C’era una volta una giovane coppia. La moglie era una scansafatiche che gettava sempre i fondi del tè e gli avanzi della cena davanti al forno, tanto che con il tempo il Dio della Povertà prese a vivere in quella casa. I due diventarono sempre piú poveri fino a non potervi piú porre rimedio. Non erano neppure in grado di preparare i mochi per le feste del nuovo anno che si stavano avvicinando. Prima che se ne rendessero conto loro stessi, arrivò la notte dell’ultimo dell’anno.
Poiché in casa non avevano neanche un ceppo di legno, il marito pensò di bruciare le assi del pavimento. Era intento a staccarle e gettarle nel fuoco quando sentí provenire dal fondo della stanza un fruscio. Si chiedeva cosa fosse, quando comparve un vecchio vestito di stracci. Il padrone di casa stava per colpirlo con un tizzone, ma l’altro disse:
– Fa’ sedere anche me accanto al fuoco, – e si avvicinò al braciere.
Mentre l’uomo si domandava cosa succedesse, il vecchio aggiunse:
– Sono passati otto anni da quando sono entrato in questa casa e ormai non resta piú niente. Mi andava a genio tua moglie che gettava sempre gli avanzi del cibo e del tè. Ecco perché mi sono stabilito qui da voi. Se vuoi diventare ricco, mandala via.
Il marito seguí il consiglio e cacciò via la donna.
La divinità della povertà gli ordinò allora di andare al villaggio a comprare uno shō di sake, ma l’uomo rispose che non aveva nessun recipiente.
– Compralo al karatsuya1 – gli suggerí il vecchio.
L’uomo, come gli era stato detto, andò al karatsuya, comprò il tokkuri e quindi si recò dal vinaio e si fece dare uno shō di sake. I soldi, glieli aveva dati il vecchio vestito di stracci. Al suo ritorno, i due bevvero insieme e poi la divinità gli disse:
– Stasera per l’ultimo dell’anno, al grido «Inchinatevi, inchinatevi!» passerà il corteo di un nobile signore; egli sarà su un palanchino e verrà da quella parte. Tu dovrai saltarvi dentro e colpirlo.
– Non sono capace di compiere un’azione simile, – protestò il padrone di casa.
– Non hai scelta, – rispose la divinità. – Non hai altro modo per ridiventare ricco, fa’ quello che ti ho detto.
L’uomo pensò che non poteva opporsi al Dio della Povertà e si avviò portando con sé un bicollo. Come gli era stato detto, giunse un palanchino ornato con molte lanterne di carta. Fece per colpire chi stava all’interno, ma sbagliò e colpí invece il battistrada che morí sul colpo. Il corteo si allontanò. Guardò ciò che aveva colpito: era una monetina di rame. Mentre l’uomo restava lí meravigliato arrivò il vecchio:
– Perché non hai colpito il feudatario nella portantina? – chiese. – Il primo dell’anno passerà un altro palanchino, approfitta della prossima occasione, – aggiunse.
La sera del primo giorno dell’anno nuovo, infatti, giunse un altro corteo risplendente di lanterne. L’uomo uscí ad aspettarlo, al momento giusto colpí la portantina e in quell’istante si udí un grande rumore, come se qualcosa rotolasse rompendosi in mille pezzi. Dall’interno del palanchino caddero tintinnando monete d’oro piccole e grandi. L’uomo le raccolse e diventò ricco come un tempo.
Kagawa, Nakatado.
Nei tempi dei tempi, nei parchi del palazzo imperiale, c’erano molti animali e si praticava la caccia alla volpe. Un giorno, il nobile Yasunari andò fra i monti insieme agli altri uomini del seguito per una battuta di caccia e davanti a lui apparve una volpe bianca che sembrava piú che millenaria. La volpe, forse perché era gravida, implorò con le lacrime agli occhi di risparmiarle la vita fino alla nascita del cucciolo. Yasunari la lasciò andar via, ma quando l’imperatore lo venne a sapere lo esiliò in una località chiamata Abe.
Yasunari aveva una moglie di nome Kuzunoha. Una volta giunto ad Abe, per il dispiacere di non poter vivere insieme a lei si ammalò. I dieci uomini del suo esiguo seguito fecero il possibile per curarlo, ma le sue condizioni erano ormai disperate, e in piú, essendo in esilio, non poteva essere raggiunto dalla moglie.
La volpe bianca che egli aveva salvato seppe della sua malattia. Assunse allora le sembianze di Kuzunoha e andò da lui. In un primo momento non riuscí a entrare perché all’ingresso c’era un cartello che proibiva il passaggio agli estranei. Si rivolse allora agli uomini del seguito e riuscí a sgattaiolare dentro. Yasunari, convinto che si trattasse della moglie, ne fu cosí felice da guarire. Ben presto, la volpe bianca ebbe da lui un figlio che chiamarono Dōjimaru.
Era trascorso ormai molto tempo da quando Yasunari era stato esiliato e l’imperatore permise a Kuzunoha di andare a trovare il marito. Al suo arrivo, la donna non poté credere ai propri occhi: c’era un’altra Kuzunoha, identica in tutto a lei, e un figlio di nome Dōjimaru. Yasunari a sua volta non riusciva piú a distinguere chi delle due fosse la vera moglie. Le chiamò entrambe e, dopo che ebbero mangiato la focaccina che conta gli anni, capí che la Kuzunoha volpe aveva mille e tre anni e quella vera trentatre. Ora che la sua età era stata scoperta, la volpe bianca non poteva piú rimanere.
– Se hai nostalgia di me, vieni a trovarmi nel bosco di Shinoda, – scrisse in una lettera d’addio al figlio, e se ne andò.
Dōjimaru, che era figlio della volpe, aveva una grande nostalgia della mamma e cosí un bel giorno partí per il bosco di Shinoda. La volpe bianca comparve, lo accolse con affetto e gli regalò un bastone di canna che il ragazzo portò con sé a casa.
Passò altro tempo e l’imperatore accordò a Yasunari il perdono, permettendogli di tornare con la famiglia alla capitale. Dopo che vi si furono stabiliti, andarono un giorno al mercato di Sumiyoshi. A un tratto Dōjimaru, che aveva con sé cento mon, perse di vista i genitori. Si diresse verso la spiaggia e vide alcuni bambini che avevano catturato una tartaruga e la stavano tormentando. Diede tutto il denaro che aveva ai bambini, comprò la testuggine e la lasciò libera in mare. Dopo un po’ di tempo la marea risalí e i bambini si tuffarono in acqua. La tartaruga non aveva ancora raggiunto il mare aperto e cosí la catturarono di nuovo e ripresero a tormentarla. Dōjimaru, rimasto senza soldi, non sapeva come fare per aiutarla. Allora propose:
– Non uccidetela! Vi darò il mio kimono in cambio dei vostri.
I bambini erano figli di pescatori e Dōjimaru un aristocratico: le loro vesti erano molto diverse ed essi subito accettarono lo scambio. Dōjimaru condusse la tartaruga in alto mare e la fece fuggire:
– Presto va’ in fretta! Non farti prendere di nuovo, mi raccomando, – le disse.
Separato dai genitori, Dōjimaru non sapeva come tornare a casa. Mentre camminava sulla spiaggia, vide avvicinarsi una barca proveniente dal Palazzo del Drago. Era bellissima.
– Siamo venuti per portarti con noi, – gli dissero i barcaioli.
Il ragazzo salí a bordo e in un batter d’occhio giunsero al Palazzo.
– Ti ringrazio per aver salvato la principessa mia figlia, – gli disse il sovrano, e lo accolse con ogni premura offrendogli cibi squisiti. Trascorsero cosí trenta e poi cinquanta giorni senza che Dōjimaru se ne rendesse conto. Infine, preoccupato per i genitori, espresse al sovrano il desiderio di tornare a casa. Questi gli regalò tre gioielli: il primo comandava le maree, il secondo bastava leccarlo una sola volta per non avere fame per quindici giorni, e l’ultimo aveva il potere di far comprendere il canto del nibbio, del corvo e degli altri uccelli. Poi, donatogli un kimono di broccato d’oro, lo fece riportare alla spiaggia di Sumiyoshi.
Dōjimaru scese a terra e notò che le spighe di riso, alla sua partenza appena spuntate, ora erano tanto mature da essere ingiallite. Era troppo piccolo per sapere dove andare, ma ecco che giunse in volo un cigno. Egli allora avvicinò all’orecchio uno dei gioielli ricevuti in dono al Palazzo del Drago:
– Dōjimaru, devi tornare subito a casa! Tua madre è morta per il dispiacere di non vederti piú e tuo padre è in fin di vita, – gli disse l’uccello. Poi aggiunse: – So che non sai come arrivarci! Basta che segui la direzione del mio volo.
Il ragazzo seguí il cigno e in breve giunse a casa. Come gli era stato appena detto, Kuzunoha era morta e Yasunari era in condizioni gravissime. Dōjimaru sfiorò il corpo del padre con le gemme ricevute dal sovrano dei mari e subito l’uomo guarí dalla terribile malattia.
In quel momento un colombo si posò sul tetto e cominciò a tubare con insistenza. Dōjimaru si affrettò a mettere vicino all’orecchio la pietra magica e sentí:
– Va’ subito alla capitale, altrimenti passerà molto tempo prima che tu possa aver successo nella vita.
Il ragazzo salutò il padre e partí per la capitale. Poiché aveva con sé la gemma che nutre per quindici giorni, andò via senza provviste. Si mise in cammino senza perdere tempo verso la città, ma a mezzogiorno si fermò a riposare in un angolo di un campo. Due corvi, uno proveniente da est e l’altro da ovest, si posarono su un albero vicino a lui. «Chissà cosa si staranno dicendo?» pensò, e per ascoltare pose vicino all’orecchio la gemma fatata. Il corvo dell’est chiese all’altro:
– Da dove vieni?
E quello dell’ovest:
– Vengo da Kumano. Quest’anno il raccolto è andato male e non mi rimaneva che partire. Com’è la situazione alla capitale?
– Va bene. Però la gente è stupida. Dōman ha stregato l’imperatore mettendo sotto terra, nell’angolo nord-ovest del giardino, il verme dei tre veleni. I sudditi non lo sanno e si rivolgono a monaci e esorcisti per far guarire l’imperatore, ma è tutto inutile. Eppure, basterebbe solo stanare il verme! – raccontò il corvo dell’est.
«Questa sí che è un’informazione utile», si disse Dōjimaru e riprese in fretta il cammino finché giunse alla capitale. Chiese ospitalità per una notte alla residenza di un amico della sua famiglia e il mattino dopo si mise a camminare per la città, con il bastone di canna donatogli dalla madre, annunciando:
– Una grave calamità vi sovrasta e coloro che non lo sanno saranno i piú colpiti.
Lo incrociarono gli attendenti di Dōman che erano in giro per la città e cercarono di farlo fuori, irritati per ciò che diceva, ma Dōjimaru con la sua canna li ridusse in poltiglia.
Poiché il suo ospite lo conosceva, si recò dall’imperatore per comunicargli che Dōjimaru era giunto da Sumiyoshi per curarlo. Ma Dōman che era presente intervenne:
– Mi sto occupando io della guarigione dell’imperatore con le mie formule magiche. Sua Maestà non vorrà certo dare ascolto a un bambino.
L’uomo si adirò e chiese di poter mettere a confronto Dōjimaru e Dōman in una gara di magia: il vincitore avrebbe curato il sovrano. E cosí fu stabilito che la gara si sarebbe svolta davanti all’imperatore.
Fu mandato a chiamare Dōjimaru e i due si sedettero l’uno di fronte all’altro. Per primo, il ragazzo mise un foglio di carta in un vaso e subito spuntò un albero di susino; poi tagliò un foglio in piccole parti, le lanciò in aria e ne vennero fuori degli uccelli ...