Coaching e sviluppo delle soft skills
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Prendendo le mosse dalla classificazione delle competenze emotive di Daniel Goleman, l'autore propone una nuova classificazione delle competenze trasversali, che, oltre ad essere solidamente giustificata sul piano teorico, risulta facilmente comprensibile ed utilmente applicabile. La sua analisi è corredata da uno strumento per l'autovalutazione di tali competenze. L'autore illustra quindi i principi fondamentali del coaching, mostrando come tale disciplina sia più adatta, rispetto al training, per favorire lo sviluppo delle soft skills nelle dimensioni di base, che hanno radice nel carattere. Riporta stralci di sessioni di coaching che consentono di capire come i principi descritti vengono applicati alle situazioni concrete. Il libro si rivolge: a chi vuole sapere di più sulle soft skills e sul coaching; ai formatori; ai genitori e agli insegnanti che desiderano impostare la relazione educativa secondo lo stile del coaching. A questi ultimi viene fornito uno strumento diagnostico che consente loro di individuare le proprie aree di miglioramento e proporsi cambiamenti.

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Information

Publisher
La Scuola
Year
2014
Print ISBN
9788835036197
Parte prima
Le competenze trasversali e il loro sviluppo
Capitolo primo
Le competenze
1. Cosa sono le competenze
Il termine competenza, come è usato nel linguaggio comune, evoca un’abilità pratica consolidata con un prolungato esercizio, e al tempo stesso l’affidabilità che tale abilità genera negli altri: competente è qualcuno della cui abilità ci si puo fidare, perché “sa il fatto suo”.
Nella psicologia sociale il termine ha assunto un significato più specifico a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. L’origine di questa accezione del termine si deve allo psicologo del lavoro americano David McClelland, il quale pubblicò nel 1973 uno studio sulle relazioni fra quoziente intellettuale, risultati negli studi universitari e successo professionale1. Egli mise in evidenza che esiste una sproporzione fra quoziente intellettuale e risultati accademici da un lato, successo professionale dall’altro: succede, cioè, che una quota significativa di persone con alto qi e ottimi risultati accademici non abbia un alto livello di successo professionale. Riflettendo su questi dati, McClelland trasse la conclusione che il successo professionale è determinato, oltre che dal qi e dalla scienza acquisita negli studi, anche da altri fattori, che egli chiamò competenze.
Così inteso, il concetto di competenza comprendeva elementi di natura diversa: le conoscenze pratiche, le capacità di ordine tecnico, gli aspetti del carattere, le caratteristiche di natura fisica.
McClelland cominciò a catalogare, in relazione a mansioni e imprese determinate, costellazioni di competenze. Richard Boyatzis, suo collaboratore, ricercò gli elementi comuni alle costellazioni di competenze studiate, e nel 1981 giunse alla seguente definizione di competenza: «Una caratteristica intrinseca di un individuo causalmente collegata ad una perfomance efficace o superiore nella mansione, come ad esempio: motivazioni, tratti caratteriali, abilità, aspetti della propria immagine di sé, conoscenze»2. Con questa definizione la competenza cominciò a slegarsi da un contesto lavorativo specifico. Infatti Boyatzis individuò un nucleo di competenze trasversali che, in base ai suoi studi, tutti i manager eccellenti tendono ad avere, qualunque sia il loro contesto lavorativo.
Lungo gli anni si sono affermati significati sempre più limitati e precisi della competenza, nella misura in cui ci si è resi conto che una nozione troppo ampia e generica perdeva di utilità pratica3. In questa linea è stato decisivo lo studio di Charles Woodruffe, il quale nel 1993 definì le competenze come «quei comportamenti osservabili che contribuiscono al successo di un compito o funzione»4.
Il pregio di questa definizione è di aver ristretto l’ambito delle competenze, in base a tre criteri:
1. Le competenze sono comportamenti: perciò non rientrano nelle competenze le conoscenze, né i tratti della personalità, né le caratteristiche fisiche.
2. Deve trattarsi di comportamenti osservabili: pertanto misurabili, sia nel loro grado di sviluppo in un momento dato, sia nell’apprendimento e nella crescita.
3. Deve trattarsi di comportamenti che contribuiscono al successo di un compito o di una funzione: pertanto esse vanno identificate a partire dallo scopo pratico che ci si propone di realizzare.
Ipotizziamo, ad esempio, che io mi proponga di organizzare il servizio di centralino per una istituzione. Parto dal riflettere quali caratteristiche deve avere il servizio che voglio garantire all’utente. Dopo averle individuate, ne ricavo la mappa delle competenze del centralinista, al quale, ad esempio, valuto che vada richiesto di:
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Parlare con buona dizione l’italiano.
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Padroneggiare l’inglese.
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Essere cortese.
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Essere tenace nel cercare le persone cui diramare le telefonate, fino a trovarle.
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Interrompere, con buon senso, la ricerca dopo un certo tempo.
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Essere preciso, in tali casi, nel comunicare al destinatario il messaggio lasciato da chi lo ha cercato invano.
Ognuno dei comportamenti su descritti costituisce una competenza in relazione allo svolgimento del ruolo di centralinista così come io l’ho configurato.
La nozione di Woodruffe, che lega le competenze ai comportamenti e ne fa il collegamento fra le qualità personali e una specifica missione professionale, è rimasta fino ad oggi il punto di riferimento di una grande parte della psicologia del lavoro5. Esiste un’altra corrente che concepisce le competenze in modo svincolato dai comportamenti, come delle dimensioni interiori che si avvicinano alle attitudini, e si caratterizzano soprattutto per il legame fra l’aspetto cognitivo e l’aspetto pratico, inteso non solamente come l’abilità o saper fare, ma anche come il saper gestire opportunamente le proprie abilità in funzione di uno scopo6. Il modo di concepire le competenze è anche influenzato dai metodi di valutazione: ad esempio, gli assessment centers che operano attraverso test ed esercizi tendono a preferire una nozione puramente interiore della competenza7.
Nel prosieguo del libro non seguirò le vicende di questa corrente dottrinale, per utilizzare invece i progressi realizzati nella concezione delle competenze come comportamenti.
La nozione di Woodruffe venne completata nel 1999 da Pablo Cardona e Nuria Chinchilla, i quali aggiunsero ad essa l’elemento della abitualità: non costituiscono competenza i comportamenti sporadici, ma solo quelli abituali, cioè incorporati all’azione quotidiana della persona. Le competenze sono pertanto «quei comportamenti abituali e osservabili che contribuiscono al successo di un compito o di una funzione»8.
Questa aggiunta ha un grande valore sostanziale: affermare che la competenza è un insieme di comportamenti abituali permette di connettere le competenze con gli abiti, intesi come le qualità, consistenti nella facilità e prontezza ad agire secondo un certo fine, acquisite con la ripetizione volontaria di atti9. Dire “comportamenti abituali” equivale a dire “abiti comportamentali”. È lo stesso fenomeno considerato da due punti di vista: il primo, quello dei comportamenti, è esterno e osservabile; il secondo, quello dell’abito, è interiore alla persona. Tuttavia le due dimensioni, esterna e interna, coincidono, in quanto afferiscono allo stesso individuo. Pertanto lo sviluppo delle competenze significa l’acquisizione di nuovi abiti di comportamento.
La competenza, così concepita, risulta essere uno strumento utile per esprimere in modo concreto le qualità interiori della persona e per collegarle con la realizzazione di specifiche funzioni professionali.
La precisazione dell’abitualità, in aggiunta agli altri requisiti, permette di superare una contraddizione che il concetto di competenza avrebbe, se la si volesse ridurre al mero comportamento. Infatti il comportamento è unico solo se considerato nella concretezza dell’agire. Nel momento in cui me ne servo per definire una competenza, la definizione che ottengo è necessariamente astratta. Così, ad esempio, riferendomi all’esempio prima fatto, “essere cortese” non designa un solo comportamento, ma una pluralità di comportamenti possibili. Inoltre, per poter rispondere all’esigenza di “essere cortese” e dunque sapere come comportarsi, il centralinista avrà bisogno di comprendere cosa in astratto significa essere cortese. Il concetto di cortesia comporta una potenzialità di comportamenti che sono diversi in relazione ai contesti. Perciò la competenza ha in sé un significato astratto che è in contrasto col carattere concreto del comportamento fattuale. Il ricorso all’abito permette di superare questa contraddizione: una pluralità di comportamenti è possibile in quanto essi riflettono un medesimo abito, che, essendo una qualità interiore, è una potenzialità unica rispetto alle sue diverse attualizzazioni. Ciò spiega perché, una volta definita una competenza, sia possibile enucleare al suo interno singoli comportamenti, e che la competenza possa apparire perciò come un fascio di comportamenti. Questa precisazione è importante per l’aspetto dello sviluppo, in quanto, come vedremo10, è su comportamenti quanto più possibile specifici che ci si autovaluta e ci si esercita.
Sempre nel campo dello sviluppo delle competenze, il fatto che alla radice dei comportamenti vi siano abiti comportamentali spiega perché molti programmi di sviluppo abbiano effetti solo a brevissimo termine: il coinvolgimento emotivo dato dal programma11 riesce a indurre alcuni cambiamenti, ma l’acquisizione di nuovi abiti richiede, in realtà, un periodo di esercizio più lungo, che deve essere adeguatamente programmato e monitorato, pena il ritorno, una volta terminato il condizionamento positivo del programma, ai comportamenti abituali da cui si è partiti.
Di conseguenza l’espressione “abilità” (skill12), che nel linguaggio comune indica l’abito13, designa propriamente l’aspetto interiore della competenza, distinguendolo dall’aspetto del comportamento esteriore. L’espressione “competenza” accomuna invece i due aspetti, nella sintesi “comportamenti abituali = abiti comportamentali”. Essa ha dunque un significato più ampio di “abilità”. Quando parleremo, ad esempio, di soft skills, ci riferiremo alle competenze trasversali guardando esclusivamente agli abiti che sottostanno ai comportamenti. È ovvio, allora, che quando si parla di sviluppo delle competenze ci si riferisce in senso proprio alle abilità, giacché i comportamenti non si possono sviluppare (ma solo cambiare), e si utilizza il termine competenza per designare la parte attraverso il tutto.
2. Gli abiti comportamentali
Il concetto di abito proviene ...

Table of contents

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Colophon
  4. Prefazione
  5. Introduzione
  6. Parte prima: Le competenze trasversali e il loro sviluppo
  7. Parte seconda: Il coaching come strumento per lo sviluppo delle competenze trasversali
  8. Bibliografia
  9. Indice dei nomi
  10. Ringraziamenti
  11. Sommario
  12. Nella stessa collana
  13. Collana Didattica