
- 200 pagine
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Prima lezione sul teatro
Informazioni su questo libro
Una guida per lo spettatore che vuole scoprire i significati e i linguaggi della scena teatrale. Unintroduzione alle principali componenti di uno spettacolo, dalla struttura dello spazio e del tempo alle scelte della scenografia e dei costumi, dalluso della luce e delle nuove tecnologie alle principali tecniche di recitazione. Una rassegna delle teorie e delle esperienze dei grandi protagonisti, dal teatro antico al teatro sacro medievale, da quello barocco fino al contemporaneo. Un invito a conoscere il teatro nellepoca della 'civiltà dello spettacolo.
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Informazioni
Categoria
Storia e critica del teatroVI. Lo spettacolo
1. Drammaturgia e scrittura scenica
Lo abbiamo ribadito a più riprese: il teatro non può coincidere col testo scritto, e anzi nella cultura contemporanea è generalizzato il rifiuto della sudditanza della scena alla scrittura. Non per questo è tuttavia lecito espellere il testo da ogni considerazione sull’evento teatrale, se non altro per la ragione inconfutabile che un’opera scritta da un drammaturgo è sempre stata ed è tuttora alla base della stragrande maggioranza degli spettacoli teatrali. Ciò che cambia nella cultura del Novecento sono proprio le modalità di questo rapporto, che si fa meno rigido e costrittivo. La teatralità contemporanea ammette e anzi favorisce la manipolazione del testo, la sua riduzione, l’interpolazione con altri materiali, a volte anche la non adesione alla sua filosofia di base e alla sua struttura drammaturgica, fino addirittura a una utilizzazione in chiave parodistica. Proverò a fornire qualche esemplificazione di questi meccanismi, più avanti. Ma ora è più urgente sgombrare il campo dall’idea che nelle epoche passate esistesse sempre un rispetto assoluto per la lettera del testo.
Nel teatro greco e romano, per quanto ne sappiamo, è poco probabile che l’allestitore potesse prendersi eccessive licenze, visto che la sua figura coincideva con quella del drammaturgo. Può anche darsi che Sofocle o Euripide correggessero in corsa qualche particolare del testo, durante le prove dello spettacolo, ma la questione è irrilevante, perché si tratterebbe comunque di ripensamenti del drammaturgo, fenomeno molto comune nella storia della scrittura teatrale. Lo stesso si può ritenere con relativa sicurezza per i testi che stanno alla base del cosiddetto teatro sacro medievale, sia perché quei testi vengono direttamente dalle Sacre Scritture, e dunque sono per definizione non modificabili nella loro sostanza, sia per la rigida supervisione che le gerarchie ecclesiastiche esercitano nella preparazione degli eventi, che devono avere soprattutto una funzione pedagogica per gli spettatori-fedeli.
Quando poi, nel Quattro e Cinquecento, nel contesto della cultura umanistica e rinascimentale, lo spettacolo si laicizza, sono ugualmente improbabili le manipolazioni del testo, visto che Ariosto o Machiavelli o Ruzante sono insieme autori delle commedie e allestitori dell’evento. E anche quando la competenza della realizzazione dello spettacolo passa in altre mani, il confronto col drammaturgo è semmai sui modi della messa in scena più che sul rispetto del testo, che è dato per scontato. Citiamo ad esempio l’episodio del contrasto tra l’apparatore Ippolito Calandra e lo scenografo, che pure è il grande pittore e architetto Giulio Romano, per la rappresentazione della Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena a Mantova nel 1532. Calandra si lamenta delle ingerenze di Giulio Romano con una lettera indirizzata direttamente al duca Federico Gonzaga: «Io credo bene quanto sia per le fabriche et disegni m. Julio se intenda meglio di me, ma quanto sia per governare la comedia et dire quelli li bisogna, se intende poco alle ragione ch’io li ho ditto che lui non vole capire». La controversia è su una questione tecnica di messa in scena, perché lo scenografo vorrebbe addossare la scena a un muro vero, anziché «di asse che faria più bello vedere con le sue case di relevo como altre volte è stata fatta», con la conseguenza che gli attori avrebbero avuto più difficoltà a sentire i suggeritori e dunque la comprensione del testo ne avrebbe sofferto.
È dall’affermarsi della commedia dell’arte, solo qualche decennio più tardi, che la questione muta radicalmente. Ma non perché la commedia dell’arte si basi esclusivamente sull’improvvisazione degli attori, visione mitica del fenomeno che la storiografia ha ormai abbandonato, piuttosto perché i comici sono attori ad ampio raggio d’azione ed è tutt’altro che raro che rappresentino fedelmente le commedie regolari, interamente scritte, sia di autori-letterati che degli stessi capocomici. E poi perché testi scritti a monte dello spettacolo sono ampiamente utilizzati dai comici dell’arte anche nelle commedie cosiddette “all’improvviso”. E non si tratta solo dei canovacci che definiscono la trama della vicenda da rappresentare, quanto piuttosto dei lazzi, ossia le gag comiche, e soprattutto dei generici, interi blocchi di testo mandati a memoria per gli snodi cruciali della storia (che so, la dichiarazione d’amore del giovane innamorato o la scenata di gelosia dell’innamorata o gli sproloqui pseudo-scientifici del dottore). Anche tenendo conto di queste revisioni storiografiche, resta comunque evidente che nelle commedie all’improvviso è affidata all’azione degli attori sulla scena una centralità che esplicitamente non prevede una dipendenza dal testo scritto. In questo caso comunque la questione è alla fine poco rilevante, perché a monte di questo lavoro scenico non c’è un testo scritto “d’autore” da rispettare o da trasgredire.
Molto più interessante per il nostro discorso è il caso dei grandi autori che in qualche modo fondano il teatro moderno, come Shakespeare o Molière. In entrambi i casi si tratta, come per i grandi drammaturghi dell’antichità, di autori che allestiscono direttamente le proprie opere (e nel caso di Molière anche le interpretano). E in entrambi i casi gli studi ci testimoniano che il rapporto tra scrittura e messa in scena è sostanzialmente differente da quello a cui siamo abituati a pensare, che viene da modelli di epoche successive. Per Shakespeare e Molière, tra fine Cinquecento e primi decenni dei Seicento, il testo non è tanto un’opera letteraria, definitivamente consegnata alla scrittura, quanto piuttosto un copione per lo spettacolo. Perché è lo spettacolo che costituisce la vera priorità, per degli autori che sono impresari di se stessi e che dallo spettacolo e non dal testo ricevono sostentamento economico e gratificazione sociale. Questo porta come conseguenza operativa a una scrittura molto veloce, in sostanza provvisoria, che deve trovare la sua verifica nello spettacolo. Nella sua dimensione di copione, alla prova del palcoscenico, il testo è dunque modificabile, manipolabile, esattamente come avviene per tanti autori-attori contemporanei, da Eduardo De Filippo a Dario Fo, per restare solo nella drammaturgia italiana.
Del resto, basterebbe pensare agli enormi problemi che pone la filologia dei testi shakespeariani, mai pubblicati dall’autore come opere letterarie. Perché Shakespeare si vuole letterato e poeta quando pubblica i sonetti, ma non concede la medesima stabilità formale ai suoi testi teatrali, che intende come una sorta di semilavorato, come materiale da utilizzare per il fine ultimo del suo lavoro, costituito dallo spettacolo. Posizione nella sostanza analoga a quella di Molière, che non a caso tanto deve alla lezione delle compagnie dei comici dell’arte italiani emigrati a Parigi, con i quali condivide per molto tempo anche la sala teatrale. Il metodo della scrittura veloce e provvisoria, da mettere alla prova sul palcoscenico, è del resto un tratto comune, anche se con modalità differenti, a tanti grandi autori di questo straordinario momento della storia del teatro, diciamo dalla metà del Cinquecento a poco oltre la metà del Seicento, che vede all’opera le compagnie della commedia dell’arte che partendo dall’Italia si spargono in tutta Europa, la grande stagione del teatro elisabettiano in Inghilterra, il genio di Molière in Francia, il fermento del cosiddetto Secolo d’oro in Spagna, con autori imprescindibili come Tirso de Molina, Lope de Vega o Calderón de la Barca.
È l’epoca successiva, quella settecentesca e soprattutto ottocentesca, che chiede al testo teatrale una maggiore stabilità di opera letteraria e introduce il tema del rispetto di quest’opera da parte degli allestitori. Questa nuova stagione del rapporto tra testo e scena è determinata, o quantomeno favorita, dalla sostanziale separazione della funzione del drammaturgo da quella dell’allestitore dello spettacolo, anche se la figura dell’autore che sovrintende alla messa in scena delle sue opere si trova ancora nella seconda metà del Settecento, ad esempio con Carlo Goldoni, e anche in epoca successiva. Ma in generale l’autore è ormai un letterato in senso pieno, che spesso scrive i suoi testi a prescindere da una rappresentazione che sarà prevalentemente affidata ad altre mani. È per questa ragione che nei testi della drammaturgia settecentesca e con frequenza sempre maggiore in quella ottocentesca e novecentesca compare un espediente di scrittura che non trova riscontri se non minimali nelle epoche precedenti, ossia la didascalia.
Non c’è quasi traccia di didascalie, se non per le interpolazioni degli editori moderni, nei testi del teatro antico o in quelli di Shakespeare, e pochissime se ne trovano, riferite per lo più alle modalità di porgere le battute, in Molière o in Calderón o in Marivaux, nel primo Settecento francese. Già se ne trovano di più accurate, riferite anche all’ambientazione e alla gestualità degli attori, in Goldoni o in Beaumarchais, nel secondo Settecento, quasi a certificare la necessità per il drammaturgo di iscrivere dentro al proprio testo anche le indicazioni per i futuri allestitori, che non potrà controllare direttamente. Del resto è stato Denis Diderot, uno dei curatori della grande Enciclopedia illuminista, che è anche tra i principali teorici del nuovo teatro borghese, a raccomandare l’attenzione alla «pantomima muta», ossia all’azione che deve essere imposta anche agli attori non impegnati con le battute. Beaumarchais, nel Barbiere di Siviglia, rappresentato nel 1773, ad esempio prescrive in didascalia (II, 5): «Durante tutta questa scena, il Conte fa ciò che può per parlare a Rosina, ma l’occhio inquieto e vigilante del tutore glielo impedisce sempre: ciò che forma un gioco muto di tutti gli attori, estraneo alla discussione tra Bartolo e Figaro» (trad. A. Calzolari).
Didascalie così esplicitamente prescrittive sono una novità. Tuttavia questa pratica di scrittura assume un ruolo fondamentale soprattutto a partire dall’Ottocento, ossia da quando è definitivamente compiuta la scissione tra le figure professionali del drammaturgo e dell’allestitore di spettacoli, il metteur en scène. È in questo contesto che il drammaturgo, cosciente dell’importanza crescente della messa in scena per il successo dell’opera, cerca in ogni modo di condizionare chi si occuperà della realizzazione scenica, iscrivendo nel testo precise indicazioni per la scenografia, i costumi, i movimenti degli attori, le espressioni, i gesti, le intonazioni... E non è un caso che i riscontri più precisi di questo procedimento si possano trovare negli autori del romanticismo francese, nella prima metà dell’Ottocento, ossia in una civiltà teatrale che ha da poco premiato con un grande favore di pubblico un fenomeno come il mélo, il cui successo è stato determinato dalla ricchezza dell’apparato spettacolare e non certo dalla consistenza dei testi rappresentati.
Così Victor Hugo, ad esempio, sovrintende personalmente alla messa in scena delle proprie opere, scrive lunghe prefazioni illustrative e soprattutto inserisce ampie e dettagliate didascalie, nel tentativo di prescrivere anche i modi della messa in scena. Basterebbe ricordare la lunga didascalia d’apertura di Ernani, del 1830, con la puntigliosa descrizione del costume di Don Carlos, «magnificamente vestito in un abito di seta e velluto, alla moda castigliana del 1519», non un anno di più né un anno di meno. Oppure l’altrettanto precisa didascalia che apre il primo atto di Il re si diverte, del 1832, che prescrive addirittura che il re appaia «come è stato raffigurato da Tiziano» in un quadro che si trova al Louvre. O ancora la lunghissima didascalia iniziale di Ruy Blas, del 1838, tanto dettagliata che non è nemmeno possibile trascriverla per intero:
Il salone di Danae nel palazzo reale a Madrid. Magnifici mobili di gusto fiammingo, che risalgono all’epoca di Filippo IV. A sinistra grande finestra dal telaio dorato, a piccoli riquadri. Da entrambi i lati una porta bassa, su pareti trasversali, dà negli appartamenti interni. Sul fondo una vetrata a riquadri dorati [...]. Dalla porticina a sinistra entra Don Sallustio, seguito da Ruy Blas e da Gudiel che trasporta un cofanetto e parecchi involti che fanno pensare a preparativi di viaggio. Don Sallustio sfoggia una veste di velluto nero, un abito cortigiano di moda all’epoca di Carlo II. Al collo porta il toson d’oro. Sopra il severo abito nero indossa un ricco mantello di velluto verde chiaro ricamato d’oro e foderato di raso nero. La sua spada è sormontata da un’elsa imponente. Il cappello è adorno di piume bianche [...] (trad. E. Groppali).
Questa ansia del drammaturgo di prescrivere, attraverso le didascalie, una attività di messa in scena che non rientra più nelle sue funzioni prosegue poi in maniera massiccia nel dramma borghese di fine Ottocento. Ad esempio, con la descrizione di quella «stanza accogliente e piena di gusto, ma arredata senza lusso» che fa da scenografia a Una casa di bambola di Henrik Ibsen, del 1879: pianoforte, tavolo rotondo con poltrone, sofà, stufa di maiolica, poltrone, sedia a dondolo e poi «una étagère con oggetti di porcellana e altri ninnoli artistici; una piccola biblioteca con libri rilegati splendidamente. Tappeto sul pavimento; fuoco nella stufa» (trad. R. Alonge). Oppure quel giardino del primo atto di Zio Vanja di Chechov, del 1896, con la tavola apparecchiata sotto un vecchio pioppo, una chitarra su una panchina, un’altalena e un personaggio descritto anche nel suo aspetto fisico: «Marina (una vecchietta eccessivamente ingrassata dall’età e che ha difficoltà a camminare) siede vicino al samovar, sferruzza una calza» (trad. G. Guerrieri).
Anche nel Novecento la didascalia minuziosa, di lunghezza crescente, sarà sempre più usata dai drammaturghi-autori, qualche volta per completare letterariamente il testo, come spesso avviene con Gabriele D’Annunzio ad esempio, oppure, più frequentemente, per neutralizzare eventuali incomprensioni e pretendere fedeltà al mondo poetico dell’autore. È il caso di Pirandello, dichiaratamente sospettoso nei confronti della materialità della scena, sentita come degradante e impoverente rispetto all’universo ideale e perfetto immaginato dal drammaturgo. Si pensi ad esempio alle lunghissime didascalie della sua opera più famosa, Sei personaggi in cerca d’autore, specie quella che precede l’arrivo dei Personaggi, nella quale l’autore dispensa i suoi «suggerimenti» a «chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia». E i suggerimenti si spingono fino a indicare la colorazione della luce, l’uso di maschere dettagliatamente descritte, la disposizione di Attori e Personaggi sul palcoscenico, con la specificazione che «la disposizione degli uni e degli altri, indicata nelle didascalie, allorché quelli [i Personaggi] saliranno sul palcoscenico, gioverà senza dubbio». In questo caso estremo la didascalia fa talmente corpo col testo che l’autore può permettersi addirittura di segnalarla all’attenzione del futuro allestitore («la disposizione [...] indicata nelle didascalie»).
Nella seconda parte del Novecento l’invadenza della didascalia non cessa, ma in certo senso perde la sua centralità teorica, la sua funzione di epicentro dello scontro tra un drammaturgo che vuole imporre la propria egemonia anche sulla scena e una scena che rivendica la propria autonomia. Quella battaglia il drammaturgo l’ha persa, nella sostanza, perché da tempo è acquisita la consapevolezza dell’autonomia del lavoro scenico, di quella che viene ormai definita la scrittura di scena, proprio per contrapporla alla scrittura letteraria. Per questo, di fronte a tanti autori che continuano a utilizzare la didascalia pres...
Indice dei contenuti
- — dedica
- Premessa
- I. La prima lezione di teatro
- II. Il teatro che abbiamo in testa
- III. Teatro e spettacolo: ipotesi di definizione
- IV. Il teatro e il mondo
- V. Lo spazio e il tempo
- VI. Lo spettacolo
- VII. L’attore e lo spettatore
- Nota bibliografica