Rosetta Loy
La parola ebreo
Se vado indietro nel tempo e penso a come la parola «ebreo» è entrata nella mia vita, mi vedo seduta su una seggiolina azzurra nella camera dei bambini. Una camera con una carta da parati a fiori di pesco scarabocchiata in piú punti; è primavera inoltrata e la lunga finestra che dà sul balcone di pietra è spalancata. Posso guardare nell’appartamento al di là della strada dove dai vetri aperti le tende dondolano all’aria. In quella casa c’è una festa, si vedono le persone andare e venire. In quella casa da poco è nato un bambino, quella festa è per lui. «Un battesimo?» chiedo. No, mi dice la donna che è seduta accanto a me su un’altra seggiolina dove il suo corpo rimane avvolto come una palla, certo che no, ripete: lei è Annemarie, la mia Fräulein. Sono ebrei aggiunge accennando con il mento al di là della finestra, loro i bambini non li battezzano, li circoncidono. Ha detto «beschneiden» con una smorfia di disgusto. La parola è incomprensibile ma contiene quello «schneiden» che conosco bene. Cosa? mormoro incredula. Gli tagliano via un pezzettino di carne, risponde sbrigativa. «Mit der Schere...?» mormoro. Vedo il sangue, un mare di sangue che bagna il porte-enfant. La spiegazione è vaga ma agghiacciante, Annemarie accenna a qualcosa sul corpo che non capisco mentre il suo sguardo scruta severo attraverso i vetri «Vielleicht mit der Schere, ja, das weiß ich nicht...» Al di là di quelle finestre vedo passare bambine con i fiocchi in testa simili al mio, signore con le perle al collo e i corpi fasciati da morbidi vestiti di maglia come quelli della mamma. «Sind Juden» lei ripete; e lo sguardo dei suoi begli occhi color cielo si fissa severo su una cameriera che va in giro con un vassoio. Forse nascosto tra le tazze del tè c’è il pezzetto tagliato via a quel neonato. Un ditino, un lembo di pelle.
Anche la signora Della Seta è ebrea. Abita accanto a noi: è vecchia, cosà almeno sembra a me. Quando sono malata viene a trovarmi, io ho la febbre e il mio corpo scompare nel grande letto matrimoniale in camera della mamma. La signora Della Seta ha i capelli grigi raccolti in una retina. Mi porta un regalo. È un cestino rivestito di raso azzurro dove un bambolotto di celluloide è tenuto fermo da elastici cuciti alla fodera, un altro elastico tiene fermo un minuscolo biberon con la punta rossa. Mi sembra un regalo bellissimo: appuntati ci sono anche delle mutandine e un golfino. Adoro la signora Della Seta, anche se è ebrea.
Al piano di sopra abitano i Levi. Loro sono piú rumorosi, si sente spesso suonare il pianoforte e la madre ha degli occhi scuri molto brillanti, non sono gentili come la signora Della Seta e ci incontriamo solo sulle scale o in ascensore. Non mi portano regali. Anche loro, dice Annemarie, sono ebrei. Qualche volta Giorgio Levi suona alla porta e chiama mio fratello per andare a giocare a pallone a Villa Borghese. Giorgio ha un anno di piú, è alto e ha i capelli scuri e ondulati, lo sguardo allegro di chi è impaziente di precipitarsi giú dalle scale per raggiungere i compagni di gioco. Mio fratello al ritorno, mentre si lava i piedi nel bidet, si lamenta che Giorgio è prepotente e se lui non è svelto a passargli la palla gli dà una gomitata nel fianco. All’asilo madre Gregoria ci mostra le illustrazioni a colori della Bibbia. Ha guance rotonde e rosse. È piccola e anche lei siede su una seggiolina con il lungo vestito di lana bianca che allarga le pieghe in terra, sul petto porta ricamato un cuore rosso trafitto in ricordo della Passione di Cristo. Sulla pagina che ruota davanti ai nostri occhi, retta dalle sue mani paffutelle, Abramo alza la spada per uccidere Isacco. Isacco è figlio di Abramo; ma per fortuna arriva l’angelo e lo ferma. Abramo, Isacco sono ebrei. Anche i sette fratelli Maccabei sono ebrei, loro muoiono tra le fiamme per non rinnegare Dio. Dio allora era senza cuore, poi per fortuna è sceso sulla terra Cristo che invece è buono e bellissimo. Ha lunghi capelli castani e gli occhi azzurri, ogni mattina quando arrivo all’asilo è là che mi aspetta e la sua rosea mano di gesso mostra il cuore messo a nudo sul petto da cui colano alcune gocce di sangue. Il cuore è il luogo dell’amore: Cristo ci ama. Noi siamo cristiane, io sono stata battezzata a San Pietro e la mia madrina è la signora Basile. È vecchia come la signora Della Seta ma è molto piú magra, il suo lungo collo e la testa piccola la fanno assomigliare a uno struzzo; mio fratello, una volta che era venuta in visita, ha aperto la porta del salotto e ha detto: la signora Basile ha i baffi. Poi è scappato via. È vero, i peli sul suo labbro lunghi e grigi, un poco ispidi, mi pizzicano la guancia ogni volta che si china a baciarmi. Ha occhi rotondi molto dolci, non si è arrabbiata neanche quel pomeriggio che mio fratello, per fare il gradasso, l’ha offesa. Per il battesimo mi ha regalato una catenina d’oro con la medaglietta della Madonna di Pompei che succhio quando sono a letto nel buio. La signora Basile ogni anno per Natale organizza una lotteria di beneficenza per i poveri della parrocchia. Pilato era romano e i farisei e gli scribi ebrei. Anche Erode era ebreo e anche Caifa. Anche Barabba. Erano tutti ebrei, meno i centurioni.
Quando non vado all’asilo Annemarie mi porta a Valle Giulia in uno spiazzo isolato di fianco alla Galleria d’Arte Moderna. Sono sempre infagottata con la sciarpa e il basco di lana perché non sono robusta come mia sorella Teresa. A Valle Giulia non c’è quasi mai nessuno, ma intanto io non devo giocare con gli altri bambini altrimenti posso prendermi anche le loro malattie. Poco lontano dalle panchine c’è a volte un’altra bambina destinata come me alla solitudine che rimesta nella ghiaia con una paletta colorata, accovacciata sulle gambe. Vedo le sue mutandine bianche, delle mutandine Petit bateau uguali a quelle che Annemarie mi infila ogni mattina. Anche io mi piego sulle gambe e la guardo. È bionda e i capelli le scendono giú ondulati intorno al viso dalla pelle chiarissima. Mi piacerebbe avere la sua paletta. Al collo porta una stella d’oro. Annemarie mi chiama, parla con la governante di quella bambina: è una bambina ricchissima, dicono. Forse posso giocare con lei. Torno a guardarla mentre sposta la ghiaia, sono affascinata da quella stella che dondola al sole sprizzando scintille. Le chiedo se posso toccarla. No, mi risponde, non puoi. Non vuole che mi avvicini troppo. Mentre torniamo a casa parlo a Annemarie di quella stella. È la stella di Davide, mi risponde. Madre Gregoria ci ha mostrato la figura di Davide che lancia un sasso contro Golia. Quella bambina, mi spiega, invece della medaglietta con la Madonna o Gesú Bambino, al collo porta una stella a sei punte. Non l’ha detto, ma io non so perché, ho capito che quella bambina è ebrea. Subito penso alle forbici e al sangue. Hanno tagliato anche lei? chiedo. Cosa dici, tagliato cosa? Ha parlato in tedesco. Anche io devo parlare in tedesco altrimenti non mi risponderà piú. Quella stella adesso mi sembra piena di mistero. Invidio quella bambina che la porta invece della mia insipida medaglietta.
Questa sono io nell’inverno del 1936. In un libro che racconta le peripezie di un bambino cattolico assediato da miscredenti che vogliono fargli rinnegare Gesú, ci sono i massoni molto cattivi. Il bambino viene portato su una nave, e là c’è un ebreo, cattivissimo anche lui. Tutti vogliono togliere a quel bambino la sua Fede ma il bambino resiste e prega la Madonna. A un certo punto viene quasi accecato. Quel libro non mi piace, è stupido e crudele. A me piace il libro dell’Omino del Sonno che sparge la polverina d’argento sulle palpebre dei bambini e poi li porta nel Paese dei Sogni. Mi piace anche il libro dove si vede la Befana che fatica la notte in mezzo alla neve e scivola giú nelle case attraverso il camino. Io ho una fede cieca nella Befana anche se a Roma non c’è la neve e noi non abbiamo neanche un camino.
Ma prima di tornare alla bambina sulla seggiolina azzurra intenta a guardare fuori dalla finestra, vorrei per un momento volgermi indietro e ricominciare da quando quella bambina è nata nell’anno IX dell’Era Fascista, in via Flaminia 21, nella camera cosà detta «rossa» per via della tappezzeria color vino. E alcuni giorni dopo, mentre qualche goccia di pioggia macchia i vetri dell’automobile, viene portata nella basilica di San Pietro per essere battezzata. La accompagnano il fratellino e le due sorelline in braccio a balie e governanti (il piú grande ha quattro anni e la piú piccola appena quindici mesi) e al fonte battesimale le viene imposto, insieme agli altri nomi, anche quello di Pia in onore del Papa sotto cui è nata: Pio XI.
In quello stesso anno, a novembre, una circolare del Ministero della Pubblica Istruzione impone ai docenti universitari il giuramento di fedeltà al fascismo. Su 1200 docenti, 1188 giurano e si impegnano a insegnare secondo i principî della dottrina fascista; solo 12 rinunciano alla cattedra.
È del 1931 anche il nuovo romanzo di uno stimato e famoso scrittore, Giovanni Papini, un letterato fiorentino di grande ingegno e di forti capacità intellettuali che nei primi anni del secolo è stato considerato un «eretico». Ma nel 1921, in seguito a una pubblica conversione al cattolicesimo, ha scritto Storia di Cristo, una biografia romanzata che riprende la leggenda dell’Ebreo Errante per svelarne «una verità piú paurosa che non sia quella storica». L’immortalità di Buttadeo condannato a vagare senza fine, è infatti per Papini quella degli ebrei su cui ricade in eterno il sangue di Cristo: puniti con la Diaspora, isolati dagli altri uomini, i discendenti di coloro che uccisero il figlio di Dio si ostinano ancora a non convertirsi. Papini racconta anche come questi perenni errabondi abbiano in seguito «ritrovato una nuova patria nell’oro» mentre altri, provenienti dai «ghetti della Slavia», «lerci e untuosi», rappresentino ancora oggi «la figura vivente del vero Buttadeo». Un romanzo a tesi che alla sua uscita aveva sollevato molte polemiche, ma aveva anche venduto in un anno 70 000 copie ed era stato tradotto in francese, inglese, tedesco, polacco, spagnolo, rumeno, olandese, finlandese, ecc...
Il nuovo libro intitolato Gog, dal nome abbreviato del protagonista, si presenta come una serie di interviste immaginarie effettuate da un ricco e eccentrico uomo d’affari americano per scoprire quali sono «le malattie segrete di cui soffre la presente civiltà ». Attraverso il protagonista Papini finge di intervistare Gandhi, Freud, Edison, Shaw e via via tutta una serie di personaggi di questo secolo. Si arriva cosà anche all’incontro con il prototipo dell’ebreo, impersonato da Benrubi, il segretario di Gog: «un giovane basso, colle spalle un po’ curve, le gote scavate, gli occhi rientranti, i capelli già un po’ imbiancati, la carnagione color mota verdiccia di palude... e l’espressione di un cane che teme di essere picchiato ma sa pure di essere necessario». Stimolato dalle domande del suo padrone sulla pusillanimità ebraica, Benrubi si abbandona a un’estesa spiegazione sul perché «Non potendo adoprare il ferro gli ebrei si protessero, alla peggio, con l’oro... L’Ebreo, divenuto capitalista per legittima difesa, s’è trovato a essere, per colpa della decadenza morale e mistica dell’Europa, uno dei padroni della terra... dominatore dei ricchi e dei poveri... In che modo l’Ebreo calpestato e sputacchiato poteva vendicarsi dei suoi nemici? Coll’abbassare, avvilire, smascherare, dissolvere gli ideali dei Goïm. Col distruggere i valori sui quali dice di vivere la Cristianità . E difatti, se ben guardate, l’intelligenza ebraica, da un secolo a questa parte, non ha fatto altro che scalzare e insudiciare le vostre piú care credenze... da quando gli ebrei hanno potuto scrivere liberamente, tutte le vostre impalcature spirituali minacciano di cadere». Benrubi elenca poi una serie di personaggi quali Marx, Heine o Lombroso, distruttori dei valori della cristianità , per terminare: «Nati [gli ebrei] in mezzo a popoli diversi, consacrati a ricerche diverse, tutti quanti, tedeschi e francesi, italiani e polacchi, poeti e matematici, antropologi e filosofi hanno un carattere comune, un fine comune: quello di mettere in dubbio le verità riconosciute, di abbassare ciò che è alto, di sporcare ciò che sembra puro, di far vacillare ciò che pare solido, di lapidare ciò ch’è rispettato». (Gog sarà scelto nell’aprile del 1943 dalla Radio di Vichy per una trasmissione di propaganda; e nello stesso anno una scuola di allievi ufficiali della Repubblica di Salò lo adotterà come testo in un corso di antisemitismo).
Ma se Papini è uno scrittore altamente apprezzato in famiglia e Storia di Cristo e Gog si allineano nella libreria in corridoio accanto alle biografie di Napoleone e ai romanzi di Bourget e Fogazzaro, la mia famiglia non è fascista e neanche razzista. Qualche perplessità potrebbero sollevarla i libri di Ugo Mioni, un sacerdote chiamato il Salgari cattolico, che nonostante la loro indubbia ispirazione antisemita ci vengono letti ad alta voce. Ma la preferenza che gli è accordata ha sicuramente motivazioni religiose.
Mio padre ha studiato dai barnabiti di Lodi, un collegio in cui era entrato a dieci anni per uscirne a diciotto, salvo i venti giorni di vacanza all’anno in famiglia. I suoi racconti su quel tempo ci lasciano ogni volta esterrefatti e vagamente ansiosi. Rivivono nelle sue parole i bambini in fila sui letti del dormitorio in attesa dell’inserviente che deve cavargli gli alti stivaletti neri. L’inserviente passa veloce e tira con tanta forza che loro scivolano in terra, e ogni volta sembra che insieme agli stivaletti vengano strappati via anche i piedi. L’acqua per lavarsi al mattino coperta da un velo di ghiaccio nella brocca. Il gioco dell’acchiapparella che agli allievi è concesso solo a condizione di non toccarsi, questo non deve succedere mai, possono solo sfiorarsi con una corda che i piú grandi mettono a gelare nella fontana in cortile fino a farla diventare un bastone, e con quella colpiscono con violenza i compagni piú piccoli. L’attesa spasmodica della visita della madre, una volta al mese. Il freddo e l’oscurità di certe mattine nebbiose lo rendevano cosà malinconico che preferiva darsi malato e passava l’intera giornata digiuno, solo in un letto dell’infermeria.
Ma in breve tempo l’irriverente e scapestrato bambino che marinava la scuola per andare a fare il bagno nel Po, si era trasformato nell’allievo modello che alla fine del liceo aveva ottenuto la «Menzione Onorevole», riconoscimento che comportava il ritratto a olio nella galleria del collegio. Dopo era stato il Politecnico di Torino, la passione per lo studio e la scoperta della politica. Quasi subito si era iscritto al Partito Popolare e con il suo amico Fioravanti erano diventati degli entusiasti seguaci di don Sturzo. La guerra del ’15-18 lo aveva trovato antinterventista, e per sua fortuna riformato per insufficienza toracica. Al fascismo è stato allergico dal primo momento. Era già un ingegnere che si era fatto un nome nella costruzione di case, ponti, strade, e nel suo ottimismo aveva creduto in un fuoco di paglia. Ancora dopo il delitto Matteotti aveva sperato nel rapido declino di Mussolini. Invece era successo esattamente il contrario. Allora per arginare in ufficio la logorrea degli entusiasti del nuovo regime ha fatto attaccare nell’anticamera un cartello con la scritta «In questo ufficio non si parla di politica». Si è sposato tardi: la mamma è piú giovane di lui di tredici anni.
In seguito, se voleva continuare a lavorare, come la stragrande maggioranza degli italiani ha dovuto iscriversi al Partito Nazionale Fascista e ne porta il distintivo sul risvolto della giacca. Non ne possiede in compenso alcuna divisa; le rare volte che deve indossare la camicia nera (inaugurazione di un cantiere, visita di qualche autorità a una strada o a un ponte appena terminati) noi bambini assistiamo divertiti alla sua mimica sbeffeggiatrice davanti allo specchio. Il suo grande amico dai tempi del Partito Popolare è rimasto l’ingegnere Fioravanti che ha invece preferito andare a lavorare all’estero piuttosto che prendere qualsiasi tessera.
Una delle migliori amiche della mamma ha sposato un ebreo, il barone Castelnuovo; e la signora Della Seta siede spesso in salotto a prendere il tè sulla medesima poltrona dove è solita prenderlo la signora Basile. La mamma entra volentieri in negozi che si chiamano Coen o Piperno. Fra i prediletti c’è Schostal. E il nostro pediatra è il professor Luzzatti, medico di Casa Reale. Volljude, come direbbe Hitler.
Il primo, tragico appuntamento per gli ebrei italiani è stato infatti l’ascesa al potere di Hitler, nel 1933. Qualcosa di profondamente nuovo si è fatto strada nell’immaginario degli oltre 40 milioni di abitanti la penisola. All’olio di ricino e al manganello del fascismo, ha cominciato a sovrapporsi la coreografia mortuaria e sacrificale della croce uncinata, mentre l’antigiudaismo di origine religiosa (destinato con molta probabilità a diluirsi nel tempo) si è trovato a fianco l’odio e il fanatismo di una mistica pagana. Il proclama contro gli ebrei del 29 marzo 1933, meno di due mesi dopo la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich, ha diviso i cittadini tedeschi fra ariani e non ariani (basta avere un nonno ebreo per essere non ariano). E se nei primi decreti le restrizioni riguardano indistintamente i Mischlinge e i Volljuden (i misti e gli ebrei a pieno titolo), molto presto ai Volljuden viene riservato un trattamento che li escluderà dalla vita sociale; e infine dalla vita stessa. Sono già loro, al declinare di quel 1933, l’oggetto dello Judenrein, la «pulizia dagli ebrei». Solo in seguito, con la guerra, il trattamento si estenderà anche agli altri.
È del 1933 anche il Concordato fra la Chiesa e il Terzo Reich, caldeggiato e firmato dal Segretario di Stato, cardinale Eugenio Pacelli.
Durante la seduta del Consiglio dei Ministri del Reich del 14 luglio, come si può dedurre dal protocollo delle riunioni (C.I., doc. 362), il neo-cancelliere Hitler che governa uno Stato dove i cattolici sono circa 30 milioni, esprime il proprio sollievo: «Questo Concordato, il cui contenuto non mi interessa minimamente, ci ha avvolti in un’atmosfera di fiducia molto utile alla nostra lotta senza compromessi contro l’ebraismo...»
I vescovi tedeschi hanno infatti accolto con favore la notizia che li ha messi al riparo da eventuali ritorsioni naziste e gli permette ora di simpatizzare apertamente con l’uomo nuovo della nuova Germania. Si dissocia solamente il vescovo di Monaco, Faulhaber, che dal pulpito della cattedrale nella quale verrà sepolto molti anni dopo non esita a parlare contro le vessazioni di cui sono oggetto gli ebrei. Ma le sue prediche dell’Avvento su «Giudaismo, cristianesimo e germanesimo», anche se sono seguite da una folla di fedeli cosà numerosa da richiedere l’installazione di altoparlanti per poter essere ascoltate anche in altre due chiese, non trovano alcuna eco. La sua resta una denuncia isolata e la gerarchia cattolica tedesca non ritiene di dover prendere alcuna posizione. (In Italia le omelie di Faulhaber verranno pubblicate nel 1934 dalla cattolica Morcelliana di Brescia nella traduzione di Giuseppe Ricciotti. Don Ricciotti scriverà anche la esemplare prefazione).
In Francia c’è da parte cattolica un’attenzione maggiore. Lo dimostrano gli scritti e i discorsi di Jacques Maritain, di Oscar de Ferenzy, le dichiarazioni dell’oratoriano Marie-André Dieux che nell’aprile del 1933, a una manifestazione di solidarietà per gli ebrei tedeschi, sente il bisogno di dichiarare che è necessaria una «riparazione... contro le ingiustizie che nel passato si son commesse da quelli che possedevano la mia stessa fede». Non bisogna però farsi troppe illusioni. Anche in Francia finiscono per restare manifestazioni isolate. La maggioranza del clero e dei fedeli non ne avvertono che un debole suono.
Ma torniamo alla bambina seduta accanto a Annemarie nella camera con le pareti a fiori di pesco. Annemarie ricopia per lei su un album le illustrazioni da Struwwelpeter, il libro di Pierinoporcospino. È brava a disegnare e la matita traccia i contorni del grande Nikolas che intinge nell’inchiostro i bambini colpevoli di avere preso in giro un piccolo negro per il colore della pelle. Da quella boccetta gigante i bambini ne escono neri dalla cima dei capelli alla suola delle scarpe. Nera perfino la ciambella che reggono in mano mentre se ne vanno allegramente dietro al piccol...