feccia – gli equivalenti della strana pasta che dovevo domare, io, all’oscuro di tutto fino a ieri, io, perfetto incompetente della Morte. Stavo prendendo lezioni di scuola guida, per un Aldilà che appariva molto lontano dalle mie aspettative. Mio padre mi obbligava ad esperire il grande regno della Stagnazione e del Parcheggio-corpi. Ma le colonne altissime di fumo, le eroiche ceneri disperse al vento e alle onde, perché no? Perché no. Cosí, sono alle prese con le rese.
Ce n’erano quattro o cinque, dei miei cari, da sottoporre a trasloco. L’operazione richiedeva la presenza di almeno un parente stretto. Allora, mostrando l’Asso di Bastoni che avevo estratto dal mazzo, mi feci avanti e fissai l’appuntamento.
C’è folla, sottoterra. Questa mattina, sei o sette operatori salgono e scendono tra scale e funi. Piú tardi passerà anche un’ispettrice, bionda e gentile. Palanche e corde, picconi e cemento, in un’attività che durerà frenetica tre ore almeno. Intorno, alcuni visitatori, perplessi nel frastuono del cantiere, cercano di pregare i loro morti limitrofi. Ma ecco che viene fuori la prima bara. Il legno, zuppo e nero (testa di moro), si sbriciola, biscotto troppo a lungo inzuppato. Viene via, e disgregandosi rivela la sua camicia: siamo allo zinco. Anche lui è messo male, cosí ossidato e pallido, cosí corroso e opaco, da somigliare a un’ostia. Eppure ancora abbastanza resistente da contenere qualcosa.
(Qualcosa: se tutto dovesse andare per il meglio, io, ad esempio, sarò un mucchietto scuro, scintillante di protesi. Impianti, viti, perni, placche, ponti, mescolati ai materiali organici veri e propri. Anche nell’oltretomba, farò sempre scattare i metal detector).
Comunque sia, sarà stato pudore, ribrezzo o una semplice forma di ossequio, fatto sta che mi sono girato. Ho voltato le spalle ai familiari, non volevo vedere; ascoltavo soltanto, mentre la squadra intorno continuava a elencare i miseri segnacoli di un’agnizione impossibile. Come un indovinello, una caccia al dettaglio, con tutto mescolato, abiti e corpi. Femore, facile; nodo di una cravatta, elementare; il teschio, certo; ma quell’apparizione, cos’è quel ragno, quella ragnatela? È stato necessario il capomastro, per sciogliere l’enigma: la crocchia dei capelli di mia nonna (la cui fisionomia era peraltro identica a quella di Christopher Walken, l’attore americano che si suicida nel film Il cacciatore).
Io mi fidavo, guardavo dall’altra parte, mentre lenta e solenne transitava la serie dei reperti. Ho visto soltanto qualcosa di brunito, forme indistinte, nient’altro, neanche un profilo vagamente noto. Passavano dietro di me, e io li intravedevo, ciarpame, cumuli, un lavorato umano. Poi, al termine della sfilata, ho capito. Quando il camion con le bare dissestate è andato via, lasciando a terra una pila di cassette luccicanti, ho capito cos’erano le rese. Le rese sono i morti torrefatti, i morti torrefatti e neri, trasformati in caffè. Saremo tutti cotti nello zinco, per diventare tutti polvere di caffè.
D’altronde, alla medesima conclusione, era arrivato anche un grande poeta. Nel suo testamento del 1949, il Tolemaico di Gottfried Benn espresse infatti questa precisa disposizione: «Disperdere al vento di settembre la metà delle mie ceneri, e conservarne l’altra in una scatola vuota di Nescafé». Aggiungo che, in alternativa, l’impresa svizzera Algordanza, adottando un procedimento di origine russa che prevede una pressurizzazione di due settimane, trasforma le ceneri degli estinti in diamanti di circa un carato. Tra i clienti migliori, i messicani. Allego infine la leggenda metropolitana, secondo cui il cantante Keith Richards avrebbe sniffato le ceneri del padre, mescolandole a un po’ di cocaina.
Quanto al caffè, però, Jean Cocteau non sarebbe stato d’accordo. A suo parere l’immagine della morte andava piuttosto associata a quella del tabacco. Da qui una toccante visione: le sigarette viste come regine d’Egitto, «piccole mummie dalle cinture d’oro». Ho conosciuto bene quella sensazione di vuota levità, buia ed aerea; la provavo da piccolo sollevando mia nonna. Stava da noi ogni tanto, Christopher Walken, veniva abbandonata in una stanza dove sostava, come un soprammobile. Era scesa tanti anni prima dai monti della Ciociaria, e recava con sé, atrofizzato, un dialetto tenebroso e arcaico come le sue vesti.
L’atteggiamento che aveva assunto nei miei confronti, andava dal silenzio a una sorda ostilità. Non seppe mai il mio nome. Si ostinava a chiamarmi con quello di mio padre, ossia suo figlio. Era secca, scura, storta e leggera come un sigarillo, un toscanello, ma con una pelle candida, traslucida, e infine lunghissimi capelli bianchi annodati in una crocchia. E quando li scioglieva… Sembrava un ragno al centro di un’infinita tela luccicante d’argento!
Finché un giorno mi accorsi con orrore che aveva il vuoto fra i globi oculari e le orbite. Solo in seguito notai che quello spazio dischiuso nella parte superiore dell’occhio, a mo’ di sottotetto, appare anche nel David di Michelangelo. Tale scoperta, però, avvenne assai piú tardi; lí per lí la sua improvvisa teschificazione mi impedí di guardarla per mesi. Occhi – e poi nulla, da passarci dentro un dito, là dove tutti noi siamo (o perlomeno fummo) compatti, colmi di carne, a mascherare ogni fessura.
La nonna-sigarillo aveva un conto in sospeso con mio padre proprio a causa del tabacco. Infatti, da ragazzo, lui andava in giro con gli amici rollando salvia e cicoria in carta di giornali. La madre lo vedeva consumarsi, sempre piú magro Magrelli, finché, scoperta l’origine del male, gli impose di giurarle che, lei viva, non avrebbe fumato mai piú. Per mezzo secolo, il figlio le ubbidí. Ma era soltanto questione di tempo, e poco dopo la sua morte, il patto fu prontamente revocato. Mio padre aveva quasi settant’anni, quando, durante un pranzo domenicale, accettò di tirare una boccata. Non gli piacque, ma la settimana successiva le boccate erano già diventate quattro.
E cominciò una silenziosa escalation, con cinque sigarette intere, e tutti i giorni. Io me ne resi conto, iniziai a controllarlo, lo interrogavo, ma lui, sempre serafico, mi rassicurava che erano rigorosamente sei. Il mese dopo, la stessa aria inflessibile accompagnava la risposta: ora erano solo rigorosamente otto. Cosí arrivammo mano mano a dodici, e sempre assunte col massimo rigore. Inutile cercare di fermarlo. Quel che non feci io, poté però il dottore, riportandolo al punto di partenza. Sembrava fatta, eppure la sua tenacia riuscí a trovare un’altra scappatoia: costretto a un’unica, miserabile razione, tanto cercò e frugò che riuscí a scovare una marca tedesca, sconosciuta, in grado di produrre sigarette lunghissime.
Me lo rivedo ancora, in sala da pranzo, impugnare una specie di bacchetta, una prolunga, un’antenna, una folle zagaglia di venti, trenta centimetri. Fumava, fumava, fumava; fumava perdutamente. Dove l’avrà trovata?, mi chiedevo ammirato. Durava un quarto d’ora, e lui, inebriato, taceva fra le spirali, dolce Brucaliffo, sorridendo felice, rigorosamente felice, come fu poche volte in vita sua.
Improvvisi come il fumo, comparvero i viaggi. In tutta la sua vita, tolta la parentesi bellica in Slovenia e un fugace viaggio di nozze in Grecia, quest’uomo interamente dedito al lavoro non aveva mai lasciato l’Italia. Settant’anni di fila senza praticamente uscire dalla sua città, poi, da un momento all’altro, Samarcanda, la Cappadocia, Gerusalemme, Angkor, e questo negli anni in cui il turismo di massa non si era ancora pienamente affermato. Come gli saranno apparsi gli altopiani dell’Asia Centrale, o le pianure cambogiane…
(Esagero. Esagero e falsifico. Era già stato almeno in Inghilterra, nell’Europa dell’Est, in Marocco. Eppure mi vie...