L'italiano. Parlare, scrivere, digitare
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L'italiano. Parlare, scrivere, digitare

Luca Serianni

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  1. 96 pagine
  2. Italian
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L'italiano. Parlare, scrivere, digitare

Luca Serianni

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Quali sono le dinamiche che attraversano la lingua parlata e quella scritta? Spesso si pensa che la seconda sia una semplice emanazione – più formale e impostata – della prima, dimenticando che buona parte delle lingue parlate nel mondo non ha mai avuto una forma scritta. E che dire di oggi, un'epoca in cui la sovrapposizione tra lingua parlata e scritta – pensiamo all'uso dei messaggini e dei social network – si è fatta evidente? È vero che il parlato in quanto codice primario ha ormai sporcato la limpidezza dello scritto? Attraverso resoconti storici, accenni teorici ed esempi di immediata comprensione, Luca Serianni guida il lettore in un viaggio attraverso le diverse forme che il testo scritto ha assunto nel tempo a seconda delle emozioni, delle informazioni, delle nozioni da veicolare. Un dialogo mai interrotto tra scrittura e oralità, che negli ultimi anni – come racconta Giuseppe Antonelli nella sua introduzione – ha dato vita all'e-taliano: l'italiano digitato delle nuove forme di comunicazione.

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Informazioni

Editore
Treccani
Anno
2019
ISBN
9788812007714
L’ITALIANO. PARLARE, SCRIVERE, DIGITARE
(2010)

SCRITTO E PARLATO

La scrittura è un codice secondario rispetto alla lingua parlata. Grazie alla paleontologia possiamo ipotizzare che l’acquisizione del linguaggio da parte dell’Homo sapiens sia di molto anteriore alle prime testimonianze scritte; ma in proposito basterebbe dare un’occhiata alla geografia delle lingue.
Delle migliaia di idiomi oggi esistenti nel mondo, la grande maggioranza non ha una tradizione scritta. È vero che il dato cambierebbe radicalmente guardando non all’inventario delle lingue, di per sé oltretutto incerto e oggetto di calcoli contrastanti, ma al più facilmente accertabile numero di parlanti. Emergerebbe allora che tutte le lingue parlate da gruppi consistenti di locutori (e non solo da poche centinaia o migliaia, come avviene per tanti idiomi dell’Oceania e dell’Africa minacciati dall’estinzione) sono anche scritte e spesso vantano una tradizione letteraria di antica data. Resta comunque il fatto che, fino alle soglie dell’età contemporanea, la condizione più frequente delle masse popolari, anche in Europa, ossia all’interno di lingue ampiamente usate scrivendo, era quella dell’analfabetismo.1
Nell’immaginario italiano, come avviene nelle altre lingue dette “di cultura”, il radicamento della scrittura è tale che non ci meraviglia sentire un oratore che, parlando di sé in terza persona, dica “il sottoscritto/la sottoscritta” (e non “chi vi parla”, che sarebbe avvertito come formale e sostenuto); e sono diverse le frasi idiomatiche che documentano la traslazione dalla scrittura al parlato: “mettere i puntini sulle i”, “proclamare a chiare lettere”, “non capirci un’acca” ecc.
Scritto e parlato presentano due differenze dovute alle diverse modalità di esecuzione:
a) Il parlato utilizza solo il canale fonico-acustico, lo scritto prevalentemente quello grafico-visivo. Anche lo scritto può essere letto ad alta voce, come avveniva nell’antichità e nel Medioevo,2 ma abitualmente viene recepito in modo endofasico, ossia attraverso una lettura mentale. Naturalmente esistono varie situazioni intermedie, definite in genere con l’etichetta “scritto-parlato”:3 per esempio, l’attore che recita una parte imparata a memoria, o anche il conferenziere che parla sulla base di un abbozzo scritto, completandolo e adattandolo all’uditorio.
b) Il parlato è una tipica comunicazione “in situazione”, cioè svolta in un dato contesto, e presuppone un emittente che si rivolge a uno o più destinatari, i quali possono interagire nel discorso, come avviene normalmente, oppure si limitano ad ascoltare (conferenza, omelia, lezione cosiddetta “frontale”). Lo scritto è solo eccezionalmente in situazione: per esempio quando, in una riunione, un partecipante, per non interrompere o per non farsi notare, allunga un appunto a un collega. Perlopiù si scrive a un destinatario distante; anche la lettera elettronica o il messaggio sul cellulare sono letti in differita, magari solo pochi secondi dopo l’emissione. Oppure si scrive a uno o più destinatari astratti e ideali: quelli, per esempio, che potrebbero essere interessati, in un futuro più o meno lontano, a un verbale di condominio, a una sentenza penale, a una ricerca di fisica delle particelle, a una poesia o a un romanzo.
Di qui, o soprattutto di qui, scaturiscono altri elementi distintivi:
c) Lo scritto è rigido e sequenziale e non offre la possibilità della retroazione (o feedback). In un dialogo chi parla ha sempre la possibilità di tener conto delle reazioni dell’interlocutore – interruzioni (“come dici?”, “e allora?”), mimica facciale – o anche della sua impassibilità, che verrebbe interpretata come espressione di disinteresse se non di ostilità. Nello scritto non si può intervenire in corso d’opera e, soprattutto rivolgendosi a un destinatario plurimo e indifferenziato, non si possono nemmeno immaginarne le possibili reazioni.
d) Lo scritto è fruibile liberamente dal destinatario, senza l’obbligo di svolgimento lineare proprio del parlato. In moltissimi casi non si legge per intero un testo, ma solo le parti che interessano (le controindicazioni nel foglietto illustrativo di un medicinale) o quelle che danno un’idea dell’insieme (il titolo e la conclusione di un articolo giornalistico, l’indice di un saggio ecc.).
e) Lo scritto è regolato e programmato, mentre il parlato in situazione è sempre in una certa misura “sporco” (rumori esterni alla conversazione, difetti di pronuncia o di esecuzione dei parlanti) e presenta un ineliminabile margine di ambiguità, sollecitando la cooperazione dell’ascoltatore: il parlato non distingue se si alluda a un insetto o alla capitale della Russia (perché non ha maiuscole e minuscole: “mosca/Mosca”); ai compagni di Biancaneve o a cose giudicate inutili, vane (perché non separa le parole grammaticali, come gli articoli, da quelle semanticamente piene: “i nani/inani”).
Delle tradizionali partizioni linguistico-grammaticali, la morfologia e la sintassi elementare sono condivise da scritto e parlato (“io avere fame” e “le vecchia signore”, con violazione della coniugazione verbale e dell’accordo aggettivo-sostantivo, sono comunque inaccettabili in italiano, indipendentemente dalla variabile diamesica); la sintassi superiore è caratteristica dello scritto o del parlato molto formale (risulterebbe affettata una subordinata concessiva in una banale frase quotidiana come “benché abbia sonno, non voglio andare a dormire”, invece della ben più appropriata coordinativa avversativa: “ho sonno, ma non voglio andare a dormire”); il lessico dello scritto è ricco, variato e presenta una distribuzione diversa di alcune parti del discorso (i nomi, per esempio, sono proporzionalmente più frequenti di quel che avviene nel parlato);4 infine la grafematica e la paragrafematica, ossia l’insieme dei segni e delle convenzioni grafiche diversi dai grafemi che compaiono nella pagina scritta (interpunzione, segni di accento e apostrofo, distinzione di maiuscole e minuscole, alternanza di tondo e corsivo ecc.), sono di esclusiva pertinenza dello scritto.
Dall’ultimo decennio del secolo scorso, la telematica ha fatto sentire i suoi effetti anche nel dominio della scrittura. Si parla di «trasmesso scritto»5 in riferimento alla scrittura per la rete, alla posta elettronica (e-mail), ai vari Internet relay chat (Irc), alla messaggeria elettronica (sms, short message system). Ciò ha comportato non solo un certo ibridismo di tratti tipicamente scritti e tipicamente orali, ma anche l’apertura alla prospettiva ipertestuale, che è stata giudicata non a torto rivoluzionaria: «La creazione di testi discontinui, frazionati, cioè, in un numero variabile e potenzialmente infinito di unità informative connesse tra loro tramite collegamenti istituiti dall’autore e attivabili liberamente, nell’ordine preferito, dal lettore»,6 potrebbe portarci a mutare radicalmente la stessa nozione di testo scritto, come organismo in sé concluso e non modificabile, così come l’abbiamo appena definita.

LE CONVENZIONI OBBLIGATORIE DELLA SCRITTURA

Dei tratti linguistici esclusivi della scrittura, l’ortografia ha ormai raggiunto un forte grado di stabilizzazione. Oggi grafie latineggianti ancora diffuse nel XIX secolo come “imagine”, “abondare”, “commune” sarebbero considerate universalmente erronee. Sono da tempo codificate anche alcune incoerenze tra sistema grafico e sistema fonetico: la grafia “zi” + vocale (“azione”), a cui corrisponde nell’italiano normativo e nella parlata spontanea dalla Toscana in giù la pronuncia rafforzata dell’affricata [tːs]; l’uso superfluo della “i”, in casi come “scienza” /ˈʃεntsa/, per omaggio al latino, o “cielo” / ˈtʃεlo/, per evitare l’omografia con “celo” da “celare”. Ma sono ancora presenti oscillazioni, registrate dai dizionari («“effigie”, meno comune “effige”» ecc.).7 Non del tutto stabili neanche l’uso di “i” nel plurale delle parole uscenti al singolare in “-cia”, “-gia” con “i” atona, a seconda che la desinenza sia preceduta da una o da due consonanti (“valigie/facce”: la norma è puramente empirica), e nella prima persona plurale dei verbi con tema in nasale palatale (“bagniamo/bagnamo”; qui la “i”, superflua dal punto di vista fonetico, serve a ribadire graficamente la riconoscibilità della desinenza verbale “-iamo”). Va osservato che questi ultimi casi di oscillazione sono probabilmente destinati a scomparire grazie alla diffusione della videoscrittura, dal momento che i più diffusi correttori automatici correggono (o segnalano come erronee) le forme sconsigliate dalla tradizione grammaticale.
Abbastanza salde anche le norme che regolano l’uso di accenti e apostrofi: anche qui è indicativo l’intervento del correttore automatico che reprime grafie frequenti nell’uso scritto non sorvegliato come “fà”, “un pò”, “qual’è”. Vero è che nei messaggi sms la tecnologia T9, che permette di premere ogni tasto una sola volta grazie alla capacità del vocabolario in memoria di riconoscere le parole, «propone “pò” come prima scelta al posto di “po’” e, tra le scelte secondarie, altre grafie errate come “dò” e “sù”».8 Nell’accentazione dei monosillabi l’unica vera eccezione alla norma corrente, fondata sulla disambiguazione degli omonimi (“da” preposizione, “dà” voce verbale ecc.), è data dalla diffusa ma discutibile abitudine, promossa dalla pratica scolastica (non da grammatiche e dizionari), di privare dell’accento il pronome “sé” seguito da “stesso”.9 Non sempre rispettato, neanche nella grande stampa, l’obbligo di adoperare la “e” maiuscola accentata (“È”), non presente nella tastiera dei computer, che viene sciattamente surrogata da una “e” seguita da apostrofo (“E’”). La distinzione tra accento grave e acuto per la “e” aperta e chiusa è abbastanza rispettata nella stampa (ancora una volta grazie a...

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