Corporale
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Corporale

  1. 648 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Corporale

Informazioni su questo libro

Gerolamo Aspri è il protagonista del romanzo con cui Volponi tornò alla narrativa dopo un lungo silenzio. Tenero e narcisista, goffo e astuto, ammaliato dalle catastrofi e dalle utopie, esaurita la giovinezza nelle traumatiche esperienze di partito e di fabbrica, Aspri si autoproclama "cannibale" della realtà, e si logora nel tentativo di fagocitarla attraverso le ventose della sua accesa corporalità. Alla ricerca di un'identità possibile, scende rapinosamente nelle vite altrui, fra avventure d'amore, traffici e speculazioni, in un tumulto di eventi veri o fantasticati, sui quali domina un incombente disfacimento. Aspri è insomma l'Ulisse senza ritorno di un'Odissea contemporanea: tutte le sue facoltà sono tese a cogliere indizi, a carpire il segreto dell'esistenza nella selva del mondo attraversata da ombre minacciose e da esaltanti rivelazioni.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806222246
eBook ISBN
9788858413579

III.

Rivedevo le mura di Urbino composte a gradi, pur nell’uniformità morbida del colore. A quel punto l’altitudine, anche per la rapidità con la quale ero salito, premeva sui miei timpani e mi scaricava in gola le diverse immagini, i loro angoli, il modo di sovrapporsi e di cadere voltando secondo la mia velocità.
Sulle ultime curve il vento sbatteva l’auto e tirava dai greppi e dai campi qualche sterpo sulla strada. Il vento disponeva in basso e in alto le linee del paesaggio alzandone la terra o abbassando le frange del cielo. Sull’ultima curva, dove aspettavo il confronto con la città, un drappello ordinato di uomini spinto dalle folate mi veniva incontro. Si fermò ammucchiandosi per un momento e poi dal suo centro venne fuori, adagio, un carro funebre. Il gruppo si divise su due lati perché altre due auto potessero accodarsi al carro: tutti gli uomini uguali si inchinarono e poi in tempi diversi rialzarono la faccia, bianca piú in alto, sopra il vento.
Si voltarono verso le mura e ripresero un passo cadenzato. Il vento ebbe alcune impennate tra il convoglio e il gruppo; il carro e le macchine avevano aumentato la loro velocità e mi passarono davanti per imboccare la strada dritta del cimitero.
Proseguii verso la porta piú bassa della città sull’orlo del grande vuoto verso l’Appennino. «Spesso cerco di immaginare che cosa stai facendo», mi aveva scritto mio figlio alla fine dell’anno scolastico. Sto guardando questo paesaggio anche troppo bello, che si consuma. Non debbo caderci dentro e smarrirmici come questo vento. È un avvertimento, adesso, questo funerale. Piccolo e ben recitato, con le mosse di una congiura. A proposito, mancava il prete: non sciabordavano pendagli e stole e non si sentiva il brusio verminoso del recitativo. Nessun lampo dorato; solo adesso, nel cielo, vedo disegnato un fulmine di fianco alle mura della fortezza. Animo, signor morto, questa bella terra ti triturerà presto nel giusto rispetto e come ti garba. Intanto cadranno di qua e di là della città altri fulmini e senza nemmeno mutare il colore del suo cielo attonito.
Mi garba questo parapetto; questo porticato ancora di piú; questa piazzetta imbronciata si apre come un pezzetto della mia educazione. Il dottor Salsamiti, vicepresidente, mi rimette al punto giusto, con le sue confutazioni, con quella invenzione fortunellesca dei «tempi tecnici» e con quell’altra baggianata sorpampuriesca del «vuoto da colmare».
Evviva, questa piazza ha un rettangolo materiale e sereno: non è colma e non è da colmare. Guarda, Salsariti e miti mio, la fissità di quei cani sugli scalini di pietra: non sono ritagliati nella tua stessa carta, fra te e la tua testa, se tu ne hai una, che posi sul cuscino la notte, oltre a quella che hai depositata nell’alto status di vicepresidente e direttore generale.
Apro la portiera e scendo; un altro signor cane passa correndo e guaisce al limite di chi sa quale mitraglia, che potrebbe essere sparata dai tetti o scendere dritta da questo cielo dardeggiante. Ho paura anch’io per i miei stinchi; ma io so dove andare e mi affretto ad andarci. Domando un caffè sport: sto solo al bancone e nessuno mi riconosce. Sto tremando perché ancora non vedo e non sento lo strumento del supplizio. Dovrò fabbricarmi tutto da solo. Non posso permettermi ancora una speranza incerta e aggiungo un campari soda. Si scarica un fulmine di fianco alla piazza e mi pare addirittura quello di prima: vedo l’esplosione dalla vetrina scendere nel tempo e azzeccare un varco tra due palazzi che sembravano uniti. Tutto capita come in certi libri di avventure cosí logori per cui dovevo passare delle giornate a cercare di ricomporre le figure della copertina. La vetrina ha una carta celeste che dura, che mi facilita il compito come se fosse stata messa lí appositamente per me. Chissà che il gran procuratore Salsamessa… Quindi dovrà essere una sistemazione temporanea prima di… di…
Una signora anziana e sola, di famiglia gentilizia, offre coabitazione ad unico pensionante, preferibilmente di sesso maschile, professore o magistrato, con colazione e pranzo (ore 8-8.30; ore 13-13.30), uso esclusivo di un ingresso e di un gabinetto fornito d’ogni conforto igienico moderno.
Sono tornato fuori a respirare e a spostare l’auto in attesa di presentarmi alla signora nell’ora indicata. Vedo gente, la incrocio e non la sento. Molti giovani gesticolano, dondolano urtandosi, spingendosi con qualche cenno anche vicino a me: eppure non li sento. Questa prima ora non è parlabile.
Cerco l’avvocato Trasmanati nei suoi tavolini ma non c’è. Ci sono le piantine sempre verdi del caffè grande sopravvissute all’estate. Le vedrò cadere nei prossimi giorni, una per una, sotto la pioggia e il vento. Intanto io con il tempo ben calcolato provvedere a tracciare finalmente il mio piano. Adesso quelle piantine mi ricordano che amo ancora Ivana Scirri e lo precisano con quella loro miseria come una vocazione all’esistenza. Dietro le piantine luccicano serpenti di ferro battuto, alle maniglie della porta, che non avevo mai visto. Non mi dispiace quel loro groviglio, anzi annoda certi miei pensieri che sarà sempre opportuno tenere stretti e conseguenti.
Una serratura talvolta aiuta piú di una medicina. Basta guardarla per respirare meglio e poi lascia in mano una chiave per meditare.
All’ora giusta suono dalla signora Ondedei. Sono introdotto da un uomo che non mi pare un servitore. La signora ha uno scialle di seta che le nasconde anche le mani. Mi ripete quasi le stesse parole dell’annuncio e mi mostra, girando leggermente la testa, ogni particolare dell’ambiente e soprattutto le porte, facendomi notare con un orgoglio che finalmente muove lo scialle fino a scoprirle le mani, l’integrità delle serrature. «Quiete e comodità», ripete, e mostra tappeti, legni supplementari agli stipiti, cuscinetti contro le fessure, la chiusura ermetica del caminetto. Vi sono vasi di verdure incredibilmente rigogliose, che riempiono ogni stanza di una luce marcia. Grandi come le foglie stanno sui tavoli le fotografie di tre familiari altrettanto vivide e voraci. Appena ho visto alla parete la foto ovale, colorata all’acquarello, quasi grandezza naturale del mezzo busto della contessina Ortensia Ondedei ho capito che tutte le altre le facevano corona: cosí le piante al grande vaso di azalee che le stava accanto dentro un coprivaso d’argento. I fiori senza respiro premevano con l’ombra sul vetro e muovevano il petto e il bavero della gentildonna con un affanno che non poteva soffocare. Ortensia Ondedei era stata uccisa a un ballo di carnevale nel 1912 da uno spasimante anarchico libero pensatore. La sua immagine dolce fu subito assorbita dal mio lenzuolo-film, con colonna sonora, dispositivo di partenza, di stop, di ritorno; come quel profumo greve della stanza che mi dettava i gesti, i passi verso il pianoforte o la scelta sicura della seggiola e del tavolo. La signora non ha voluto dirmi come si chiamava l’uccisore: non riuscí nemmeno a lei di dire l’assassino.
La signora mi ha domandato se sono cagionevole di salute o se ho l’abitudine di bere fuori dei pasti: in ogni caso nella mia stanza troverò un mobiletto adatto a contenere liquori. Cosí nel licet in un certo stipo troverò degli asciugamani colorati da riservare all’uso di… eventuali visitatrici: gli asciugamani dopo dovrò farli lavare e disinfettare fuori, io stesso. Potrò usare del salotto, due volte alla settimana, per ospitare dei colleghi, per la mia vita di società. Altre foto di Ortensia ci sono soltanto nella stanza da letto della signora. Posso guardare il ditale d’oro, minuto, di Ortensia, legato con un nastro alla cornice della sua foto. Non fu possibile tagliar via una ciocca dei suoi capelli, perché il giudice l’impedí, essendo stata ferita alla nuca. La signora ha un domestico che io dovrò chiamare come lei, fattore, oppure sor Berto, non signor Berto: comunque non è a mia disposizione per servizi personali. Il sor Berto apparve appena ebbi firmato sul tavolo adatto una specie di trattato internazionale sottopostomi dalla signora: mi accompagnò nella mia stanza mostrandomi come il suo antiporta dava su una scala diretta alla strada, come fosse fornito ed esclusivo il gabinetto del bagno e nella stanza aprí la finestra: davanti c’era l’abside di San Girolamo, un poco sottostante: immediatamente sotto, se mi fossi sporto, un piccolo giardino o cortile aperto con tre alberi, un pesco, un melo, un ciliegio; intorno alle aiuole cespugli di viole e di garofani bianchi, i piú profumati. L’albero smagliante del quale riuscivo a vedere la chioma, non tutta, a livello del piano acculturato era un albero di cachi nato selvaggiamente a metà del muro di sostegno. L’albero di cachi agganciava un poco di cielo e di luce, contro l’alta schiena di San Girolamo: robusto e verde, abbarbicato. Avrei dovuto comporre la mia attività secondo la sua semplice lezione.
Disposi la mia roba, abiti e qualche libro, nella stanza che inghiottí tutto senza modificare nemmeno un tratto della sua fisionomia. Il mio cappotto sull’attaccapanni di bambú sembrava lí da sempre. Guardavo la brocca dell’acqua ricoperta da una salvietta ricamata, pronta sul comodino da notte; la peretta della luce, marrone e gialla, deposta al margine del cuscino: presagi di una degenza interminabile. Se accendevo tutte le luci, un giuoco di trasparenze tra il lampadario centrale e le corolle rosa-azzurrine delle lampade laterali, collocate nei luoghi piú misteriosi della stanza, sia in alto che in basso, mi danzava intorno, travolgendo i miei pensieri con altri che si ravvivavano e contagiandomi con un piccolo dolore di testa che doveva essere lí dentro da decenni. Spensi alcune luci ed aprii la finestra, senza guardare fuori per la curiosità di rivedere il bagno. Questo era molto grande, evidentemente una delle stanze adattata dopo. Ogni strumento sembrava accomodato e ripulito a mano, con tanta insistenza da logorarlo: dai grandi rubinetti e dalla doccia larga come un girasole gocciolava acqua. Tornato nella stanza fui preso completamente dalla finestra, dritta sulle campane di San Girolamo. Il suo sacco di luce giuocava già con il colore e con le correnti d’aria del cielo dentro e fuori i vuoti del campanile. Entrava un freddo acuto e quando avanzai per chiudere la finestra vidi che aveva un davanzale cosí sottile che i suoi vetri erano quasi a filo della facciata di mattoni.
Non era ancora scuro del tutto e già il mio nuovo compagno albero di cachi era perduto lungo il muro.
Agli ultimi barlumi, prima che l’oscurità si completasse, apparvero su tutti i muri sotto la mia finestra le tracce albuginee dei percorsi di lumache e di altri gasteropodi ih… ih… ih… molluschi provvisti in genere di conchiglia dorsale, di casa propria, avvolta a spire, evidentemente dal terrore: abitatori atterriti di luoghi celati, di anfratti, di fessure, di spoglie, di buchi artificiali o naturali, di pieghe, di scatoline, di ovatte, di costole di libri, di funghi, di ciglia di piante e di terra, di cassetti, di tappi, degli ultimi pezzi della mia prima povera penna stilografica, della doppia cassa dell’orologio nella quale il vecchio schifoso riponeva le lucciole abbattute con la sua dura paglietta.
Tutta questa malinconia mi prende un poco alla sprovvista. So bene che non intacca il mio carattere e che nemmeno offusca la mia determinazione di giuocare la vita secondo il mio progetto; ma mi deprime, mi obbliga a delle misure supplementari. Non posso intenerirmi, anche perché i miei sentimenti non esistono piú: la mia psicologia, per dirla con Overath, non ha piú alcun rapporto con la sua base e con gli elementi che l’hanno costruita: non sono piú catalogabile. Qualunque sangue, qualunque mutanda, qualunque scena d’amore potrebbe distendersi su questo letto. Le mie forze e i miei timori sono presenti minuto per minuto di fronte alle cose da fare, in una unità «storica» senza piú riflessioni, indulgenze, contraddizioni. Sono andato a lavarmi i denti al rivolo d’acqua, prendendolo per quel che era. Ho tolto dal comodino la boccia turchina e al suo posto ho messo due libri: da uno è apparsa una lettera di Overath; non volevo leggerla e sono riuscito a non aprirla, a non vedere di quando fosse e nemmeno di quale argomento trattasse: esultando ho solo letto in margine: «se un unico demonio ci possedesse con la tranquilla indisturbata visione di tutta la nostra natura»… foglio piegato – sotto: Kafka «… solo l’alto numero di demoni costituisce la nostra infelicità terrena. Perché non si sterminano a vicenda, che ne resti uno solo, o perché non si assoggettano a uno solo, grandissimo? L’una cosa e l’altra sarebbero conformi al principio demoniaco di ingannarci in modo perfetto, possibilmente».
Va benissimo. Io sono qui proprio per mettere via ogni falsa soluzione, ogni scena e scenario, ogni parte da recitare, ogni dialogo. Sono solo e sono il solo demonio di me stesso. Caro Overath sei stato sempre cosí bravo, hai sempre capito tutto, ma sei ancora dentro le brache di tutti, per la vostra eternità… La mia società era la copertura della fabbrica, il suo interno travolgente. Ne sono ben lontano adesso, fra queste avenide di lumache, sopra questi funambolici cuscini. Sono uscito precipitandomi giú per la scaletta particolare: prima di giungere in fondo l’aria già mi sfidava. Chiudere il portoncino con un tonfo; orizzontarmi per il centro della città. Ho l’impressione, dopo qualche passo, di essere dentro una noce, concentriche le costruzioni e i vicoli, oppure dentro un organo animale. Le strisce di cielo sopra le strade sono nere, ma ugualmente altissime e vive. Un tanfo animale mi arriva; e poi un odore di legna. Risalgo per una strada che accompagna il mio passo come un terreno, schiarendosi via via; in cima c’è una vetrina colma d’uva e da lí vedo l’angolo della piazza. Sotto il portico ci sarà già l’avv. Trasmanati. Non l’ho trovato e mi sono messo a passeggiare: cercando anche il ristorante dove andrò a cenare. Incontro incappottati sciami di giovani che parlano tutti insieme abbracciandosi, quasi tenendosi per la bocca. Sono l’unico a camminare solo. Ho finalmente l’impressione di essere sbarcato altrove, in un altro mondo: però è un mondo giovane, molto sentimentale e tutto mi pare datato con la morte di Ortensia Ondedei. Rinuncio a cercare l’avvocato che deve essere troppo coinvolto. Guardo e penso a una comunità biologica, stretta, dove tutti partecipano degli stessi sentimenti e dello stesso cibo. Questa è però una bella idea del futuro. Chi potrà starci solo, senza impastarsi, dovrà essere forte razionalmente, non solo o unico sentimentalmente; ma pronto a mutare oltre che il suo diario e i suoi pensieri anche la sua natura. Ripenso ai cani di oggi: la loro fissità era un’astrazione esatta. Era proprio uno scalino di pietra; l’arco doveva essere altrove. Ed è il mio modo ancora ordinato di legare le cose che mi suggerisce la possibilità di un arco. Batto i piedi per il freddo, con gusto. Sto bene. Vado a cercare il ristorante dove consumerò la prima cena.
Sono entrato in un’osteria tra due vicoli a cinquanta metri dalla piazza: ma lí, sopra un bancone di graniglia servivano soltanto da bere, tutt’al piú qualche biscotto secco di pasta di pane, salato e con l’anice. Ho preso contatto con un mondo che non ho mai conosciuto, quello contadino; mi è bastato un attimo per accorgermene. Mi ha respinto la sua puzza di cattiva digestione, di gengiva.
Sono tornato in piazza a guardare i giovani: pur al centro del loro chiasso si udiva forte il cigolare delle lampade della illuminazione pubblica scosse da un vento pieno di giri e il trascorrere sopra gli alti tetti dei trasporti notturni… Comprai delle mele e dell’uva, per cominciare a mangiare in libertà, come dovevo, e tornai a casa. Risalii la scala muffita e aprii con piacere la porta, appoggiai il mio pacco di carta gialla sopra una seggiola e andai alla finestra: di nuovo con tutte le luci a cascata. Nei vetri trovai la mia imm...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Corporale
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright