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La cultura nell'età dei consumi

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  2. Italian
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La cultura nell'età dei consumi

Informazioni su questo libro

Durata, universalità, misteriosa refrattarietà a un fine pratico. Ecco tre prerogative della bellezza artistica di cui il mondo 2.0 vorrebbe sbarazzarsi. Ma se la cultura è solo la cresta dell'onda nell'oceano globalizzato, cosa si muove sotto i consumi usa e getta di quella che possiamo definire iCulture?Un'opera intelligente e utile a chi (usando a propria insaputa la cultura come foglia di fico) vuol farsi mettere un po' in crisi.Nicola Lagioia, «la Repubblica»

Questo libro è la summa della riflessione di Bauman su come sia cambiata la cultura nella società liquida: non più agente di progresso, ma supermarket nel quale l'uomo di cultura si trasforma in cliente onnivoro. E se il massimo dello snob era, un tempo, arricciare il naso davanti alle forme giudicate minori, ora al contrario l'élite colta si distingue per la capacità di digerire tutto, per «la negazione ostentata dello snobismo».Simonetta Fiori, «la Repubblica»

La cultura contemporanea è plasmata per adeguarsi alla libertà individuale. La responsabilità della scelta e le sue conseguenze restano là dove la condizione umana liquido-moderna le ha poste: sulle spalle dell'individuo, adesso chiamato al ruolo di amministratore capo della 'politica della vita' e suo unico funzionario.

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Informazioni

1.
La cultura.
Storia del concetto

Un’indagine condotta da un gruppo di ricercatori sotto la guida dell’illustre sociologo di Oxford John Goldthorpe in Gran Bretagna, Cile, Ungheria, Israele e Olanda, ci dice che al giorno d’oggi non è più tanto facile distinguere una élite culturale da quelli che si trovano più in basso nella gerarchia culturale sulla base di vecchi indicatori, come ad esempio la presenza assidua ad opere e concerti, l’entusiasmo per tutto ciò che è considerato «arte alta» in un determinato momento, e l’abitudine di storcere il naso nei confronti di «tutto ciò che piace alla massa, come una canzone pop o la televisione popolare». Con questo non si vuol dire affatto che non esistano più soggetti che vengono considerati (non da ultimo da sé stessi) come élite culturale, veri appassionati d’arte, persone meglio informate rispetto ai loro pari meno colti su che cosa rientri nell’ambito della cultura, in che cosa consista e che cosa sia comme il faut o comme il ne faut pas (appropriato o inappropriato) per un uomo o una donna di cultura. Solo che, a differenza delle élite culturali di un recente passato, essi non sono ‘intenditori’ nel senso stretto del termine, non possono guardare dall’alto in basso il gusto dell’uomo comune o l’assenza di gusto dei filistei. È più giusto descriverli piuttosto – per usare il termine coniato da Richard A. Peterson della Vanderbilt University – come degli «onnivori»: nel repertorio del loro consumo culturale c’è spazio tanto per l’opera quanto per l’heavy metal o il punk, per l’«arte alta» come per la televisione popolare, per Samuel Beckett come per Terry Pratchett. Un boccone di qua, un morso di là, oggi questo e domani qualcos’altro: un misto... secondo Stephen Fry, che è un’autorità nel campo delle tendenze alla moda e astro splendente della più esclusiva società londinese (nonché star di alcuni dei più popolari programmi televisivi). Egli ammette tranquillamente:
beh, la gente può andare matta per tutto quel che è digitale ma continuare a leggere libri. Può andare all’opera e guardare una partita di cricket o prenotare dei biglietti per i Led Zeppelin senza diventare schizzata... Ti piace la cucina thailandese? E che c’è che non va in quella italiana? Ehi, un momento... calma. Mi piacciono tutte e due. Sì, si può fare. Mi possono piacere il rugby e i musical di Stephen Sondheim, l’alto gotico vittoriano e le installazioni di Damien Hirst. I Tijuana Brass di Herb Alpert e le opere per pianoforte di Hindemith. Gli inni sacri inglesi e Richard Dawkins. Le prime edizioni di Norman Douglas e l’iPod, il biliardo, le freccette, il balletto...
O, come si espresse Peterson nel 2005, riassumendo vent’anni di ricerca: «Stiamo assistendo a uno slittamento nella politica di status dei gruppi d’élite: dagli intellettuali che snobbano sdegnosi tutta la cultura popolare bassa, volgare o di massa (...) a quegli intellettuali che consumano in modo onnivoro un ampio spettro di forme artistiche, popolari e colte»1. In altre parole, non c’è prodotto di cultura che mi sia estraneo. Non mi identifico con nessuno di essi al cento per cento, in modo totale e assoluto, e certamente non al prezzo di negarmi altri piaceri. Mi sento di casa dappertutto, nonostante non ci sia un posto (o forse proprio perché non c’è un posto) che io possa chiamare casa. Non è tanto questione di scontro tra un gusto (raffinato) e un altro (volgare), quanto tra l’essere onnivori e l’essere univori, tra la disponibilità a consumare tutto e la selettività schizzinosa. L’élite culturale è viva e vegeta; è più attiva e appassionata che mai. Ma è troppo impegnata a inseguire il gran colpo e altri eventi famosi collegati alla cultura per trovare il tempo di formulare canoni di fede o per convertire ad essi gli altri.
A parte il principio di ‘non essere schizzinosi, non fare i difficili’ e quello di ‘consumare di più’, non ha niente da dire alla folla univora che sta nella parte più bassa della gerarchia culturale.
Eppure, come affermava Pierre Bourdieu solo pochi decenni fa, ogni offerta artistica si rivolgeva di solito a una specifica classe sociale e solo a quella classe – ed era accolta soltanto, o in primo luogo, da quella classe. Il triplice effetto di quelle offerte artistiche – definizione della classe, segregazione della classe e manifestazione dell’appartenenza alla classe – era, secondo Bourdieu, la loro essenziale ragion d’essere, la più importante delle loro funzioni sociali, forse persino il loro scopo nascosto, se non anche manifesto.
Secondo Bourdieu, le opere d’arte concepite per il consumo estetico rivelavano, segnalavano e proteggevano le divisioni di classe, evidenziando in modo leggibile e rafforzando i confini tra le classi. Per segnare in maniera inequivocabile i confini e per proteggerli efficacemente, tutti gli objets d’art, o almeno una significativa maggioranza, dovevano essere assegnati ad ambienti che si escludevano a vicenda: ambienti i cui contenuti non andavano mischiati, esaltati o posseduti simultaneamente.
Quel che contava non erano tanto i loro contenuti o le loro qualità intrinseche, quanto le loro differenze, la loro reciproca incompatibilità e il bando di qualsiasi conciliazione tra di essi, presentati erroneamente come espressione della loro intrinseca e immanente resistenza alle relazioni morganatiche. C’erano gusti dell’élite, ‘cultura alta’ per natura; gusti medi o conformisti, tipici della classe media; e gusti ‘volgari’, adorati dalle classi inferiori – e mescolarli fra loro era difficile come mescolare fuoco e acqua. Può darsi che la natura aborra il vuoto, ma di sicuro la cultura non tollera mescolanze. In La distinzione, Bourdieu presentava la cultura soprattutto come un utile strumento, utilizzato consapevolmente per marcare le differenze di classe e salvaguardarle: come una tecnica inventata per la creazione e la protezione di divisioni di classe e gerarchie sociali2.
La cultura, in poche parole, era presentata un po’ come l’aveva descritta un secolo prima Oscar Wilde: «Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono i colti (...). Essi sono gli eletti per i quali le cose belle significano unicamente bellezza»3. «Gli eletti», i prescelti, ossia coloro che cantano la gloria dei valori che essi stessi sostengono, e che al contempo sono sicuri della loro propria vittoria nel concorso canoro. Inevitabilmente essi troveranno bei significati nella bellezza, visto che sono loro a decidere cosa sia la bellezza. Già prima che la ricerca della bellezza iniziasse, chi, se non i prescelti, ha deciso dove cercare quella bellezza? (all’opera e non nelle music hall o sui banchi del mercato; nelle gallerie e non sui muri della città o nelle stampe a buon mercato che ornano le case dei lavoratori o dei contadini; nei volumi rilegati in pelle e non sulle riviste o nelle pubblicazioni da quattro soldi). I prescelti non sono scelti in forza della loro capacità di riconoscere ciò che è bello, ma al contrario in forza del fatto che la dichiarazione «questo è bello» diventa vincolante proprio perché pronunciata da loro e confermata dalle loro azioni...
Sigmund Freud riteneva che la conoscenza estetica vada vanamente alla ricerca dell’essenza, della natura e delle fonti della bellezza, delle sue qualità immanenti, per così dire immanenti – e tenda a nascondere la propria ignoranza in un fiume di pronunciamenti altisonanti e sussiegosi, ma in definitiva vuoti. «L’utilità della bellezza non è evidente», decreta Freud, «che sia necessaria alla civiltà non risulta a prima vista, eppure la civiltà non potrebbe farne a meno»4.
D’altro canto, però, come presupposto da Bourdieu, la bellezza offre benefici e di essa c’è bisogno. Per quanto tali benefici non siano «disinteressati», come suggerisce Kant, nondimeno di benefici si tratta; e se pure il bisogno non è necessariamente culturale, è tuttavia un bisogno sociale. Ed è molto probabile che sia i benefici che se ne ricavano sia il bisogno di distinguere la bellezza dalla bruttezza, ovvero la raffinatezza dalla volgarità, dureranno fin tanto che ci sarà il bisogno e il desiderio di distinguere l’alta società dalla bassa società, e l’intenditore di gusti raffinati dalle volgari masse prive di gusto, dalla plebe e dalla gentaglia...
Se si considerano con attenzione queste descrizioni e interpretazioni appare chiaro che per i loro autori la ‘cultura’ (un insieme di preferenze suggerite, raccomandate e imposte in ragione della loro correttezza, bontà e bellezza) era prima di tutto e in ultima analisi una forza ‘socialmente conservatrice’. Per svolgere con efficacia questa funzione, la cultura doveva realizzare con uguale impegno due operazioni apparentemente contraddittorie. Doveva essere enfatica, severa e intransigente sia nelle sue approvazioni sia nelle sue disapprovazioni, nel concedere biglietti d’ingresso e nel rifiutarli, nell’offrire cittadinanza o nel negarla. Oltre a individuare ciò che era desiderabile e commendevole in quanto corrispondente a comme il faut – familiare e confortevole –, la cultura aveva bisogno di etichette per indicare ciò di cui si doveva diffidare, ciò che doveva essere evitato a motivo della sua bassezza e della minaccia che nascondeva: segnacoli che avvisassero, come sui bordi delle antiche mappe, che hic sunt leones, ‘qui ci sono leoni’. La cultura doveva comportarsi proprio come il naufrago della storiella inglese – all’apparenza umoristica ma dall’intento moralistico – che dovette costruire tre abitazioni sull’isola deserta dove aveva fatto naufragio per sentirsi a casa, cioè per acquisire un’identità e difenderla efficacemente: la prima abitazione doveva servire come sua dimora privata, la seconda era il club che egli frequentava tutti i sabati, e la terza aveva l’unica funzione di rappresentare il luogo in cui il naufrago non doveva mai mettere piede durante tutti i lunghi anni che avrebbe trascorso sull’isola.
Quando fu pubblicato, oltre trent’anni fa, il libro di Bourdieu rovesciò l’originario concetto di ‘cultura’, nato con l’illuminismo e poi trasmesso di generazione in generazione. Il significato di cultura scoperto, definito e documentato da Bourdieu era lontanissimo dal concetto di ‘cultura’ fabbricato e introdotto nel discorso comune nel terzo quarto del diciottesimo secolo, quasi in contemporanea con il concetto inglese di refinement e quello tedesco di Bildung.
Secondo il suo significato originario, la ‘cultura’ doveva funzionare come agente di cambiamento e non di preservazione dello status quo. O più precisamente, doveva essere uno strumento di navigazione per pilotare l’evoluzione sociale verso una condizione umana universale. Lo scopo iniziale del concetto di ‘cultura’ non era quello di servire da registro di descrizioni, inventari e codificazioni della situazione prevalente, ma piuttosto di fissare una meta e una direzione per gli sforzi futuri. Il nome ‘cultura’ venne assegnato a una missione di proselitismo progettata e intrapresa nella forma di tentativi di educare le masse e di raffinarne i costumi, facendo così progredire la società e facendo avanzare ‘il popolo’ (ossia, coloro che stavano negli ‘strati bassi della società’) verso chi stava in cima. La ‘cultura’ veniva paragonata a un ‘raggio di luce’ che doveva penetrare sotto i tetti delle case di città e campagna e negli oscuri recessi del pregiudizio e della superstizione che, come tanti vampiri (secondo quanto si riteneva), non sarebbero sopravvissuti all’esposizione alla luce del giorno. Secondo le parole appassionatee di Matthew Arnold nel suo libro, molto influente e non a caso intitolato Cultura e anarchia (1869), la ‘cultura’ «cerca di farla finita con le classi, di far circolare dappertutto quanto di meglio sia stato pensato e conosciuto nel mondo, di far vivere tutti gli uomini in un’atmosfera di gentilezza e luce»; e ancora, come si esprime sempre Arnold nell’introduzione a Letteratura e dogma (1873), la cultura è la miscela dei sogni e desideri degli uomini con le fatiche di coloro che vogliono e sono in grado di soddisfarli: «la cultura è la passione per la gentilezza e la luce, nonché (cosa più importante) la passione che punta a farle prevalere».
Il termine ‘cultura’ è entrato nel vocabolario moderno come una dichiarazione d’intenti, come il nome di una missione ancora da intraprendere. Già di per sé il concetto di cultura era un motto e una chiamata all’azione. Come il concetto che fornì la metafora per descrivere tale intento (ossia il concetto di ‘agricoltura’, che associava i coltivatori ai campi che coltivavano), si trattava di un richiamo ad aratori e seminatori perché dissodassero e seminassero le terre spoglie ed arricchissero i raccolti mediante la coltivazione (anche Cicerone usava questa metafora là dove descriveva la formazione dei giovani con l’espressione cultura animi). Il concetto dava per scontata una divisione tra i relativamente pochi educatori, chiamati a coltivare le anime, e i molti che dovevano essere oggetto della coltivazione: i guardiani e i guardati, i controllori e i controllati, gli educatori e gli educati, i produttori e i loro prodotti, soggetti e oggetti – e l’incontro che doveva avvenire tra loro.
La ‘cultura’ comportava un accordo programmato e atteso tra coloro che possedevano la conoscenza (o quanto meno presumevano di possederla) e gli ignorantoni (o quelli così descritti da quanti erano convinti di avere i titoli per educarli); un accordo, sia detto per inciso, che recava una sola firma, stabilito unilateralmente, e realizzato sotto la direzione esclusiva dell’appena formata ‘classe colta’, che accampava il diritto di plasmare il ‘nuovo e più avanzato’ ordine che stava nascendo dalle ceneri dell’antico regime. L’obiettivo dichiarato di questa classe era l’educazione, l’illuminazione, l’elevazione e la nobilitazione del peuple, cioè di soggetti da poco assurti al ruolo di citoyens nell’état-nation di recente formazione: l’obiettivo di abbinare la neo­nata nazione che si elevava al rango di Stato sovrano, con il nuovo Stato che aspirava al ruolo di fiduciario, difensore e guardiano della stessa nazione.
Il ‘progetto illuministico’ dava alla cultura (intesa come attività paragonabile alla coltivazione della terra) lo status di strumento basilare per la costruzione della nazione, dello Stato e dello Stato-nazione, e insieme affidava questo strumento nelle mani della classe colta. Nel suo ondeggiare tra ambizioni politiche e deliberazioni filosofiche, la doppia meta dell’impresa illuministica si era rapidamente cristallizzata (per esplicita proclamazione o per tacita accettazione) nel duplice postulato dell’obbedienza di sudditi e di solidarietà tra connazionali.
La crescita del ‘volgo’ aggiungeva fiducia in sé stesso allo Stato-nazione che andava formandosi, perché c’era la convinzione che l’aumento del numero di potenziali lavoratori-soldati ne accresceva la potenza e ne garantiva la sicurezza. Ma, poiché lo sforzo combinato della costruzione della nazione e della crescita economica sfociò anche in una crescente sovrabbondanza di individui (in sostanza, intere categorie della popolazione dovevano essere relegate in discarica se si voleva che l’ordine desiderato nascesse e si consolidasse, e che la creazione di ricchezza accelerasse il suo ritmo), lo Stato-nazione appena nato si trovò presto di fronte all’urgente bisogno di cercare nuovi territori al di là dei propri confini: territori capaci di assorbire l’eccedenza di popolazione che esso non era più in grado di sistemare al proprio interno.
La prospettiva di colonizzare domini lontani si dimostrò un potente stimolo all’idea illuministica di cultura e diede alla missione proselitista una dimensione del tutto nuova, potenzialmente mondiale. Specularmente alla concezione di una ‘illuminazione del popolo’ vennero plasmati i concetti della ‘missione dell’uomo bianco’ e del ‘salvare i selvaggi dal loro stato di barbarie’. Ben presto questi concetti sarebbero stati dotati di un apparato teorico sotto forma di una teoria culturale evoluzionistica che promuoveva il mondo ‘sviluppato’ al rango di perfezione indiscutibile, che il resto del globo prima o poi avrebbe imitato e cui avrebbe aspirato. Il resto del mondo doveva essere attivamente aiutato nel perseguimento di questa meta e, in caso di res...

Indice dei contenuti

  1. 1. La cultura. Storia del concetto
  2. 2. Moda, identità liquida e utopia per il presente: alcune tendenze culturali del ventunesimo secolo
  3. 3. La cultura dalla costruzione della nazione alla globalizzazione
  4. 4. La cultura in un mondo di diaspore
  5. 5. La cultura in un’Europa che si unisce
  6. 6. La cultura tra Stato e mercato