Un’opera di questa natura ha fatto ricorso spesso e volentieri alla generosità degli specialisti, e il Curatore si mostrerebbe in tutto e per tutto indegno del generoso trattamento ricevuto qualora non fosse disposto a riconoscere appieno la portata dell’indebitamento.
In primo luogo gli corre l’obbligo di ringraziare il dotto e provetto Bahadur Shah, elefante salmerista 174 sul Registro indiano, il quale, assieme all’amabile sorella Pudmini, ha avuto la compiacenza di fornire la vicenda di Toomai degli Elefanti e gran parte dei ragguagli contenuti in Al servizio della regina. Le avventure di Mowgli sono state raccolte in tempi e luoghi diversi da uno stuolo di informatori, per lo piú desiderosi di serbare il piú stretto anonimato. Tuttavia, tale è ormai la distanza, il Curatore si ritiene autorizzato a ringraziare un signore indú di comprovata tempra, stimato residente alle pendici piú alte di Jakko, per la sua convincente benché alquanto caustica stima delle caratteristiche nazionali della propria casta: i Presbiti. Sahi, sapiente d’infinita applicazione e intraprendenza, un membro del Branco da non molto disperso di Seeonee, e un artista rinomato in quasi tutte le fiere di paese dell’India meridionale, dove la sua danza in museruola col padrone attira gioventú bellezza e cultura da molti villaggi, hanno procurato dati preziosissimi su abitanti, usi e costumi. I racconti «Tigre-tigre!», La caccia di Kaa e I fratelli di Mowgli vi hanno attinto a piene mani. Per la traccia di «Rikki-tikki-tavi» il Curatore è indebitato con uno dei piú eminenti erpetologi dell’India settentrionale, ricercatore intrepido e indipendente il quale, deciso «non a vivere bensà a sapere», ha sacrificato la vita a furia di studiare con soverchia cura i nostri Tanatofidi orientali. Un felice incidente di viaggio ha permesso al Curatore, imbarcato sulla Empress of India, di essere di qualche aiuto a un compagno di bordo. Con che dovizia siano stati ripagati i suoi modesti servigi, ai lettori della Foca bianca giudicare.
Chil l’Avvoltoio porta il buio:
e Mang gli dà la via;
noi ancora fuori ai primi albori
l’armento è in vaccheria.
Fiertà e vigore, è giunta l’ora
di zampa zanna e unghia.
Sia buona caccia a chi abbraccia
la Legge della Giungla!
Canto notturno della Giungla
Erano le sette di una sera molto calda sulle alture di Seeonee quando Babbo Lupo si svegliò dal riposo diurno, si grattò, sbadigliò e stiracchiò le zampe una alla volta per scrollare dalle punte la sensazione sonnacchiosa. Mamma Lupa era distesa, il grosso muso grigio calato sullo squittio dei quattro cuccioli ruzzanti, e la luna raggiava entro l’imboccatura della grotta ove vivevano tutti assieme. – Ogr! – disse Babbo Lupo, – è ora di rimettersi in caccia, – e stava per lanciarsi giú per il pendio quando una piccola ombra dalla folta coda varcò la soglia e guaiolò: – Buona fortuna a te, Capo dei Lupi; e buona fortuna e denti bianchi e forti alla tua nobile progenie: che mai non dimentichi chi a questo mondo ha fame.
Era lo sciacallo, Tabaqui, il Leccapiatti, e i lupi indiani sprezzano Tabaqui perché va in giro a seminar zizzania, e a malignare, e a pascersi di stracci e di cuoiame dai mucchi di rifiuti dei villaggi. Ma ne hanno anche paura perché, piú di chiunque altri nella Giungla, Tabaqui va soggetto alla pazzia, e allora dimentica che ha sempre avuto paura di chiunque, e scorrazza per la foresta azzannando tutto quel che gli capita a tiro. Perfino la tigre scappa a nascondersi quando il piccolo Tabaqui impazzisce: la pazzia è quanto di piú obbrobrioso possa capitare a un animale selvatico. Noi la chiamiamo idrofobia, loro invece la chiamano dewanee, la pazzia, e scappano.
– Entra pure a dare un’occhiata, – disse Babbo Lupo, sostenuto, – tanto qui non c’è niente da mangiare.
– Per un lupo, no, – disse Tabaqui; – ma per uno cosà vile come il sottoscritto un osso risecchito è già un banchetto. Chi siamo noi, i Gidur-log [il popolo degli sciacalli], per fare gli schizzinosi? – Si affrettò verso il fondo della grotta, dove trovò un osso di cervo con un po’ di carne attaccata e si accoccolò bel bello a crocchiarne l’estremità .
– Mille grazie per questo buon pasto, – disse, leccandosi le labbra. – Come sono belli i tuoi nobili rampolli! E che occhi grandi hanno! E sono cosà giovani! Ma sÃ, ma sÃ, come ho fatto a scordare che i figli dei re sono uomini da subito.
Ora, al pari di chiunque altri, Tabaqui sapeva bene che non c’è niente di cosà infausto come far complimenti ai figli in loro presenza; e provò gusto nel vedere Mamma e Babbo Lupo inquieti.
Tabaqui se ne stava accoccolato, compiaciuto per la cattiveria inflitta, e poi aggiunse dispettoso:
– Shere Khan, la Tigrona, ha mutato terreno di caccia. Con la prossima luna caccerà tra queste colline, cosà mi ha riferito.
Shere Khan era la tigre che viveva presso il fiume Waingunga, a venti miglia di distanza.
– Con che diritto? – esordà Babbo Lupo furente. – Secondo la Legge della Giungla non ha alcun diritto di cambiare domicilio senza preavviso. Spaventerà ogni capo di selvaggina nel raggio di dieci miglia, e io… io devo uccidere per due, di questi tempi.
– Non per niente la madre l’ha chiamata Lungri [la Zoppa], – disse Mamma Lupa, chetamente. – È zoppa da una zampa dalla nascita. Per questo uccide soltanto bovini. Ora che i paesani del Waingunga sono infuriati con lei, è venuta qui a far infuriare i nostri di paesani. Batteranno la Giungla sulle sue tracce mentre lei è lontana e, quando appiccheranno il fuoco alla vegetazione, a noi toccherà scappare con i nostri piccoli. C’è di che essere grati a Shere Khan!
– Devo esprimerle la vostra gratitudine? – disse Tabaqui.
– Fila via! – scattò Babbo Lupo. – Fila a cacciare con la tua padrona. Hai fatto abbastanza danni per stanotte.
– Vado, – disse Tabaqui, senza scomporsi. – La sentite Shere Khan nella boscaglia sottostante? Avrei potuto risparmiarmi l’ambasciata.
Babbo Lupo si pose in ascolto e, dalla valle che calava fino a un fiumiciattolo, gli giunse l’aspro, irato, ringhioso, cantilenante lagno della tigre che non ha catturato niente e non si perita di farlo sapere a tutta la Giungla.
– Che idiota! – disse Babbo Lupo. – Attaccare una nottata di lavoro con un tale baccano! Cosa crede, che i nostri cervi siano come i suoi grassi manzi di Waingunga?
– Ssh! Stanotte non caccia né il manzo né il cervo, – disse Mamma Lupa. – Caccia l’Uomo.
Il lamento si era trasformato in una specie di ronfante mugolio che sembrava pervenire da tutti e quattro i punti cardinali. Era il rumore che turba taglialegna e vagabondi quando dormono all’addiaccio e a volte li fa correr dritti dritti nelle fauci della tigre.
– L’Uomo! – disse Babbo Lupo, mettendo in mostra la bianca dentatura. – Puah! Non le bastano scarafaggi e rane nelle cisterne; no, deve mangiare l’Uomo, lei, per giunta nel nostro territorio!
La Legge della Giungla, che nulla mai decreta senza una ragione, proibisce a qualsiasi animale di mangiare l’Uomo, tranne qualora uccida per mostrare ai propri figli come uccidere, e in tal caso deve cacciare fuori dal terreno di caccia del branco o della tribú di appartenenza. La ragione vera è che ammazzare l’Uomo significa, prima o poi, l’arrivo di uomini bianchi montati su elefanti e armati di fucile, con centinaia di uomini bruni muniti di gong razzi e torce. Allora nella Giungla la scontano tutti. La ragione che ne dà nno gli animali fra di loro è che l’Uomo è la piú debole e indifesa di tutte le creature viventi, e sarebbe poco sportivo prenderlo di mira. Dicono anche, ed è vero, che i divoratori di uomini diventano rognosi e perdono i denti.
Crebbe il ronfo e si concluse nel «Grrr!» a piena gola della tigre che attacca.
Seguà un ululato, un ululato assai poco tigresco, da parte di Shere Khan. – Ha fallito, – disse Mamma Lupa. – Che succede?
Babbo Lupo corse qualche passo fuori e udà Shere Khan borbottare e bofonchiare all’impazzata, mentre si rotolava nella macchia.
– Quell’idiota ha pensato bene di piombare sul fuoco di bivacco dei taglialegna e si è scottata le zampe, – disse Babbo Lupo, con un grugnito. – C’è Tabaqui con lei.
– Qualcosa sta risalendo il pendio, – disse Mamma Lupa, contraendo un orecchio. – Tienti pronto.
Nel folto i cespugli frusciavano appena e Babbo Lupo ricadde sulle cosce, pronto al balzo. E allora, se foste state presenti, avreste assistito al piú mirabile spettacolo del mondo: il lupo bloccato a mezzo slancio. Aveva spiccato il salto prima ancora di vedere su che cosa sarebbe piombato, e poi cercato di arrestarsi. Il risultato fu che schizzò in verticale per un metro e mezzo, atterrando quasi al punto di partenza.
– Un uomo! – esclamò. – Un cucciolo d’uomo. Guarda!
Proprio di fronte a lui, aggrappato a un ramoscello basso, stava un bimbetto bruno nudo che riusciva appena a camminare: un tenero minuzzolo tutto fossette quale mai era capitato a notte nella tana di un lupo. Alzò gli occhi per guardare in faccia Babbo Lupo, e rise.
– Sarebbe questo un cucciolo d’uomo? – disse Mamma Lupa. – Non ne ho mai visto uno. Portalo qui.
Un lupo avvezzo a trasportare i cuccioli è capace, all’occorrenza, di tenere un uovo in bocca senza romperlo e, nel deporre il piccolo in mezzo ai lupacchiotti, Babbo Lupo, pur serrandogli le fauci sulla schiena, non lo scalfà nemmeno con un dente.
– Com’è piccolo, e imberbe, e… coraggioso! – disse Mamma Lupa, intenerita. Il bimbo si faceva largo fra i cuccioli per avvicinarsi alla calda pelle. – Ooh! Prende la sua poppata assieme agli altri. Cosà questo sarebbe un cucciolo d’uomo. C’è mai stato lupo che potesse vantare un cucciolo d’uomo fra i suoi piccoli?
– Ho inteso altre volte di casi del genere, mai però nel nostro Branco, né da che sono al mondo, – disse Babbo Lupo. – Non ha un pelo che è uno e, solo a sfiorarlo con la zampa, potrei ucciderlo. E invece guarda come alza gli occhi, non ha paura.
La luce della luna si eclissò all’imboccatura della grotta, perché Shere Khan aveva cacciato la grossa testa quadra e le spalle nell’ingresso. Dietro di lei Tabaqui squittiva: – Mia signora, mia signora, è entrato qui!
– Shere Khan ci fa un grande onore, – disse Babbo Lupo, ma gli occhi sprizzavano collera. – Cosa occorre a Shere Khan?
– La mia preda. Un cucciolo d’uomo è venuto da questa parte, – disse Shere Khan. – I genitori sono scappati. Datemelo.
Shere Khan era piombata sul fuoco di bivacco dei taglialegna, come aveva detto Babbo Lupo, e il dolore alle zampe bruciacchiate la rendeva furiosa. Ma Babbo Lupo sapeva che l’imboccatura della grotta era troppo stretta per lasciar passare una tigre. Già cosà Shere Khan aveva spalle e zampe anteriori impedite per mancanza di spazio, come un uomo che cercasse di lottare in una botte.
– I Lupi sono un popolo libero, – disse Babbo Lupo. – Prendono ordini dal Capobranco e non dal primo ammazzabovini a strisce. Il cucciolo d’uomo è nostro… e potremmo anche decidere di ucciderlo.
– Ma quale decidere e decidere! Che mi tocca sentire! Per il Toro che ho ammazzato, devo star qui a ficcare il muso nel vostro covile per ottenere quello che mi spetta? È Shere Khan che parla!
Il ruggito della tigre rimbombò per tutta la caverna. Mamma Lupa si scrollò di dosso i cuccioli e balzò in avanti: gli occhi, due verdi lune nell’oscurità , piantati in quelli ardenti di Shere Khan.
– Ed è Raksha [Il Demone] che risponde. Il cucciolo d’uomo è mio, Lungri… tutto mio! Ucciso non sarà . Egli vivrà per correre col Branco e col Branco cacciare; e alla fine, attenta a te, cacciatrice di cucciolotti imberbi… mangiarane… ammazzapesci… sarà lui a cacciare te! E adesso via di qui, o per il Sambhur che ho ammazzato (non mangio bestiame stremato dalla fame, io), te ne torni da tua madre, bestia bruciacchiata della Giungla, piú zoppa di come sei venuta al mondo. Vattene!
Babbo Lupo guardava esterrefatto. Quasi non ricordava piú che, in altri tempi, aveva conquistato Mamma Lupa in leale tenzone contro cinque altri lupi, quando lei correva con il Branco e non era chiamata il Demone tanto per gradire. Shere Khan avrebbe anche affrontato Babbo Lupo, ma non poteva tener testa a Mamma Lupa; sapeva che, rispetto a lei, si trovava in posizione di vantaggio e si sarebbe battuta all’ultimo sangue. Pertanto mugugnando indietreggiò fuori l’imboccatura della grotta e, una volta libera, gridò:
– Nella sua aia ogni cane abbaia! Vedremo cosa avrà da dire il Branco di quest’adozione di cuccioli d’uomo. Il cucciolo è mio e sotto i miei denti tanto finirà , razza di ladri dalla folta coda!
Mamma Lupa si lasciò cadere ansante in mezzo ai cuccioli, e Babbo Lupo le disse in tono grave:
– C’è molto di vero nelle parole di Shere Khan. Il cucciolo va mostrato al Branco. Sei sempre decisa a tenerlo, Mamma?
– Tenerlo! – ansimò lei. – È arrivato nudo, di notte, solo e cosà affamato; però non aveva paura! Guarda, ha già spinto da parte uno dei miei piccoli. E quella macellaia zoppa intendeva ucciderlo e scapparsene a Waingunga mentre i paesani di qui per vendetta avrebbero rastrellato tutti i nostri covi! Tenerlo? Certo che lo terrò. Non ti agitare ranocchietto. Oh Mowgli (perché ti chiamerò Mowgli il Ranocchio) verrà il tempo che sarai tu a dare la caccia a Shere Khan come lei l’ha data a te.
La Legge della Giungla dispone a chiare lettere che un lupo, quando si sposa, può lasciare il Branco di appartenenza; ma non appena i suoi cuccioli sono abbastanza cresciuti da reggersi sulle zampe deve condurli al Consiglio del Branco, che di regola si tiene una volta al mese con la luna piena, per dar modo agli altri lupi di identificarli. Dopo l’esame i cuccioli sono liberi ...