1.
L’ispettore Ding Gou’er si svegliò con una sensazione di pesantezza e un’emicrania da spaccargli la testa. Aveva un alito fetido. Le gengive, la lingua e il palato erano coperti da una patina vischiosa che non riusciva né a sputare né a inghiottire e gli mozzava il fiato. Sopra la sua testa i lampadari emettevano una flebile luce giallastra: non si capiva se fosse notte o giorno, l’alba o il tramonto. Non sapeva dove era finito il suo orologio da polso e il suo orologio biologico era perturbato. L’intestino rumoreggiava e le emorroidi gli davano spasmi contraendosi al ritmo del battito cardiaco. La corrente elettrica faceva vibrare i filamenti in tungsteno delle lampadine, provocando un sibilo che gli risuonava nelle orecchie sovrapponendosi al battito del cuore. Si sforzò di alzarsi dal letto ma gli arti non obbedivano ai comandi. Come un sogno lontano, gli riaffiorò alla mente la scena del banchetto. All’improvviso il bambino dorato, unto di olio profumato, seduto sul vassoio, gli rivolse un sorriso dolcissimo. L’ispettore lanciò un grido di sorpresa e la coscienza riprese il sopravvento. Come una scossa elettrica, il pensiero rianimò lo scheletro e i muscoli, e Ding Gou’er saltò su dal letto con il balzo di una carpa che emerge in superficie, descrivendo un arco che piegò lo spazio, modificò il campo magnetico e tagliò i raggi di luce rifrangendoli. Poi ricadde affondando la testa nel tappeto sintetico, acquattato come un cane che ha rubato uno stronzo per mangiarselo.
A torso nudo, contemplò con stupore i quattro caratteri a forma di croce incisi sulla parete e si sentà percorrere da un brivido. Attraverso i vapori dell’alcol emerse l’immagine del ragazzo coperto di squame, con il coltellino ricurvo in bocca. Si rese conto di essere a torso nudo, con le costole sporgenti, la pelle del ventre tesa dal gonfiore, lo stomaco coperto di ciuffi di peluria giallognola e l’ombelico pieno di polvere grigia. Si bagnò la testa con l’acqua fresca e si guardò nello specchio del lavabo: aveva la faccia gonfia e gli occhi spenti, da suicidio. Ritrovò la sua cartella, tirò fuori la pistola e mise il proiettile in canna; impugnandola sentà la fresca dolcezza del calcio. Dritto davanti allo specchio, contemplando la propria immagine ebbe l’impressione di trovarsi davanti a un nemico sconosciuto. Si appoggiò la bocca fredda della canna sulla punta del naso. La punta del naso entrò nella canna e dalle narici colarono secrezioni filamentose come tanti vermi contorti. Appoggiò poi la canna sulla tempia e avvertà un brivido di gioia. Alla fine se la mise in bocca, serrandola con le labbra, cosà forte che non vi sarebbe penetrato neanche un ago. Aveva un aspetto veramente ridicolo, tanto che gli venne da ridere. Scoppiò in una risata e anche l’immagine riflessa nello specchio rideva. Dalla canna emanava un gusto di polvere da sparo che gli penetrò in gola. Quand’è che aveva sparato l’ultima volta? Pum! La testa del bambino seduto sul vassoio era volata in aria simile a un’anguria e ne era colata una materia cerebrale multicolore dallo strano profumo. Ricordava che qualcuno si era messo a leccare quella materia cerebrale, come un gatto ghiotto. Il suo senso di responsabilità riprese il sopravvento e nere nuvole di dubbio gli riempirono la testa. Si domandò chi potesse garantire che non fosse tutta una macchinazione: si trattava di una radice di loto modellata come il braccio di un bambino o di un braccio di bambino confezionato come una radice di loto con cinque occhielli?
Qualcuno bussò alla porta. Ding Gou’er estrasse la canna della pistola dalla bocca.
Fecero il loro ingresso il direttore e il segretario del partito, sorridenti.
Dietro di loro il vicedirettore Jin Gangzuan, elegante e in gran forma.
– Dormito bene, compagno Ding Gou’er?
– Dormito bene, compagno Ding Gou’er?
– Dormito bene, compagno Ding Gou’er?
Gettandosi un asciugamano sulla spalla, l’ispettore rispose confuso: – Qualcuno ha rubato i miei vestiti.
Senza replicare il vicedirettore fissò le quattro croci incise sulla parete, quattro volte il carattere dieci, e assunse un’espressione grave. Dopo un po’ mormorò tra sé e sé: – Ancora lui!
– Lui chi? – lo incalzò Ding Gou’er.
– È un ladro provetto, che appare e scompare come per magia –. Jin Gangzuan passò accuratamente il dito medio della mano sinistra sui segni incisi nel muro e commentò: – Ogni volta, compiuto il misfatto, lascia questa firma.
Ding Gou’er si fece avanti per esaminare quei caratteri. L’esperienza professionale gli fece recuperare la chiarezza di ragionamento, la sua consapevolezza aumentò, gli occhi secchi si inumidirono e il suo sguardo divenne acuto come quello di un’aquila. Le quattro croci erano tracciate l’una accanto all’altra, e il coltello era penetrato nel muro di almeno un centimetro sollevando la carta da parati plastificata e facendo emergere l’intonaco.
Quando si rivolse verso Jin Gangzuan si accorse che questi lo stava esaminando attentamente, con uno sguardo intenso. Ebbe la sensazione di essere in suo potere, come se avesse incontrato un nemico di vecchia data che lo avesse preso in trappola. Eppure nei begli occhi di Jin Gangzuan si leggeva un’espressione sorridente e amichevole, che dissipò in parte l’allarme dell’ispettore, abbassandone le difese.
– Compagno Ding Gou’er, – disse con voce suadente come un buon liquore, – l’esperto in materia siete voi. Che significano questi caratteri?
Ding Gou’er rimase un istante senza parole: la leggiadra farfalla della sua coscienza, scacciata dai vapori dell’alcol, non aveva ancora ripreso esattamente il suo posto. Se ne stava dunque a fissare inebetito la bocca di Jin Gangzuan e il luccichio del suo dente d’oro o di metallo.
Il vicedirettore disse: – Penso che si tratti della firma di una banda di malfattori che conta quaranta membri. I quattro caratteri «dieci», a forma di croce, stanno a indicare quaranta ladroni. E chissà che non spunti un Alà Babà : magari siete proprio voi, compagno Ding Gou’er, che vi troverete ad assumere il ruolo di Alà Babà , e questa sarebbe una fortuna per i due milioni di abitanti della nostra città di Jiuguo.
Salutò Ding Gou’er a mani giunte, mettendolo ancora di piú in imbarazzo.
L’ispettore replicò: – Quei quaranta ladroni mi hanno rubato i documenti, il portafoglio, le sigarette, l’accendino, il rasoio elettrico, la pistola giocattolo e la rubrica telefonica.
– Un vero affronto! – esclamò Jin Gangzuan con una risata.
– Per fortuna non mi hanno rubato la mia preziosa compagna, – disse Ding Gou’er impugnando la pistola.
– Vecchio Ding, ero venuto a prendere congedo e avevo intenzione di invitarvi a bere un bicchiere, ma siete talmente occupato che non voglio farvi perdere tempo. Di qualsiasi cosa abbiate bisogno, venite a trovarmi al comitato municipale, – concluse Jin Gangzuan tendendogli la mano.
Ding Gou’er gliela strinse con aria confusa, e poi, sempre in stato confusionale, lasciò la presa e vide Jin Gangzuan allontanarsi dalla stanza, stretto tra il segretario del partito e il direttore, sparendo come un soffio di vento. Ebbe un rigurgito di stomaco e avvertà un forte dolore al petto: l’effetto dell’alcol della nottata non era ancora completamente svanito. La situazione non era affatto chiara. Tenne la testa sotto il rubinetto per circa dieci minuti, bevve una tazza di tè ormai freddo e respirò a fondo ripetutamente. Con gli occhi chiusi, si concentrò sul diaframma e raccolse le idee, scacciando tutte le interferenze e le considerazioni personali. Quando aprà gli occhi aveva riacquistato tutta la sua lucidità , come se un’ascia appena affilata avesse tranciato le liane e le erbe che lo avviluppavano e gli ostruivano la vista. Un’idea nuova fiammante gli illuminò lo spirito: nella città di Jiuguo c’era una banda di selvaggi cannibali e tutto ciò che era successo durante il banchetto era un’abile messa in scena.
Dopo essersi asciugato la testa e la faccia si infilò calzini e scarpe, si allacciò la cintura, mise via la pistola, calzò il berretto in testa e indossò la camicia a quadri blu macchiata di vomito che il ragazzo squamoso aveva abbandonato per terra. Poi andò risoluto verso la porta scura, l’aprà e percorse a grandi passi il corridoio in cerca di un ascensore o di una rampa di scale. Da dietro un banco un’inserviente con un vestito color crema gli indicò gentilmente la via d’uscita da quel labirinto.
Fuori lo accolse un tempo incerto, con il sole che brillava in mezzo a nuvoloni neri. Era già pomeriggio, a terra scorrevano veloci le grandi ombre delle nuvole e sulle foglie gialle degli alberi luccicavano scintille dorate. Si sentà prudere il naso e starnutà sette volte fragorosamente, curvo come un gamberetto, gli occhi pieni di lacrime. Quando si raddrizzò, con la vista ancora annebbiata, all’entrata del pozzo della miniera scorse gli enormi argani rosso scuro e i cavi grigi metallici dei montacarichi che continuavano il loro movimento incessante e silenzioso. Tutto era come prima: il giallo oro dei girasoli, la legna che diffondeva un fresco sentore che evocava le foreste, i carrelli carichi di carbone che circolavano avanti e indietro sugli stretti binari metallici sovrastanti, tra cumuli di minerale. Uno dei carrelli, legato a un cavo elettrico, aveva alla guida una ragazza nera di carbone con denti bianchi che brillavano come perle. Era dritta sul paraurti fiera e maestosa, come un soldato pronto al combattimento. Ogni volta che il carrello arrivava a fine corsa gli dava una brusca frenata e lo inclinava per versare il carbone ancora umido che precipitava fragorosamente come una cascata. All’improvviso comparve il cane lupo incontrato all’ingresso, che si mise ad abbaiare furiosamente contro Ding Gou’er come se volesse sfogare su di lui un odio profondo e implacabile.
Poi il cane scappò via lasciando Ding Gou’er sgomento e smarrito. Se ragionava a mente fredda doveva riconoscere di trovarsi in un vicolo cieco. «Da dove vengo?» «Vieni dal capoluogo della provincia». «E cosa sei venuto a fare?» «Sono venuto a condurre un’indagine su un caso molto importante». Ding Gou’er si sentiva confuso nell’animo, privo di motivazione, col morale a terra, disperato nella sua solitudine, smarrito negli obiettivi. Con la sensazione di non avere nulla da guadagnare e nulla da perdere, l’ispettore si diresse verso lo spiazzo di carico e scarico dei veicoli.
Ma ecco intervenire il caso, elemento fondamentale di ogni storia. Si sentà chiamare da una voce squillante: – Ding Gou’er! Ding Gou’er! Che ci fai qui, compare?
L’ispettore si guardò attorno per vedere da dove provenisse la voce. E scorse sotto una testa di capelli neri arruffati il visetto vivace dell’autista del camion. Se ne stava dritta accanto al camion, con i guanti bianchi macchiati di nero in mano. Illuminata dal sole, aveva l’aspetto di un grazioso muletto. – Vieni qui, compare! – lo invitò agitando i guanti come se fossero una bacchetta magica, che attirava l’ispettore verso di sé.
E Ding Gou’er, in preda a una crisi di solitudine, non poté resistere al suo richiamo.
– Ah, guarda chi si rivede, quella del terreno acido, – disse l’ispettore facendo lo spiritoso. Avendola di fronte si sentiva come una barca approdata in porto o un bambino che abbia ritrovato la madre.
– Ecco il fertilizzante! – esclamò lei ridendo con i denti serrati. – Sei ancora qui?
– Stavo proprio per andarmene.
– E magari vorresti di nuovo un passaggio?
– Certamente.
– Niente è regalato.
– Una stecca di Marlboro.
– Due.
– Due, d’accordo.
– Aspettami.
Il camion davanti partà con una fumata nera, sollevando con le ruote polvere di carbone. – Fatti da parte, – gridò la ragazza saltando sul camion. Impugnò il volante e dopo aver manovrato con energiche sterzate a destra e a sinistra parcheggiò perfettamente sotto i binari sospesi, nel punto di scarico dei carrelli. – Che stile, ragazza mia! – esclamò complimentandosi un giovane con gli occhiali scuri. – Conosco il mio mestiere! Non per vantarmi, – disse lei saltando giú con aria spavalda. Ding Gou’er si rallegrò e schiuse l’espressione al sorriso. – Che ridi? – chiese lei. – Niente, niente.
Il carrello avanzava rumoroso sui binari come una tartaruga nera. Le ruote, sfregando, sprigionavano ogni tanto grandi scintille. Il cavo elettrico sul retro, allentandosi e poi tendendosi, si torceva come un serpente.
La ragazza che lo manovrava aveva uno sguardo determinato e un’aria risoluta, che incutevano ammirazione e rispetto. Nella sua corsa il carrello sembrava una tigre che scende dalla montagna. Ding Gou’er ebbe paura che precipitasse sul camion facendolo in mille pezzi. Ma i fatti dimostrarono che la sua paura era infondata. La capacità di giudizio della ragazza alla manovra era infallibile, i suoi riflessi rapidi, il cervello preciso come un computer. Frenava sempre al momento giusto per far inclinare il carrello: i pezzi di carbone umidi e luccicanti precipitavano nel cassone del camion senza che un pezzo andasse disperso e rimanesse attaccato. L’odore di carbone fresco penetrava nelle narici e Ding Gou’er si sentiva sempre piú di buon umore.
– Hai da fumare, sorella? – chiese tendendo la mano alla ragazza con aria supplichevole. – Fai grazia al tuo umile servitore!
La ragazza gli allungò una sigaretta e se ne mise una in bocca.
In mezzo a una nuvoletta di fumo domandò: – Come hai fatto a conciarti cos� Ti hanno aggredito?
L’ispettore non rispose perché la sua attenzione era rivolta altrove.
Assieme si misero a osservare un carro trainato da una coppia di muli che avanzava sul piazzale ricoperto di detriti, polvere di carbone, pietre, pezzi di legno fradicio, cavi arrugginiti. Il carrettiere, un giovane, teneva la briglia nella sinistra e con la destra faceva schioccare una frusta per far avanzare i muli. Erano due magnifici muli neri. Uno, piú grosso, sembrava cieco ed era attaccato alle stanghe, ma a tirare il carro era solo l’altro, che aveva due grandi occhi brillanti come pezzi di bronzo. Oh oh oh, ohue ohue ohue, la frusta schioccava nell’aria, elastica come un serpente, e il piccolo mulo avanzava baldanzoso trascinando il carro tra i sobbalzi. Ma a un certo punto perse l’equilibrio sul terreno accidentato e cadde a terra. Il giovane lo frustò sulla schiena e il mulo tent...