La letteratura italiana del Novecento
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La letteratura italiana del Novecento

  1. 130 pagine
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La letteratura italiana del Novecento

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Dalla penna di un grande critico e filologo, protagonista del panorama intellettuale, un canone della letteratura e l'affascinante ritratto di un'epoca.

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Informazioni

1. Una fase di transizione

Non è fuori luogo rilevare subito che i personaggi di maggior calibro del Novecento (Svevo, Saba, Montale, Gadda, Croce) sono nati tutti nel secolo precedente. Questo mostra la convenzionalità della barriera fra Otto e Novecento, anche se è vero che gli ultimi scrittori nettamente ottocenteschi si affacciano appena nel Novecento (Carducci muore nel 1907, Verga nel 1922, ma già da tempo inattivo). Certo, il periodo che va sino al 1915 ha tutti i segni della transizione: vecchio e nuovo si affiancano, anche in uno stesso scrittore. Si prendano Giovanni Pascoli (1855-1912) e Gabriele D’Annunzio (1863-1938). Essi potrebbero essere accomunati dall’origine primamente libresca della loro poesia, di matrice carducciana: ricorso costante alle fonti classiche, voluto riecheggiamento della tradizione poetica italiana illustre, dalle origini sino all’Ottocento, possesso del linguaggio più squisito della tradizione. Poeti umanisti, insomma; e Pascoli scrisse anche poesie latine, eccellentemente.
Pascoli e D’Annunzio (cui accenno brevemente perché le loro radici sono comunque ottocentesche), si rivelano invece, nello stesso tempo, degli innovatori. Pascoli lo è soprattutto nell’espressione: mentre da un lato si diletta in evocazioni medievaleggianti o in visioni classiche, ma venate di sensibilità moderna, dall’altro rinnova la metrica e arricchisce la lingua, di onomatopee e di echi dialettali e di una musicalità e di vibrazioni nuove, in accordo con una ipersensibilità, forse persino una morbosità, non ignara del decadentismo europeo. Il linguaggio poetico trasmesso attraverso i secoli viene così incrinato e insieme arricchito, e prepara i più audaci interventi dei poeti che seguiranno.
E D’Annunzio, pur così schiavo dell’estetismo e della retorica, della sua sensualità dilettantesca e dell’esibizione di un Sé ipertrofico ma tutto costruito, giunge sino a una scrittura, quella «notturna», impressionistica, rarefatta, contesta di lievi tocchi, mormorii e luci improvvise. La sperimentazione dannunziana è ancora più sensibile nella prosa, dal naturalismo delle Novelle della Pescara (1902) al «vivere inimitabilmente» del Piacere (1889) allo psicologismo dostoevskiano di Giovanni Episcopo (1891) e dell’Innocente (1892) al superomismo de Le vergini delle rocce (1895) e de Il fuoco (1900). Mito classico e attrazione dell’incesto, folklore e profetismo s’intrecciano poi nel teatro. Ma mentre il teatro si rivelò subito caduco, gli esperimenti in romanzo, anche se non sono memorabili, portarono spunti nuovi e stimolanti nella nostra cultura passatista; e la poesia continua a costituire una fase fondamentale nella nostra storia.
Appartiene alla generazione successiva a D’Annunzio Dino Campana (1885-1932), che agli altri due citati può essere accostato per l’imparentamento, stavolta puramente formale e linguistico, col Carducci. Anch’egli d’ispirazione decadentistica, s’avvicina ai suoi idoli francesi, da Baudelaire a Rimbaud, per il maledettismo naturale, tanto da realizzarsi a sprazzi, e poi definitivamente, come follia. Lontano da qualsiasi esibizione letteraria, Campana, nella sua unica raccolta di poesie e prose poetiche, Canti orfici (1914), raggiunge una potenza visionaria che trasfigura il paesaggio in evocazione metafisica, giocando con efficacia sulla combinatoria verbale, monumentalizzando, si può dire, le parole.
Solo per contrasto gli si può accostare il quasi coetaneo Guido Gozzano (1883-1916): ironico, elegiaco, malinconico questo, quanto il primo appassionato e allucinato. Guido Gozzano venne giustamente omologato, nella categoria del crepuscolarismo, a Sergio Corazzini, Marino Moretti e altri. Tutti insieme fanno il controcanto al gigantismo e alla retorica di D’Annunzio per celebrare le piccole cose, il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non si ebbe, gli amori sfioriti: modelli Verlaine e Laforgue, Maeterlinck e Jammes. Corazzini e Gozzano sono anche poeti della malattia, della precarietà espressa con eleganza piuttosto che con terrore. Il più dotato, Gozzano appunto, con le sue due raccolte La via del rifugio (1907) e I colloqui (1911), esercita un sottile smontaggio e smascheramento della poetica dannunziana.
Metto qui, come massimo scrittore dell’anteguerra, Italo Svevo (1861-1928), anche se i suoi due primi romanzi, Una vita (1892) e Senilità (1898), appartengono a rigore all’Ottocento, e l’ultimo, La coscienza di Zeno (1923), è già posteriore alla guerra. Scrittore di frontiera, Svevo sembra quasi estraneo alla precedente narrativa italiana e s’avvicina piuttosto, ma senza massicce rassomiglianze o tanto meno derivazioni, a Flaubert, Proust, Schnitzler e Joyce. Egli è estraneo a qualunque sperimentazione linguistica, anche perché il suo italiano è per lui, triestino, uno strumento impiegato quasi con diffidenza, e con molto volontarismo. Di qui anche la forma che parve ai contemporanei inelegante, e che fece rinviare il suo riconoscimento come maestro del romanzo. Adepto in sostanza del naturalismo, Svevo racconta storie di personaggi borghesi e comuni, mostrando però le complicazioni e i grovigli inconfessabili celati nelle loro menti. Sconfitti nella vita, ci si può credere abili manipolatori del vizio, riuscendo poi a mettere in atto crudeltà ed egoismo solo nei comportamenti quotidiani, e gettando via quel poco di felicità che si potrebbe avere. Che un utente così pervicace dell’autoanalisi e un affabulatore di episodi della propria biografia si sia imbattuto, primo in Italia, nella psicoanalisi, che veniva praticamente inaugurata a Trieste in quegli anni (Edoardo Weiss), era quasi inevitabile. Ma è interessante che, mentre La coscienza di Zeno ricorre proprio come espediente narrativo alla cornice analitica di una relazione allo psicologo, già nei primi due romanzi, ignari di psicoanalisi, lo studio del profondo sia attuato senza esitazioni. Va poi aggiunto che Svevo, di psicoanalisi, aveva nozioni approssimative, mentre era lettore attento degli psicologi positivisti francesi: l’indagine sul profondo è insomma prevalentemente una sua tendenza e una scoperta.
Lo scarso interesse per lo stile, la preferenza per personaggi mediocri e di solito borghesi, l’attenzione ai moventi psicologici, avvicinano Luigi Pirandello (1867-1936) al quasi coetaneo Svevo. Ma le rassomiglianze finiscono qui. Pirandello mette di suo la ricerca di situazioni che muovono fra il paradosso e l’umorismo, il gusto dialettico, filosofeggiante, che mette in azione meccanismi (il contrasto fra apparenza e realtà, maschera e volto, convenzione e suo rovesciamento) ben costruiti ma fuori del comune, spesso cerebrali. Egli ha un senso dolente, anche tragico, della vita; i suoi personaggi hanno un bisogno disperato di comunicare, anzi di confessare, e soffrono di non riuscirci a pieno; peccato che tutto questo si realizzi quasi sempre entro costruzioni narrative troppo ingegnosamente calcolate. Non a caso i risultati più alti vengono raggiunti, più che nei romanzi (L’esclusa, 1901; Il fu Mattia Pascal, 1904; I vecchi e i giovani, 1912; I quaderni di Serafino Gubbio operatore, 1925), nelle novelle (Novelle per un anno, 1922-1937), dov’è più facile contemperare la «trovata» e l’intuizione psicologica, o, più tardi, nel teatro, in cui i colpi di scena e le rivelazioni drammatiche diventano incentivi all’interesse del pubblico. Ebbero e hanno tuttora un successo mondiale, giustamente, Così è (se vi pare) (1917), Il piacere dell’onestà (1917) e Enrico IV (1922); mentre i Sei personaggi in cerca d’autore (1921) e Questa sera si recita a soggetto (1930) sono anche tentativi sperimentali di grande sapienza (pur nella scia del «teatro nel teatro» di origine elisabettiana). Resta il fatto che Pirandello è l’ultimo grande uomo di teatro italiano, e che svolse un’influenza straordinaria sugli sviluppi della drammaturgia di tutto il mondo.
Trascurato dapprima dalla critica, oggi apprezzatissimo (da Debenedetti a Baldacci), Federigo Tozzi (1883-1920) riesce forse ostico per il linguaggio irto di forme del contado senese e per la sua tematica della sconfitta e dell’irrealtà quotidiana. I suoi personaggi sono degli inetti, magari impauriti come lui da un padre dispotico: in Con gli occhi chiusi (1919), la scontrosa Ghìsola viene trovata dal protagonista, alla fine, gravida, in una casa di tolleranza; Il podere (1921) è la storia di un altro inetto sgradito a tutti che, dopo aver visto la rovina della sua proprietà, viene assassinato da un contadino; Tre croci (1919) racconta il progressivo degrado, anche morale, di tre fratelli, sino al fallimento della loro libreria e al suicidio di uno dei tre. Le complicate psicologie (per le quali Tozzi, pur sempre egocentrico, non mancava di rifarsi a Freud e ad altri psicologi meno noti) si rivelano anche nello stile intricato e desultorio.

2. Verso la prima guerra mondiale

I primi quindici anni del secolo vedono importanti progressi nell’organizzazione industriale, e netti miglioramenti nella condizione dei lavoratori, che conquistano, nelle istituzioni democratiche, una crescente partecipazione al potere (tra l’altro viene istituito il suffragio universale). Tuttavia l’educazione politica è ancora arretrata, e anzi, mentre fatica ad affermarsi un socialismo di tipo riformista, la pubblicistica è dominata dal nazionalismo e dagli irrazionalismi di destra (ispirati soprattutto a Nietzsche e Sorel) e di sinistra (sindacalismo rivoluzionario), e dal loro comune culto della violenza. Questo spiega la facilità con cui all’avvicinarsi del primo conflitto mondiale una minoranza di interventisti potrà facilmente sopraffare i neutralisti e i pacifisti. Il rifiuto della retorica, il senso della morte e dell’impotenza dell’individuo, del bene che non si può conservare, potrebbero istituire il nichilismo di Carlo Michelstaedter (1887-1910) a simbolo dell’opposizione verso le correnti ideali che prevalevano; rifiuto definitivamente espresso col suicidio.
Nell’ambiente letterario, riviste come «Leonardo» e «Lacerba» partecipano dell’irrazionalismo dominante. Vi sono attivi l’instancabile e contraddittorio polemista Giovanni Papini (che più tardi si farà apologeta cattolico) così come lo scrittore Alfredo Oriani, che teorizza la necessità della guerra come continuazione e coronamento dei moti risorgimentali. In questo quadro prende rilievo per la notevole capacità di coinvolgimento il Futurismo, che predica un completo scardinamento della lingua letteraria e dei generi costituiti in rapporto con i progressi tecnologici, la velocità, il volo, e così via; da cui effetti di simultaneità, prospettive aeree, sovrapposizioni spaziali e temporali.
Il fondatore, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1942), risulta più efficace come propagandista che come scrittore (le sue «parole in libertà», le sue onomatopee e le interferenze fra scrittura e disegno sono alquanto primitive); inoltre, il Futurismo dà risultati più consistenti in pittura (Soffici, Boccioni, Carrà, ecc.) che in poesia, se si esclude, perché non più che un momentaneo compagno di strada, Aldo Palazzeschi, dapprima crepuscolare con elementi fiabeschi. Il suo Incendiario (1910) è un poemetto e insieme un’ars, dove il poeta non è meno incendiario del terrorista, e con battute anticonformiste e sberleffi asemantici inneggia alla rivoluzione del verso. Va comunque riconosciuta al Futurismo la presa d’atto degli straordinari cambiamenti intervenuti nella civiltà industriale; donde la diffusione del movimento (anche mediante «manifesti», il primo del 1909) in Francia, in Russia, e un po’ dappertutto. Per contro, non si deve dimenticare la sua esaltazione della guerra come «igiene del mondo» e come brutale mezzo di alleggerimento demografico, l’antifemminismo, nonché, a suo tempo, il fiancheggiamento al fascismo.
Meno rumorosa, ma forse più produttiva, l’esperienza de «La voce» (1908-1914, fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini; più nettamente letteraria sotto la direzione di Giuseppe De Robertis, 1914-1916), che tra molte incertezze filosofiche (si va da influssi di Bergson e Blondel al modernismo, all’idealismo di Croce e Gentile) svolge un’attenta ispezione della migliore poesia e critica francese, cui aggiunge Ibsen e i romanzieri russi. Nella rivista fanno le loro prove scrittori diversi ma tutti notevoli, e accomunati da un travaglio morale, religioso o laico: da Giovanni Boine a Piero Jahier, da Scipio Slataper a Carlo Michelstaedter. Il frammentismo propugnato da alcuni di questi scrittori e dai critici amici (con l’appoggio esterno di Croce, fautore della distinzione fra poesia e struttura) porta a valorizzare le forme brevi e meno organizzate, a preferire le veloci intuizioni liriche al poema costruito classicamente, ad amare il diario, l’esame di coscienza, che risponde anche a un’esigenza etica viva nella corrente.

3. L’esperienza della prima guerra mondiale

Nel 1915 scoppia la guerra tanto attesa: definita sciaguratamente la «risvegliatrice d’infiacchiti» (Papini), la «religiosa ecatombe» (Croce), l’«igiene del mondo e sola morale educatrice» (Marinetti), lo «strumento doloroso ma necessario di più larga pace» (Salvemini); o invece, molto più giustamente, l’«orrenda carneficina» e l’«inutile strage» (Benedetto XV), o, ancora meglio, il «suicidio dell’Europa» (Löwith). Nella guerra, che provoca solo in Italia un milione di morti, cadono anche scrittori come Renato Serra (1884-1915), che su essa, oltre che sul significato e il fine della letteratura, aveva scritto pagine bellissime nell’Esame di coscienza di un letterato, e come Scipio Slataper (1888-1915). Ma i contributi sono numerosi: notevole, anche per la fraternità umana con montanari e contadini, Con me e con gli alpini (1919) di Jahier, che infatti nella seconda guerra sarà partigiano. Anche da ricordare Giorni di guerra (1930, ma scritto nel 1919) di Giovanni Comisso, con la guerra vista come fonte di emozioni e avventure, e Un anno sull’Altipiano (1938) di Emilio Lussu, che sarà poi tra i più attivi scrittori antifascisti (si veda l’irresistibile satira di Marcia su Roma e dintorni, 1933).
L’esperienza della guerra è decisiva anche per un poeta come Giuseppe Ungaretti (1888-1970) e un narratore come Carlo Emilio Gadda. Il Porto sepolto (1916) di Ungaretti entra poi nella raccolta Allegria di naufragi (1919), che a sua volta, ampliata, sarà L’Allegria (1931). È da rilevare subito che le vicende di una vita errabonda (dall’Egitto alla Francia all’Italia; poi al Brasile) coincidono con una straordinaria fusione di modelli, che vanno dalla tradizione italiana, culminante per Ungaretti in Leopardi (ma egli frequentava anche i più interessanti scrittori contemporanei) ai francesi Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé e Apollinaire. Già nelle prime poesie, e in particolare in quelle di guerra, Ungaretti mette a punto la sua estrema scarnificazione del discorso, che fa campeggiare singole parole o sintagmi nel bianco della pagina, pur lasciando in una filigrana verticale, tra un elemento e l’altro, una sintassi ferma (spesso però nominale) e ritmi e versi tradizionali. La purezza della parola è esaltata e si carica di risonanze; le enunciazioni, fortemente sillabate, sono apodittiche, talora oracolari. L’esperienza della fraternità fra compagni d’arme, della solitudine davanti alla natura e al pericolo, dell’attaccamento sempre più disperato alla vita in un paesaggio di cadaveri, sono incisi con straordinaria efficacia in queste specie di epigrafi poetiche. Il non detto, o l’eliminazione dei passaggi logici, producono straordinarie suggestioni.
L’effetto della riforma poetica ungarettiana fu eccezionale e persistente. E la sua arte del levare, che talora riduceva una lunga poesia a pochi versi, fu ammirata nello studio delle varianti redazionali. Ungaretti, nella sua lunga vita, continuò un’attività poetica (Sentimento del tempo, 1933; Il Dolore, 1947; La Terra promessa, 1950) sempre strettamente legata a motivi autobiografici, tra cui decisive la morte del figlio e l’occupazione nazista di Roma: tanto che la raccolta complessiva sarà intitolata Vita d’un uomo (1969, poi più volte ampliata). Il sempre maggior articolarsi della tematica corrisponde però in Ungaretti (fors’anche in rapporto con il conservatorismo culturale del fascismo, cui egli aderiva) a un ritorno alle forme e ai metri della tradizione, con un barocchismo, sempre d’altissimo livello, che non a torto fu definito dannunziano. Strano parallelismo quello col pittore De Chirico.
Di Carlo Emilio Gadda (1893-1973) si parlerà meglio avanti. Ma mi pare opportun...

Indice dei contenuti

  1. Prefazione
  2. Premessa
  3. 1. Una fase di transizione
  4. 2. Verso la prima guerra mondiale
  5. 3. L’esperienza della prima guerra mondiale
  6. 4. Il periodo fascista
  7. 5. Il problema della lingua: Moravia e Gadda
  8. 6. Altri narratori
  9. 7. Dall’ermetismo a Montale
  10. 8. Impegno di rinnovamento
  11. 9. La letteratura di guerra
  12. 10. Il neorealismo in letteratura
  13. 11. Dal romanzo borghese al romanzo politico
  14. 12. La centralità di Italo Calvino
  15. 13. Poesia del dopoguerra
  16. 14. Avanguardia del Gruppo 63 e altre
  17. 15. La poesia collegata al Gruppo 63
  18. 16. La letteratura di consumo
  19. 17. La situazione socio-politica dell’ultimo trentennio
  20. 18. Gli ultimi fuochi
  21. Bibliografia