
- 264 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Dalla preistoria ai giorni nostri, dai riti sacrificali all'hamburger del fast-food: appassionante come la trama avventurosa di un romanzo, la ricerca dell'antropologo americano conduce il lettore a continue scoperte, avvicinandolo a gusti e disgusti noti e ignoti, ciascuno specchio di storie affascinanti e di realtà all'apparenza inspiegabili.
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Informazioni
Print ISBN
9788806183868eBook ISBN
9788858415511Capitolo decimo
Mangiare la gente
L’enigma del cannibalismo riguarda il consumo socialmente accettato di carne umana stante la disponibilità di altri cibi. Non mi interessa indagare la pratica di mangiare la gente quando la carne umana costituisca di fatto l’unico cibo disponibile. Questo genere di consumo di carne umana ricorre periodicamente e indipendentemente dal fatto se mangiatori e mangiati appartengano o meno a società che approvano o disapprovano tale pratica alimentare. Non c’è infatti alcun enigma da spiegare in questa pratica in tali condizioni. Marinai alla deriva su qualche scialuppa, viaggiatori immobilizzati dalla neve su qualche alto passo montano, abitanti a lungo costretti in città assediate possono trovarsi davanti alla scelta di mangiarsi a vicenda o di morire di fame. Insomma, simili casi di emergenza non hanno a che fare col problema che ci sta davanti, ché è invece appunto quello della gente che si mangia a vicenda avendo la possibilità di ricorrere a fonti alternative di nutrimento.
Per spiegare la disposizione favorevole o contraria al consumo di carne umana in situazioni di non emergenza, occorre tracciare un’ulteriore distinzione. Cioè bisogna ricordare che, come in tutti i problemi riguardanti le abitudini alimentari, la produzione precede il consumo. Prima di arrivare a capire perché mai alcune culture mostrino una certa preferenza per la carne umana mentre altre la aborrono, occorre affrontare la questione di come chi mangia la gente si rifornisca per approntare i suoi banchetti umani. Fondamentalmente esistono solo due modi per procurarsi un cadavere a fini di consumo alimentare: o con la forza, cacciando, catturando, uccidendo chi si vuol mangiare; oppure pacificamente, appropriandosi del corpo di un parente morto per cause naturali. La pacifica appropriazione al pari del pacifico consumo alimentare di corpi umani, o loro parti, appartiene ai rituali di lutto; l’acquisizione di corpi umani con mezzi violenti appartiene alla guerra guerreggiata. Questi due modi di produzione cannibalesca presentano dei rapporti costi benefici di tipo assolutamente diverso sicché non possono essere spiegati in base a un’unica teoria. E si noti che ho intenzionalmente escluso la pacifica acquisizione di corpi di estranei in seguito a compravendita. Raramente i cadaveri sono in vendita. Diego Rivera afferma di essersi sostentato a cadaveri comprati dall’obitorio di Città del Messico quando era studente di anatomia, ma l’affermazione va probabilmente presa con una certa cautela: il grande pittore era particolarmente interessato a quello che il suo biografo definí «costruzione d’un mito»1.
Le costumanze funerarie di molti popoli di banda o di villaggio prevedevano il consumo di porzioni dei resti dei parenti morti; tuttavia, in genere, venivano mangiate unicamente le ceneri, la carne carbonizzata o le ossa triturate del defunto. Resti che non costituivano una fonte di una qualche rilevanza in termini di proteine o di calorie, sebbene in ambiente tropicale ceneri e ossa possano aver rappresentato un buon mezzo per riciclare minerali piuttosto scarsi. Il consumo di ceneri e ossa del caro estinto era per cosí dire un prolungamento logico della cremazione dello stesso. Dopo che il corpo del deceduto era stato consunto dalle fiamme, spesso le ceneri venivano raccolte e ammucchiate in contenitori al fine di prepararle all’ingestione, in genere mescolate in qualche bevanda; pratica direi piú salutare che non gettare le ceneri nel Gange o, come è stato recentemente proposto, lanciarle con qualche missile nello spazio. Un altro modo piuttosto diffuso di disporre del cadavere era sotterrare il morto e aspettare che la carne si staccasse per bene, cosa che non richiedeva molti giorni in ambiente tropicale. Cosí, parte o tutte le ossa potevano essere riesumate assieme al caro estinto e nuovamente seppellite nella magione famigliare oppure riposte in cestini e appese alle travi del tetto. Come atto finale, le ossa venivano polverizzate, mescolate in una bella bevanda e consumate in un rituale di lutto.
Ecco una testimonianza oculare fornita da un antropologo in relazione a cannibalismo connesso a riti funerari presso i Guiaca, popolo di villaggio che vive lungo il corso superiore del fiume Orinoco in Sudamerica:
Abbiamo potuto osservare personalmente molti esempi di cremazione del defunto nella piazza del villaggio nei giorni seguenti la sua morte; la sollecita raccolta di ossa semicarbonizzate in mezzo alle ceneri; la triturazione di tali ossa in mortai lignei. La polvere cosí ricavata veniva versata in specie di carabazze e offerta ai parenti piú stretti del defunto che la conservavano presso il tetto della loro capanna. In occasioni rituali (...) i congiunti mettevano un po’ di questa polvere in grandi carabazze semicolme di zuppa di banano e bevevano la mistura con accompagnamento di lamenti. Tutti i membri della famiglia facevano molta attenzione a non versarne nemmeno una goccia...2.
Viaggiatori, missionari e studiosi sul campo hanno fornito testimonianze in merito alle interessanti variazioni su questo tema di base elaborate da gruppi dell’area amazzonica. I Craquieto, per esempio, facevano rosolare un capo morto a fuoco lento sinché il cadavere si disidratava del tutto, quindi avvolgevano i resti mummificati su un’amaca nuova e l’appendevano nella casa abbandonata del capo Dopo molti anni i congiunti davano un grande banchetto, bruciavano la mummia e ne bevevano le ceneri mescolate alla chicha, bevanda fermentata a base di mais. Molte culture erano solite seppellire i cadaveri, riesumarli dopo un anno e berne la polvere delle ossa bruciate insieme alla chicha o a qualche altra bevanda fermentata. In certi casi si aspettava anche quindici anni prima di riesumare le ossa e triturarle. Alcuni gruppi mangiavano le ceneri. I Cunibo si limitavano a bruciare i capelli di un bimbo morto e ne ingurgitavano le ceneri con altro cibo o brodetto di pesce. Si dispone anche di testimonianze relative a popoli abituati a consumare porzioni cotte di carne del defunto, tali testimonianze sono però assai piú rare di quelle riguardanti il consumo delle ceneri o di ossa triturate e, inoltre, non sono molto precise in ordine al grado di carbonizzazione della carne3.
Ritengo che l’indifferenza nei confronti del potenziale valore alimentare dei cadaveri acquisiti per via pacifica – e in quanto tali diversi dai corpi acquisiti in modo violento in occasioni di guerra guerreggiata – sia in qualche modo un riflesso della inefficienza e della possibile nocività per la salute di tali fonti alimentari: inefficienti in quanto la maggior parte delle morti naturali sono precedute da una considerevole perdita di peso con la conseguenza di lasciare una quantità troppo piccola di carne da giustificare la spesa di far cuocere il cadavere; nocivi dal punto di vista della salute data la probabilità che il deceduto sia venuto meno o comunque sia stato affetto da malattia contagiosa. Per contro, gli individui uccisi o catturati in guerra è molto probabile che sian ben pasciuti e siano andati incontro al loro tragico destino in ottime condizioni di salute. Sotto questo aspetto, la citata affermazione di Diego Rivera riacquista una certa autenticità, almeno nel senso che lui e i suoi compagni di scuola avrebbero mangiato, secondo il suo racconto, unicamente il corpo di gente morta per morte violenta: «quelli che erano stati uccisi da poco e che non erano né malati né in età avanzata»4. Il seppellimento e la carbonizzazione del corpo dei morti riflette, a mio avviso, la cognizione, acquisita in seguito a tentativi ed errori, del pericolo fisico costituito dal disporre del morto in maniera tale da mangiarlo o da conservarne i resti in decomposizione presso i viventi. Spiegazione che non può ovviamente ritenersi esclusiva, anche perché, come ho già avuto occasione di far presente a proposito di insetti, carne di maiale, vacche morte e cavalli, una prolungata cottura è in grado di ridurne notevolmente la nocività per la salute. C’è inoltre un pericolo sociale da tenere presente. La pratica del cannibalismo applicata al cadavere fresco fresco di un congiunto può facilmente alimentare la fiamma del sospetto e della reciproca sfiducia. Nella realtà o nelle fantasie ci sarebbero subito appartenenti al gruppo che risulterebbero un po’ troppo desiderosi di farsi un lauto pasto a base di malati e moribondi. Anche perché i popoli di banda e di villaggio, in pratica tutti i popoli premoderni, non hanno il concetto di morte naturale e attribuiscono la morte di un congiunto a forze maligne o alla magia. La carbonizzazione della carne fresca di cadavere, oppure il suo seppellimento, riduce quei sospetti che diventano particolarmente forti proprio in occasione della morte del caro estinto e, d’altra parte, riducono il pericolo di malattia. In situazioni nelle quali si otteneva un importante nutrimento dal cadavere d’un congiunto, è molto probabile che chi se ne cibava fosse in condizioni di notevole sottoalimentazione e bisogno di calorie e proteine, sicché, il vantaggio costituito dal mangiare un corpo senza carbonizzarlo né lasciarlo sotto terra sino a quando le ossa non si ripulissero della carne, risultava superiore al rischio di malattia o di essere accusati di stregoneria.
Se non altro di questo tipo sembra essere la spiegazione della pratica di mangiare i cadaveri dei congiunti presso i Foré degli altipiani della Nuova Guinea. D. Carleton Gajdusek ricevette il premio Nobel per la medicina, nel 1976, per aver messo in relazione la pratica diffusa presso i Foré di mangiarsi i parenti con una malattia causata da un «virus lento»: un tipo patogeno precedentemente sconosciuto ancorché collegato a molte altre malattie tra cui il cancro5. Come presso molti altri abitanti degli altipiani della Nuova Guinea, i rituali funerari dei Foré obbligavano le donne imparentate col defunto a seppellirne il corpo in una tomba poco profonda. Tradizionalmente, poi, dopo un intervallo di durata imprecisata, le donne riesumavano le ossa e le ripulivano per bene senza però mangiare un grammo di carne. Nel corso degli anni 1920 le donne mutarono questa pratica, probabilmente per compensare la diminuzione delle porzioni di carne che ottenevano dai loro uomini. Cosí riesumavano il cadavere dopo non piú d’un paio di giorni e ne mangiavano l’intero corpo, dopo averne separato la carne dalle ossa, facendolo cuocere in cilindri di bambú insieme a felci e altre foglie verdi; ritengo perché alle altitudini piuttosto elevate alle quali vivevano i Foré, la semplice bollitura non costituiva una difesa efficace contro la contaminazione del cibo. A distanza di una trentina d’anni, i Foré diventarono le vittime preferite di quella sino ad allora sconosciuta e fatale «malattia del riso», chiamata «kuru». Negli stadi piú avanzati del kuru, chi ne era affetto, e si trattava perlopiú di donne, perdeva il controllo dei muscoli facciali, dando l’impressione di ridere sino a morirne. Le ricerche per le quali Gajdusek doveva poi essere insignito del premio Nobel, rivelarono che il kuru era causato da un «virus lento» che si trasmetteva probabilmente in conseguenza dell’insolito rituale funerario dei Foré, ossia la manipolazione del cadavere parzialmente decomposto e il consumo alimentare della sua carne6.
Poiché né Gajdusek né altri antropologi che ebbero l’occasione di vivere assieme ai Foré furono mai testimoni di consumo alimentare di carne umana, si ipotizzò che il virus si diffondesse unicamente in seguito al contatto col cadavere senza bisogno di mangiarne delle parti infette. Però, molte donne Foré ebbero a dichiarare spontaneamente a molti ricercatori di aver praticato il cannibalismo funerario7. E la decisione di consumare la carne quasi marcia può aver avuto molto probabilmente una motivazione di tipo nutritivo. Benché la dieta dei Foré non sia mai stata studiata all’epoca in cui praticavano il cannibalismo funerario, studi posteriori hanno mostrato che l’abitudine di spartire in modo ineguale il cibo animale tra uomini e donne era ancora vigente8. Ai tempi di Gajdusek, dopo l’abbandono del cannibalismo, il consumo quotidiano di proteine da parte delle donne raggiungeva solo il 56 per cento della razione raccomandata e, in pratica, si trattava in toto di proteine d’origine vegetale9. Analogamente a quanto succedeva presso molti gruppi di popolazioni sudamericane, i maschi si tenevano per sé la carne degli animali di piú o meno grossa taglia, lasciando rospi, animali di piccola taglia e insetti a donne e bambini. Inoltre, come c’era da aspettarsi, i Foré facevano registrare un elevato livello di accuse di stregoneria nei confronti delle donne. C’è da credere che analoghi effetti negativi, sia sulla salute sia sulla coesione sociale, abbiano normalmente accompagnato i tentativi fatti in altre culture di consumare i corpi dei congiunti e dei vicini nell’ambito di rituali funerari, con la conseguenza di limitare la diffusione di tali pratiche. Ma adesso vorrei affrontare il problema delle forme piú comuni, e piú significative dal punto di vista nutritivo, del mangiare la gente; ossia il cannibalismo praticato su corpi acquisiti con la forza.
Sanzioni drastiche vietano ai membri adulti dei gruppi primitivi di uccidersi e mangiarsi reciprocamente. Di fatto, il tabú dell’uccisione e dell’ingestione di un congiunto si presenta come precondizione fondamentale e primaria perché la gente possa vivere assieme e cooperare quotidianamente. Questo tabú implica necessariamente che, qualora si voglia praticare il cannibalismo su corpi acquisiti con la forza, tali corpi debbono provenire da individui socialmente distanti, cioè da stranieri o da nemici dichiarati. In altre parole questi corpi potranno essere acquisiti unicamente in seguito a una qualche forma di conflitto armato. Poiché la guerra guerreggiata sembra ben riassumere e caratterizzare la maggior parte degli scontri armati che portano all’acquisizione mediante la forza di corpi umani, parlerò di questa varietà di cannibalismo usando l’espressione «cannibalismo guerresco».
Dobbiamo una delle prime e piú particolareggiate testimonianze oculari del cannibalismo guerresco a Hans Staden, un naufrago tedesco fuciliere di marina fatto prigioniero dai Tupinamba, Indios brasiliani. Nel 1554, Staden trascorse ben nove mesi in un villaggio tupinamba, prima di riuscire a fuggire e a far ritorno in Europa. Staden ebbe cosí la possibilità di assistere, e di vedere coi propri occhi, alla tortura rituale di un prigioniero di guerra, al suo squartamento, alla cottura, distribuzione e consumo della sua carne. Staden non specifica a quanti episodi di cannibalismo abbia personalmente assistito, tuttavia ne descrive in particolare tre, nei quali ebbe appunto occasione di veder coi propri occhi la gente cucinata e mangiata, per un totale complessivo di almeno sedici vittime. Ecco la dettagliata descrizione del destino riservato a un prigioniero di guerra dei Tupinamba:
Non appena portano a casa un prigioniero, donne e bambini gli saltano addosso e lo percuotono. Quindi lo adornano con delle piume grige, gli rasano le sopracciglia e prendono a danzargli intorno, dopo averlo accuratamente legato in modo che non possa fuggire. Gli assegnano quindi una donna che si prende cura di lui e ha dei rapporti con lui (...)Nutrono il prigioniero molto bene e lo intrattengono mentre preparano le scodelle nelle quali versano le loro bevande (...) Quando tutto è pronto, stabiliscono il giorno della sua morte e invitano a presenziarv...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Buono da mangiare
- I. Buono da pensare o buono da mangiare?
- II. Fame di carne
- III. Il mistero della vacca sacra
- IV. L’abominevole porco
- V. Ippofagia
- VI. Santa Bistecca Usa
- VII. Lattofili e lattofobi
- VIII. Cosucce
- IX. Cani, gatti, dingo e altri pet
- X. Mangiare la gente
- XI. Migliore da mangiare
- Il libro
- L’autore
- Copyright