Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima.
È l’inizio, l’istante in cui ricordare significa cancellare i tentativi precedenti, fagocitati dall’immagine definitiva, che rivive l’esistenza e assorbe tutte le altre possibilità, anche le dimenticanze serbate nella memoria: erba del primo mattino, foglie responsabili della penombra, sagome sudate a mezzogiorno, volto di donna quando finisce di intonare una canzone, gocce di sangue sulla neve fresca, il giorno in cui, per la prima volta, tratteniamo il respiro davanti a un cesto di mirtilli, le vene gonfie del collo, quelle delle tempie in rilievo, per immaginare la nostra morte da bambini. Il momento dello strudel è sempre solo mio e di mia madre, è il nostro momento. Helga non necessita di strudel per sentire il bene di nostra madre. Ma tutto questo, come dice mio padre nel 1945, accade prima. Quanto tempo possiamo trattenere, prima? Quanta memoria sopravvive alla bambina Hilde? Ogni famiglia rinchiude il passato dentro frasi significative, ritornano un paio di volte all’anno, pesano come un canto malinconico, a cui si dà voce con un duplice intento: la speranza che nella frase qualcosa possa mutare; la certezza che, anche per questa volta, nulla cambierà. Allora siamo in silenzio nei giorni delle mele e dello strudel, prima, le mele e lo strudel sono mia madre, che setaccia la farina in una terrina, aggiunge sale e fa un piccolo taglio in mezzo, lí mette burro e versa acqua tiepida; mi dice di prendere il coltello e il cucchiaio, armata mescolo l’impasto, unisco la farina all’olio e all’acqua; continuo fino a quando mia madre lavora la pastella con le dita, prosegue accanto a me testimone di tutti gli ingredienti, le mele e il limone, l’uva sultanina, la cannella e la marmellata di albicocche, felici, fuori dal tempo. Le date vorrebbero un andamento lineare del ricordo, una memoria costruita a ritroso, ma esistono altre voci, coro di luoghi e lingue differenti, pluralità senza gerarchie, l’amore per l’incompiutezza della vita. Hilde Hinner non sono solo io, sebbene parta da una posizione di privilegio: conosco la mia fine.
Maria Zemmgrund, mia madre, nasce a Bockburg, Baviera, Germania, nel 1909. Figlia di Michael Zemmgrund e di Christa Wissens. Michael combatte la Prima guerra mondiale come soldato di fanteria. Torna a Bockburg nel 1918, il volto è invecchiato di quattro anni, ma le mani sono piú curate che alla partenza, quando lasciano la fabbrica. La gamba destra invece è zoppa. Michael Zemmgrund avvicina la piccola città, il campanile della chiesa di St Josef, i rintocchi della campana sopra i tetti d’ardesia, le nuvole riflesse dentro le pozzanghere da scansare. L’invalido di guerra fissa la muscolatura degli alberi, nell’incedere sghembo della zoppia è come se vedesse le piante per la prima volta, ogni passo è l’intervallo della carne assente, un’aritmia del suolo confermata dalla cadenza rivelatrice del respiro, che alterna la pesantezza della gamba ancora intatta al movimento artificiale dell’altra. Una contadina taglia la strada all’arrivo del soldato semplice Zemmgrund e, nonostante la donna cammini diritta con un secchio in mano, semina gocce a pochi metri dalle ombre dei buoi, che si sovrappongono nella terra arata. Gli zoccoli degli animali avanzano con un movimento simile a quello del reduce zoppo.
Bentornato, Michael Zemmgrund!
È invalido a trentasette anni, con la pensione di guerra deve provvedere a Christa, a Maria e a Peter, nato subito dopo Maria, nel 1910. La famiglia lo accoglie attonita sull’uscio, fra i ricordi confusi della moglie rassegnata alla vedovanza e gli sguardi incerti dei figli, ancora piccoli il giorno della partenza del padre. Osservano cauti il volto del soldato, delusi di non trovare il calcio del fucile o una medaglia al valore sul petto, ma fissano incuriositi la stampella di legno, che dall’ascella scende al tronco e corre quasi parallela ai pantaloni laceri, alla mezza assenza, dove finiscono gli sguardi.
Solo dopo alcune ore – trascorse dentro il bollettino familiare, nella conta dei vivi e dei morti, mentre i figli estranei giocano in cortile – Michael Zemmgrund allenta la fibbia e abbassa il pantalone, si appoggia con una mano alla spalla della moglie, che gli pare un’infermiera matura. Le gambe sono indebolite dai ranci, dalle zuppe semifredde versate dentro scodelle di ferro grandi quanto elmetti bucati da un proiettile, un unico piccolo foro ingordo, che svuota il pranzo al posto della bocca. Aiutato da nonna Christa, il soldato Zemmgrund mostra il legno nero dell’arto, fissato al moncone della gamba tramite un intreccio provvisorio di lacci e stringhe. Ecco tuo marito, la pelle c’è, è l’osso che manca: lei si avvicina, non al marito, ma alla nuova creatura di legno.
Una gamba quasi vera appartiene solo a un ufficiale, a uno dei pochi comandanti che nella guerra perde qualcosa. La tua gamba è l’arto di un burattino, non puoi comandarla bene, è come quando la gamba vera si intorpidisce e senti un formicolio, la tocchi, confidi nella prossimità, invece provi solo l’assenza, sollevi il piede e il resto di te finto, trascini nove chilogrammi di arto, il tuo è sempre un movimento innaturale, devi stare attento al peso: non puoi ingrassare, altrimenti il moncone non entra piú nell’imbracatura. Il moncone è il confine, devi pattugliare la frontiera, nemmeno puoi dimagrire, il moncone ballerebbe dentro un estraneo, passerebbe aria, lo spiffero non può fuggire nel terreno, è condannato al corpo, all’erosione lenta, da dentro. La schiena ti duole, per camminare zoppicando devi darti la spinta con i lombari. Tutti compiangono la gamba ma dimenticano la schiena, che vive nella sua nuova posizione: hai la lombalgia acuta, la scoliosi, i tessuti molli si calcificano, le vertebre lottano fra loro e ti ritrovi fermo, piegato al centro della stanza.
Gli Zemmgrund abitano nella parte vecchia di Bockburg, in un piccolo appartamento al piano terra, ubicato al numero 20 di Wiesenstraße. L’alloggio è composto da un’unica stanza di trenta metri quadrati; il bagno – condiviso con gli altri abitanti del palazzo – è in un angolo del cortile, uno stanzino costruito nel punto in cui anche i gatti, all’esterno, approfittano della terra per i loro bisogni. Maria detesta i gatti, il loro puzzo di piscio le appartiene, le ricorda l’umiliante condivisione nei primi anni della sua esistenza, quando si vergogna della casa, della stanza in cui nasce e cresce, il disagio della branda in cucina, le notti insonni assieme al respiro del fratello Peter, che si espande fino a impossessarsi delle mura malate.
I piccoli appartamenti di Wiesenstraße conservano l’eredità ottocentesca della terra battuta annerita. I soffitti sono troppo bassi per ricavare soppalchi o cantucci sopraelevati. In ogni appartamento abitano in media almeno quattro persone, come nel caso degli Zemmgrund. Spesso vivono in sei, e soprattutto d’estate le grida o le semplici conversazioni familiari rimbombano condivise con il vicinato, e l’odore continuo del cavolo – piú che il sesso, i gemiti notturni dialettali – sembra il responsabile della crescita demografica. L’odore attraversa i piani e i divisori di gesso come un incessante mormorio di recriminazione, la speranza che quelle pareti possano crollare, portando con sé le orecchie di tutti.
Nonna Christa è una brava sarta ma non potrebbe farne una professione abituale. Anche se avesse i soldi per comprare la macchina da cucire, dove la metterebbe nei trenta metri quadrati di Wiesenstraße? Lei va di casa in casa a ogni cambio di stagione, usa le macchine da cucire delle casalinghe benestanti o proprio ricche, ricchezza che fa perdere loro la qualifica di casalinga. Le signore diffidano dei grandi magazzini, conservano l’abitudine di richiedere i vestiti alle sarte. Christa prende le misure, s’inginocchia per segnare la lunghezza degli abiti, taglia, imbastisce, cuce. Porta con sé Maria e Peter. Maria guarda la forbice che affonda nei tessuti, gli scarti di stoffe, i fili bianchi come larve. Fissa il volto di Christa, serio per gli aghi o gli spilli stretti tra le labbra, come d’abitudine per le sarte professionali. Maria teme una distrazione della madre, uno starnuto, un sospiro improvviso, spilli e aghi dalle labbra in gola, nella trachea, in pancia, la morte materna nelle case dei ricchi, tra pareti lisce e tinteggiate di bianco. Sulle mura sono appesi quadri in cui accadono fatti antichissimi, uccisioni di santi e animali, banchetti di ubriachi, timidezze di Madonne. Christa non sa capire questi eventi incorniciati all’interno delle abitazioni e non in una chiesa spoglia e fredda. Le case sono calde, hanno i termosifoni, le stufe di maiolica, di ceramica, sui tavoli di marmo o di legno intarsiato da ebanisti splendono centrini d’uncinetto ricamati nel 1700: i vasi di fiori non muoiono mai.
Nella casa di Wiesenstraße un piccolo braciere riscalda appena i piedi e parte delle gambe, lascia al freddo il busto, le mani. L’elettricità arriva nel 1921 ma gli Zemmgrund tengono spesso la luce spenta, non si fidano delle bollette, prediligono il chiarore rossiccio della lampada a petrolio. Nel buio della piccola stanza, l’umidità sale dal pavimento irregolare, ristagna a mezz’aria, sembra un animale notturno dal pelo folto, che si appiccica affamato ai muri, bagna i capelli aderenti alle federe dei cuscini ammuffiti, fino a quando la famiglia tossisce a turno, come per allontanare dai corpi i passi che sfilano lungo la strada, appena oltre il vetro appannato dell’unica finestra. Sdraiata nel letto, accanto a suo fratello Peter, la bambina Maria Zemmgrund sogna un’altra vita.
Maria Zemmgrund si fidanza con Hans Hinner nel 1929, a una festa estiva lungo l’Isar, uno dei due fiumi che cingono Bockburg. Si vedono per la prima volta nel 1924, quando frequentano la stessa scuola, il liceo cittadino è a pagamento, lei va a scuola grazie al partito, che le paga l’iscrizione. Hans e Maria ballano sull’argine del fiume, guardano per terra, timorosi di pestarsi i piedi; siedono su un masso ancora caldo del sole pomeridiano, l’aria notturna rischiarata dai fuochi, dallo strepitare forte di legna e risa; bevono birra e mangiano frittelle di patate mezze fredde e uova sode prese da un cesto illuminato dai raggi lunari, sembra che il satellite si rapprenda al di sotto dei gusci, nel nucleo originario dei giorni, per manifestarsi tra le mani di Hans e Maria, che non conoscono molto l’uno dell’altra, solo gli incroci quotidiani dei volti cresciuti in poco tempo. Hanno già vent’anni.
Nel 1929, nonostante la difficile situazione economica, Maria lavora come commessa nel negozio di tessuti, coperte, lenzuola e biancheria intima di Frau Adlung, lungo Marktstraße. Il negozio è in centro, gli affari vanno bene solo di sabato, il giorno di mercato, quando grazie alla vicinanza delle bancarelle e a una maggiore affluenza, anche il negozio beneficia dell’assembramento. Non ho paura della concorrenza, ripete Frau Adlung, magari ci fosse il mercato tutti i giorni! Meglio un solo venditore e dieci clienti, o meglio dieci venditori e cento clienti? Certo, meglio un venditore per cento clienti, i miei prodotti sono adatti a ogni tipo di borsellino, posso conquistare tutte le cento clienti. Eppure gli affari vanno male, Maria non ricorda l’ultimo ingresso in negozio di qualche coppia alla ricerca di un tessuto per un completo spigato, economico, da mettere nei giorni di festa, con il panciotto, la catenina dell’orologio ereditato dal nonno. La padrona considera Maria un investimento per il futuro: certe persone è meglio averle dalla propria parte. L’assunzione della figlia di un invalido – in un periodo di crisi economica – può considerarsi una follia, ma Frau Adlung è lungimirante: quale altra padrona, nel 1929, assumerebbe la figlia di un nazista zoppo? Si vendono meno stoffe, quando le maniche delle giacche sono lise basta una toppa di velluto per attraversare un altro inverno, non solo i bambini indossano pantaloni sempre piú corti in dicembre, anche i ragazzi con i primi baffetti. Almeno indossassero un cappotto! Si arrangiano con giacche e due strati di maglioni, spesso bucati, credono di recuperare calore con i calzettoni di lana, che si slabbrano subito, quando l’elastico li fa scendere sulle scarpe, come ghette per le polacchine forate. I clienti ricchi preferiscono comprare un paio di mutande a Monaco. Abbiamo il negozio pieno di mutande. Venticinque chilometri ad andare e venticinque chilometri a tornare. Hans, faresti cinquanta chilometri per un paio di mutande?
Cinquanta chilometri li farei per andare a Norimberga, per lavorare nella redazione di «Der Stürmer». Il presente di un certo giornalismo è la menzogna, il doppio senso, l’insulto, la provocazione, l’attacco allo scheletro dell’esistenza, il solleticamento continuo di ciò che abbiamo appena sotto l’epidermide: l’orecchio fedele, pronto ad accogliere il ritornello ingiurioso del titolo urlato, che dà forma al pregiudizio come valore, la parola svilita, pochi concetti ripetuti fino a una sensazione fisica di nausea. Domani concederemo la replica sdegnata alla vittima, saranno parole deboli, che rintuzzano il ritardo, nessuno le ricorderà, se si supera una soglia replicare è inutile, ribattere è ridicolo, chi ha il gioco della lingua in mano è già altrove, aprirà un altro attacco, la violazione sistematica della parola, facilitata dai secondi di attenzione che ogni essere umano può sostenere, nessuno vuole controllare la veridicità di un resoconto, di una notizia. Il mondo è un edificio fatto di parole, le parole occupano piazze, strade, stazioni, radio, giardini, automobili, case, asili, scuole, fabbriche, uffici, manicomi, ospedali. Noi inventeremo una nuova discordanza tra realtà e lingua, per riempire l’esistenza del popolo che ascolta: Maria, io voglio essere là.
Hans Hinner dall’età di vent’anni lavora per «Mutter», il giornale di Bockburg e dintorni. È uno degli oltre quattromila quotidiani e settimanali pubblicati prima del 1933. Ha una tiratura di ventimila copie, esce con il formato di un quotidiano ma è un settimanale diffuso fino alle località che si affacciano sul lago di Starnberg, lungo i cinquantacinque chilometri di perimetro lacustre e piú a sud, a Bad Tölz.
Quanto è noiosa la vita dentro il negozio di Frau Adlung, le stoffe ordinate per tipo – seta, lana, cotone – tonalità e soprattutto prezzo, i tessuti piú costosi sono nell’angolo destro, vicino alla cassa e alla vetrina, dove la padrona passa le giornate, serve le migliori clienti che, anche quando le cose vanno male, per quanto si lamentino sempre, entrano ancora in negozio, risolvono i problemi del mondo con i tessuti, li tastano, perdono le dita nei ricami, le unghie negli intarsi piú preziosi, i polsi ingioiellati sembrano aumentare il valore delle stoffe.
È una sera di festa, l’estate del 1929, i fuochi delle torce – aiutati dalla musica esuberante – illuminano la riva, i primi metri del fondale sanno di bucato, le fiamme lasciano le note e la musica si quieta, trova il punto di equilibrio nel mezzo del fiume, dove solo l’acqua parla, presa dentro il suo ingranaggio, e la musica e le urla gioiose giungono lontane, ignare da un’altra epoca.
E quanto guadagnerebbe un giornalista di «Mutter»? Abbastanza per mantenere mia figlia? Ne dubito. Almeno avessi il mestiere di tuo padre! Tutti conoscono Herbert Hinner. Hinner, fabbri da generazioni. Hans Hinner: giornalista. È un lavoro, a Bockburg? Giornalista è un passatempo! Scommetto che guadagni meno di un operaio. Detesto i giornali come «Mutter». Non m’interessa sapere il giorno in cui il mio vicino smarrisce il proprio cane. Non sento piú abbaiare, lo so anche senza leggere. Tu vuoi cambiare le cose, ma hai bisogno di una guida vera, politica, per uscire nel mondo. Nessuno al tuo livello può pensare di vivere da giornalista, a Bockburg. Se proprio vuoi, tieniti «Mutter» per arrotondare la paga e trovati un lavoro serio. Non vuoi fare il fabbro? Fatti comprare da tuo padre un buon cappotto e un cappello nero, fa sempre un bell’effetto, la gente può credere che sotto il cappello ci sia una testa con qualche buona idea.
Rosie prospetta un buon matrimonio per Hans fin dal 1910, il giorno del primo compleanno del figlio. Non è felice quando lui le annuncia il suo fidanzamento, a pranzo. Impugna la forchetta, che sembra pesare dieci chili, prima di precipitare nel piatto. Ascolta tua madre. Esistono tante ragazze a Bockburg. Se le altre non ti piacciono, non è obbligatorio sposarsi con una di Bockburg. Monaco è piena di ragazze! Norimberga è piena di ragazze! Maria Zemmgrund è figlia di un invalido! Invalido di guerra, ma sempre invalido. Suo padre è nazista, Hans, sono bifolchi, noi siamo nazionalisti, non nazisti, la monarchia è tradizione e classe, perché legarsi alla figlia di Zemmgrund, lo zoppo?
Michael Zemmgrund non è l’unico invalido di Bockburg. E non tutti sono vittime di guerra, c’è anche qualche poliomielitico. Vivono le strade, trascinano scarpe senza lacci, sotto i cappotti indossano le giacche sformate dei pigiami a righe, pantaloni due taglie piú grandi; brontolano per le vie del centro contro i suonatori d’organetto, vecchi mendicanti infreddoliti dalle voci rauche assuefatte alle filastrocche che accompagnano la musica e i silenzi dei loro cani ammutoliti dalle museruole. Gli invalidi sostano davanti alla chiesa di St Josef, appoggiano i cappelli sul selciato, li rivoltano per terra, verso il cielo in attesa di offerte, litigano tra loro per la posizione migliore, si minacciano, sollevano stampelle, agitano bastoni di legno, mani artificiali racchiuse nei guanti neri, e quando la lotta si placa incominciano a sussurrare implorazioni, gemiti mesti sconclusionati, quasi che la voce fosse una creatura a sé stante, indipendente dal resto del corpo. Eppure tutti i mendicanti, sia quelli che riescono a spuntare qualche soldo, sia quelli che non ottengono nulla dalla loro tattica, subiscono le risa di scherno dei bambini. I bambini sanno istintivamente che la spietatezza – come la conoscenza o l’amore – è meglio non disperderla, è bene indirizzarla verso una vittima precisa. I bambini tirano calcetti, esercizi ostili mirati all’arto mancante, urlano parole d’ordine, pretendono che l’invalido prescelto diventi altro, non piú uomo, essere che canta come un gallo all’alba del suo ultimo giorno.
Michael Zemmgrund evita questi invalidi. In birreria conosce Franz-Josef Krauss. Ha venticinque anni, i capelli biondi fini e radi, le guance rosse come due piccole bistecche al sangue aggiunte all’epidermide in un doppio strato di pelle, che avvampa sotto i piccoli occhi, due strette fessure confuse con macchie e sfoghi, foruncoli che lo condannano a un’immagine adolescenziale incongrua e goffa, che pare possa esplodere, per rivelare, sotto la superficie, il vero volto. Krauss lavora fino a ventidue anni nel negozio di alimentari del padre. Alla morte del genitore cede la sua parte a Kurt, il fratello maggiore. Dopo il fallito colpo di stato nazista nel 1923, Krauss decide di impegnarsi politicamente. Come molti abitanti di Bockburg, Krauss – prima del 1923 – è un elettore dei nazionalisti. L’elettorato di Bockburg si divide tra socialdemocratici e nazionalisti, con una prevalenza dei primi. I comunisti sono pochi, i nazisti ancora di meno. Un lunedí mattina del 1924, l’invalido Michael Zemmgrund varca la soglia della sezione del Partito nazista al numero 2 di Marktstraße. Utilizza quella sua zoppia individuale come la certificazione di un torto collettivo da risarcire. Quattro anni dopo, alle elezioni, i nazisti raccolgono meno di cento preferenze, ma questo non impedisce al partito di sistemare Maria Zemmgrund nel negozio di Frau Adlung, l’anno seguente.
Funzionari statali, impiegati pubblici, operai, ferrovieri, reduci della Prima guerra mondiale, commercianti, commessi, fattorini, artigiani, agricoltori, braccianti: tutti sostano con gli abiti delle loro precedenti occupazioni, compongono le lunghe file di disoccupati, che diventano un’unica massa, chi con divise operaie, chi con cappotti e soprabiti grigi, che lasciano intuire un passato in qualche azienda, ex contabili o capireparto o venditori sconfitti al termine di una competizione aziendale in un grande magazzino, in un’azienda farmaceutica o automobilistica, in una fabbrica la cui dirigenza è scontenta per la lieve flessione dei ricavi, e ora i cappotti e i soprabiti manifestano il decadimento dei soldi e degli uomini. I disoccupati provengono anche dai dintorni della cittadina, alimentano le ansie dei bockburghesi, i residenti passano davanti all’ufficio di collocamento e pensano, il prossimo potrei essere io, ho venticinque anni, ho trentadue anni, ne ho quarantaquattro, se diventassi loro, sarei finito. Siamo tutti uguali e in fila. Chi ha un milione di marchi è come se non avesse nulla. Chi non ha nulla non ha neppure voglia di avere banconote, utili, al massimo, per bruciarle nei camini. Ogni disegno impresso sui soldi – re, regine, operai con martelli, contadini con falci – non ha piú valore cosí come ciò che incarna. I commercianti si lamentano, le clienti non pagano in contanti, entrano in negozio e indicano la merce esposta. Le mogli degli operai rinunciano alla costina di carne, nessun bambino muore per una patata in piú e un boccone di maiale in meno. Le mogli degli impiegati pretendono il maiale e il filetto, non si accontentano della margarina, preferiscono burro, uova, salumi, formaggi, non vogliono generi alimentari venduti sfusi o al minuto, desiderano prodotti di marca, l’etichetta come sul giornale, ripetono le parole imparate dalla radio. Non vogliono un osso, con un pezzetto di carne perfetto per il brodo. Le mogli degli impiegati preferiscono indebitarsi per il dado della pubblicità. E le scatolette. E il dentifricio al fluoro: non basta piú sfregare le foglie di salvia, un po’ di succo di limone, tre minuti di spazzolino, e acqua. Allora i commercianti afferrano sconsolati i loro quaderni, copertine nere sopra il bancone, accanto alle casse. Aggiungono nuovi numeri vicino ai cognomi, nei casi di omonimia scrivono anche i...