La filosofia contemporanea
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La filosofia contemporanea

Dal paradigma soggettivista a quello linguistico

Lucio Cortella

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La filosofia contemporanea

Dal paradigma soggettivista a quello linguistico

Lucio Cortella

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Una ricostruzione del discorso filosofico dell'epoca contemporanea che ha l'intento di offrire al lettore un quadro interpretativo unitario dello sviluppo della filosofia dalla crisi del sistema hegeliano a Habermas. Delineando un itinerario attraverso una serie di scuole, autori e testi, Lucio Cortella rende evidente il passaggio dal paradigma del soggetto, dominante nella modernità, al paradigma centrato sul linguaggio, che ha caratterizzato la riflessione contemporanea.

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Informazioni

Anno
2020
ISBN
9788858142936
Argomento
Filosofia

V.
Il pensiero neopositivistico-analitico

La critica del paradigma soggettivistico caratterizza sia il neopositivismo sia la filosofia analitica, due tradizioni che, se per certi aspetti possono essere tenute distinte, per altri si intrecciano fra loro non solo per un approccio e per temi spesso vicini ma anche per il fatto che alcuni dei loro esponenti possono essere attribuiti senza forzature all’una o all’altra. Valga per tutti la figura di Wittgenstein, che con il suo Tractatus ha indubbiamente influenzato tutta la prima fase del neopositivismo e che con la riflessione degli anni Trenta, culminata nelle Ricerche filosofiche, è stato all’origine di molta parte della filosofia analitica nella seconda metà del Novecento.
La determinazione dei confini fra neopositivismo e filosofia analitica è esercizio non sempre facile e comunque controverso. Il motivo di ciò risiede non tanto nella difficoltà di individuare i caratteri del neopositivismo quanto nello stabilire che cosa si intenda propriamente con “filosofia analitica”. Ne esiste infatti una versione “ampia” e una più “ristretta”.
Secondo la versione più ampia, analitica può essere detta quella filosofia che si basa appunto sull’analisi, cioè sulla scomposizione dei concetti, sull’esplicitazione dei presupposti inespressi, sull’argomentazione, sull’individuazione di paralogismi e fallacie. Intesa in questi termini la definizione di “filosofia analitica” indica non tanto una scuola filosofica quanto uno stile, un modo di concepire l’esercizio filosofico. Non è difficile però individuare l’osservanza di quello stile in molta parte della tradizione filosofica (pensiamo qui all’Organon aristotelico o all’opera logica di Leibniz). Ma secondo gli analitici contemporanei in quei pensatori del passato vanno riconosciuti non tanto dei protagonisti quanto dei precursori del movimento analitico. Questo infatti assumerebbe dei contorni definiti con l’opera di Gottlob Frege (1848-1925), George E. Moore (1873-1958) e Bertrand Russell (1872-1970), ovvero con l’applicazione di quello stile filosofico al linguaggio, come oggetto privilegiato se non esclusivo dell’indagine filosofica. In questa versione “ampia” il neo­positivismo non sarebbe cosa diversa dalla filosofia analitica ma piuttosto si rapporterebbe ad essa come la specie al genere. Esso infatti si caratterizzerebbe per l’attenzione privilegiata verso un certo tipo di linguaggio, quello scientifico. Non a caso i neopositivisti stessi riconobbero il loro debito nei confronti del pensiero di Frege e Russell.
Secondo la versione più “ristretta” la filosofia analitica sorgerebbe invece in Inghilterra negli anni Trenta (anni in cui viene fondata a Cambridge «Analysis», la rivista ufficiale del movimento), influenzata soprattutto dal nuovo corso che Wittgenstein stava imprimendo al suo pensiero. Essa si caratterizzerebbe per l’attenzione al linguaggio nella molteplicità delle sue forme, senza privilegiare il paradigma del linguaggio scientifico o perseguire l’ideale di una formalizzazione del linguaggio. La filosofia analitica si contrapporrebbe quindi sia al neopositivismo (di cui abbandonerebbe il programma scientista e la stessa teoria empirica della conoscenza) sia al formalismo logico di Frege, Russell e Carnap. È all’interno di questa autocomprensione più ristretta che la filosofia analitica per una certa fase è stata identificata con il tipo di filosofia che si praticava negli anni Cinquanta e Sessanta nelle Università di Cambridge e Oxford, ovvero la cosiddetta ordinary language philosophy. In realtà l’idea che il linguaggio ordinario costituisca una sorta di norma o contenga la vera saggezza, quella del senso comune, è caratteristica solo di una parte del movimento analitico contemporaneo (di quella parte in cui la figura più rappresentativa è quella di John Austin). La filosofia analitica nel suo complesso si caratterizza invece per l’attenzione alla molteplicità dei linguaggi, da quello etico a quello religioso, da quello metafisico a quello giuridico, da quello psicologico a quello logico-matematico, e dunque non può essere ridotta a filosofia del linguaggio ordinario.
Molto più specifiche sono invece le caratteristiche del movimento “neopositivistico”. La sua nascita viene generalmente fatta coincidere con la costituzione nel 1924, attorno alla figura di Moritz Schlick (1882-1936), del cosiddetto «Wiener Kreis», cui prendono parte filosofi, matematici e scienziati, fra i quali Neurath, Carnap, Hahn e Frank. Il suo programma è caratterizzato da un orientamento rigorosamente empiristico e dal metodo dell’analisi logica, nonché dall’idea che solo le proposizioni verificabili empiricamente abbiano senso, ovvero le proposizioni delle scienze empiriche. Un discorso a parte meriterebbe la figura di Ludwig Wittgenstein, che del movimento neopositivistico non fece mai parte e la cui concezione filosofica esposta nel Tractatus logico-philosophicus costituì tuttavia costante oggetto di ispirazione e dibattito nelle riunioni del circolo.
Qual è allora il senso di mettere assieme neopositivismo e filosofia analitica, che una certa interpretazione vedrebbe addirittura contrapposti?
Il primo motivo è di carattere storico. I neopositivisti si videro costretti dall’avvento del nazismo ad emigrare nei paesi anglosassoni, dove la loro originaria concezione venne a “liberalizzarsi” soprattutto a contatto con la tradizione del pragmatismo americano. In tal modo il neopositivismo americano finì per assumere proprio quei tratti pragmatici che la filosofia analitica inglese era andata assumendo sulla spinta del “nuovo corso” wittgensteiniano. Esemplare è sotto questo profilo la figura di Quine, che ha condiviso il programma neopositivistico delle origini, ha contribuito poi alla sua evoluzione, prendendo le distanze da alcune sue tesi fondamentali, e che infine è diventato il rappresentante più significativo della filosofia analitica americana del Novecento.
Il secondo motivo è di carattere teoretico. Il neopositivismo e la filosofia analitica sono concordi non solo nell’assumere il metodo filosofico dell’analisi ma anche nell’individuare nel linguaggio l’oggetto privilegiato di quest’analisi. Ora è ben vero che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, molti esponenti della filosofia analitica hanno cominciato a mettere in discussione quel privilegio, spostando la loro attenzione sulla filosofia della mente o riabilitando il realismo ontologico. Ma la centralità del linguaggio non è mai stata messa in discussione. Semmai si è assistito all’apertura e all’esplorazione di nuovi territori a partire proprio dall’analisi linguistica.
Il linguaggio è dunque il vero tema della tradizione neopositivistico-analitica (in ciò assolutamente solidale con la tradizione, per molti versi a essa opposta, della fenomenologia e dell’ermeneutica). Che il linguaggio abbia un valore paradigmatico risulta evidente già nel Tractatus di Wittgenstein. Tuttavia è in seguito all’ulteriore radicalizzazione subita negli anni successivi dal movimento neopositivistico (in particolare col fisicalismo) che esso giunge ad avere una collocazione ancora più rilevante, una collocazione che la vecchia tradizione filosofica europea avrebbe qualificato come trascendentale. E tuttavia accanto a questo sviluppo, che per certi versi sembra accompagnare quello coevo dell’ermeneutica heideggeriana, si affaccia anche l’esigenza di de-assolutizzare il linguaggio, ovvero di ripensarlo in connessione con quegli elementi pragmatici di natura extralinguistica, solo alla luce dei quali esso può presentarsi nella sua autentica dimensione e completezza. Il razionalismo critico popperiano rappresenta sotto questo profilo l’avvio di quella fase pragmatica nel neopositivismo che aprirà la strada alla cosiddetta epistemologia post-neopositivistica.
Lo stesso processo avviene all’interno della filosofia analitica, in cui all’analisi logica del primo Russell si sostituisce progressivamente l’indagine sul linguaggio ordinario, nel quale svolgono un ruolo centrale le pratiche d’uso e le abitudini linguistiche. Di tale svolta pragmatica le Ricerche filosofiche di Wittgenstein rappresentano il testo esemplare. In esse la centralità del linguaggio si riconferma proprio a partire dal riconoscimento delle sue componenti non linguistiche. E la cosiddetta filosofia post-analitica, tipica del pensiero americano nella seconda metà del Novecento, ne costituisce la prosecuzione ideale, caratterizzandosi per l’originale intreccio di linguaggio, naturalismo, realismo e pragmatismo.

5.1. Wittgenstein: Tractatus logico-philosophicus (1921)

5.1.1. «Il mondo è tutto ciò che accade»

La prima proposizione del Tractatus («il mondo è tutto ciò che accade») enuncia fin da subito il radicale approccio antisoggettivistico di Ludwig Wittgenstein (1889-1951). Nel mondo non si danno né soggetti, né ragioni, né norme, né enti metafisici. L’unica cosa che noi possiamo dire è che esso è un accadere di fatti.
Wittgenstein precisa subito dopo: «Il mondo è la totalità dei fatti non delle cose» (Wittgenstein 1921, prop. 1.1). Ciò che noi osserviamo nel mondo non sono degli enti (le cose). Queste infatti non ci appaiono mai come entità isolate, astratte dal loro accadere e determinabili per sé sole, ma sempre e solo in connessione fra di loro, ovvero come fatti. Un fatto è dunque un evento complesso, che noi possiamo certamente scomporre, raggiungendo quindi la dimensione delle cose o degli enti (quelli che Wittgenstein chiama «oggetti»104), ma quando lo abbiamo scomposto abbiamo perso la sua dimensione reale, il suo essere un evento reale. Gli oggetti (gli enti) non appartengono alla realtà: essi infatti non accadono (ciò che accade è solo il fatto) e tuttavia senza di essi non potrebbero sussistere nemmeno i fatti. Dunque gli oggetti sono solo la possibilità del mondo reale, ovvero il mondo prima della sua configurazione fattuale, l’insieme di tutte le possibilità del mondo. Un oggetto è reale solo in quanto è accaduto, cioè solo in quanto è “in” un fatto.
L’ontologia del Tractatus non è un’ontologia fondata sull’ente ma sul fatto, ovvero è una ontologia dell’accaduto, che prima di accadere non ha alcuna realtà. E l’accadimento è per definizione assolutamente casuale. La prima proposizione che in italiano viene tradotta con «il mondo è tutto ciò che accade» suona in modo ben più radicale in lingua tedesca, dove sta scritto «Die Welt ist alles, was der Fall ist», ovvero (letteralmente) «il mondo è tutto ciò che è il caso». Esso è un accadimento assolutamente casuale, senza leggi, senza ordine, senza necessità.
Ritorna qui il grande tema annunciato dalla filosofia di Nietzsche (e poi ripreso da Heidegger), l’assoluta insensatezza del mondo, la vana pretesa di trovare una ragione ultima delle cose, una spiegazione in grado di ricondurre l’accadere a un ordine, a una logica immanente.
Gli stati di cose sono indipendenti l’uno dall’altro (prop. 2.061). Dal sussistere o non sussistere d’uno stato di cose non può concludersi al sussistere o non sussistere d’un altro (prop. 2.062).
In nessun modo può concludersi dal sussistere d’una qualsiasi situazione al sussistere d’una situazione affatto diversa da essa (prop. 5.135). Un nesso causale che giustifichi una tale conclusione non v’è (prop. 5.136). Gli eventi del futuro non possiamo arguirli dai presenti. La credenza nel nesso causale è la superstizione (prop. 5.1361).
Il mondo non è logico, non ha ordine né connessione. Dunque non esistono l...

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