Il buddhismo indiano
di Mario Piantelli
Premessa
La stragrande maggioranza dei letterati e viaggiatori che hanno proceduto negli ultimi secoli ad individuare tutta una serie di «religioni» nell’àmbito dei mondi extra-europei, sovente su basi etnico/geografiche fragili e provvisorie, non si è posta neppure il problema della legittimità del ricorso a una categoria affermatasi e affinatasi in Occidente, entro un contesto storico e sociale tutt’altro che tipico, per descrivere orizzonti di significati, valori e modelli ideali spesso toto caelo diversi dal nostro. Parrebbe logico attendersi che, con l’affermarsi della nuova mentalità «scientifica» nell’Occidente in vigorosa espansione del secolo scorso, si dedicasse un’attenzione maggiore ai problemi derivanti da un’estensione acritica della nozione di «religione» al di là dei suoi confini culturali. Ciò dovrebbe derivare direttamente dall’esigenza d’impiegare strumenti adeguati a comprendere e interpretare il dato storico, filologico o antropologico emergente dalle ricerche in continuo progresso della comunità internazionale degli studiosi. In realtà, siffatta esigenza è passata in sottordine rispetto ad altre, forse meno nobili, ma certo più immediate e pressanti. Anzitutto, per gli esponenti delle diverse confessioni e denominazioni cristiane impegnate nella fatica missionaria, gli oggetti-religione preconfezionati resi via via disponibili dalla ricerca (sovente opera dei missionari stessi!) giovavano a preparare il terreno a una critica più o meno impietosa nei confronti degli errori ed orrori del «paganesimo». Correlativo a questa bellicosa disposizione apologetica era, nell’ambiente «laico», un atteggiamento di curiositas divertita e insieme sprezzante per le altrui rozze «superstizioni», non meno impaziente di trinciar giudizi, ma teso anche a solleticare la voglia d’esotismi più o meno pruriginosi nel pubblico più smaliziato. Le vecchie e nuove «religioni» via via aggiunte allo scibile occidentale servivano poi egregiamente, agli occhi degli specialisti delle diverse culture, a delimitare (e per ciò stesso a dominare) le aree di volta in volta conquistate al sapere occidentale – e a difenderne al contempo il monopolio accademico da eventuali fastidiose ingerenze di colleghi non «addetti ai lavori»...
Veniva in soccorso dell’utilizzazione dell’etichetta di «religione» per i più svariati contenuti la sua valenza tutt’altro che univoca: assumendo quale alibi l’indefinita molteplicità d’interpretazioni offerte della categoria in discorso dai «religionisti» stessi, si poteva tranquillamente introdurla nel discorso «scientifico» senza impegnarsi a chiarirne la portata, né a riflettere sulle implicazioni del suo impiego. Se il trascorrere del tempo ha affinato le nostre conoscenze, esso ha mutato ben poco lo status quo lasciatoci in eredità dalle passate generazioni; se mai, si sono aggiunte nuove province alla variopinta mappa delle «religioni» già note. Ciò è vero anche per l’India. Dato per scontato che l’una o l’altra accezione del termine trovasse rispondenza nei fatti e nelle idee di cui s’interessavano, gli indologi hanno proceduto tranquillamente a suddividere la mole ingentissima, fitta di interconnessioni e male analizzabile dei dati che li confrontavano in tutta una serie di «religioni» distinte. Queste venivano individuate di norma ricorrendo ad altrettanti neologismi forgiati sulla falsariga dei termini grecizzanti quali «cristianes(i)mo/cristianismo» e «paganes(i)mo/paganismo», consacrati dall’uso fin dal Medioevo. La formazione di tali calchi aveva luogo mediante la semplice applicazione del familiare suffisso «-ismo» all’uno o all’altro termine indiano, sentito come specialmente significativo o introdotto per mere ragioni di comodo.
Certo, la loro individuazione non si presenta sempre come un processo capricciosamente arbitrario: in diversi casi le «religioni» minoritarie scoperte nel contesto indiano effettivamente coincidono con esperienze spirituali a sé stanti.
Nondimeno, alcune delle etichette più fortunate nate dalle convenzioni degli orientalisti, quali il «buddhismo/bauddhismo» e il «jinismo/jainismo», hanno avuto e hanno tuttora esiti in certa misura deformanti, giacché solgono spingere i profani a leggere in chiave unilateralmente «religiosa» le dottrine di antiche soteriologie atee a base ascetico-speculativa, nel cui àmbito le pratiche cultuali e devozionali – strettamente interconnesse – s’affermano relativamente tardi e non senza significativi contrasti.
La nozione di «buddhismo», poi, che raggruppa un insieme assai articolato d’indirizzi dottrinali in competizione tra loro, privilegia indebitamente ciò che li accomuna ...