Norma e normalità nei Disability Studies. Riflessioni e analisi critica per ripensare la disabilità
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Roberto Medeghini

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Norma e normalità nei Disability Studies. Riflessioni e analisi critica per ripensare la disabilità

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Il mondo in cui viviamo è fatto di norme: non esiste, probabilmente, un contesto o una dimensione della vita contemporanea che non ne sia informato e condizionato. Questo proietta l'esperienza e le percezioni di ognuno di noi in una rete di significati normativi da cui non si può prescindere, quasi fosse una condizione dalla quale è impossibile uscire, pena il collocarsi — o venire collocati — nel fuori norma. Il testo Norma e normalità nei Disability Studies entra in questa rete di significati, sottolineando l'esigenza di interrogarsi sul dispositivo della norma, sulla dicotomia normale/anormale e le ricadute di quest'ultima sulla costruzione della disabilità, nonché sulla vasta ed eterogenea categoria dei bisogni educativi speciali. I contributi internazionali presentati, seguiti da commentari che ne approfondiscono le implicazioni, offrono interpretazioni diverse (dal modello sociale della disabilità al sociocostruzionismo, dal poststrutturalismo alla pedagogia inclusiva), ma tutte riconducibili alla prospettiva dei Disability Studies. Si promuove quindi un confronto critico con il modello medico come fondamento delle concettualizzazioni relative al deficit e alle disabilità, prediligendo un approccio critico al linguaggio normativo e sociale del deficit per poi passare in rassegna le pratiche politiche, istituzionali e sociali che causano l'esclusione. Destinato a docenti e studiosi di pedagogia, psicologia, sociologia, filosofia, scienze giuridiche, semiologia, arte e letteratura, il volume intende proporre una riflessione trasversale e interdisciplinare che contribuisca a promuovere un'idea di differenze liberata dai dispositivi normativi che le negano o le definiscono e dalle relative definizioni che ne conseguono.

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Information

Year
2015
ISBN
9788859005889

1

Normalità, potere e cultura1

Lennard J. Davis
Viviamo in un mondo di norme. Ciascuno di noi cerca di essere normale — oppure di evitare in modo deliberato tale stato di normalità. Decidiamo che cosa la persona «normale» deve fare, pensare, guadagnare o consumare e classifichiamo la nostra intelligenza, il nostro livello di colesterolo, il peso, l’altezza, la tendenza sessuale e le dimensioni del corpo lungo una sorta di linea concettuale che va dal subnormale al superiore alla media. Mangiamo un minimo giornaliero bilanciato di vitamine e nutrienti, sulla base di ciò che un essere umano medio dovrebbe consumare. I nostri figli, nelle scuole, vengono graduati e testati per verificare se rientrano nella curva normale di apprendimento e di intelligenza. I dottori li misurano, li pesano e definiscono se sono sopra o sotto la media nelle curve dell’altezza e del peso. Probabilmente non esiste un campo della vita contemporanea in cui non sia stato calcolato un qualche modello di norma, valore intermedio o media.
Per concepire il corpo disabile, siamo costretti a ricondurre il nostro pensiero al concetto di norma e di corpo normale. Moltissimo di ciò che è stato scritto sulla disabilità ha posto l’accento sulla persona disabile quale oggetto di studio, come lo studio della razza lo ha posto sulla persona di colore. Ma, come hanno fatto gli studi accademici sulla razza, condotti di recente, che hanno rivolto la loro attenzione sulla pelle bianca e sull’intersezionalità, vorrei concentrarmi non tanto sulla costruzione della disabilità, quanto sull’istruzione della normalità. Faccio questo poiché il «problema» non è la persona con disabilità, ma il modo in cui quella normalità è costruita, in modo da creare il «problema» della persona disabile.
Un presupposto comune sarebbe quello per cui un qualche concetto di norma sia sempre esistito. In effetti, gli esseri umani sembrano avere un desiderio intrinseco di paragonare se stessi agli altri. Ma l’idea di una norma, più che una condizione della natura umana, è una caratteristica di un certo tipo di società. Lavori recenti condotti sugli antichi Greci, sull’Europa preindustriale e sulle comunità tribali, ad esempio, hanno indicato che la disabilità un tempo era considerata in modo molto diverso da quello che è in uso oggi. Come vedremo, il processo sociale della «disabilitazione» ha cominciato a essere messo in atto con l’avvento dell’era industriale e della serie di pratiche e discorsi che risultano legati alle nozioni di nazionalità, razza, genere, criminalità, orientamento sessuale, ecc. in voga nel tardo Diciottesimo e nel Diciannovesimo secolo.
Inizio la mia trattazione citando il fatto piuttosto significativo secondo cui tutta la costellazione di termini che descrivono questo concetto — «normale», «normalità», «norma», «media», «anormale» — sia entrata nelle lingue europee abbastanza tardi nella storia dell’umanità. Il termine normal («normale»), nel significato di «costitutivo, conforme, non deviante o diverso, tipo comune o standard, regolare, usuale», entra nella lingua inglese solo attorno al 1840 (in precedenza, lo stesso termine normal aveva il significato di perpendicular o «perpendicolare»; la squadra del carpentiere, detta in inglese norm, ne era la radice). Alla stessa maniera, il termine norm («norma») nel senso moderno è stato in uso nella lingua inglese dal 1855 circa e normality e normalcy («normalità») apparvero rispettivamente nel 1849 e 1857. Se le informazioni lessicografiche sono pertinenti, è possibile datare il raggiungimento di una consapevolezza dell’idea di «norma» nella lingua inglese al periodo tra il 1840 e il 1860.
Su questa linea, se riprendiamo il nostro presupposto di cui sopra circa l’universalità del concetto di norma, possiamo risalire al concetto che l’ha preceduto, che è quello di «ideale», con un termine che dalle nostre ricerche risale al Diciassettesimo secolo. Senza voler creare nella storia umana uno spartiacque che risulterebbe troppo semplicistico, possiamo tuttavia cercare di immaginare un mondo in cui il concetto di normalità non esiste e al suo posto esista, invece, quello di corpo ideale, esemplificato dalla tradizione degli dei (dai miti, nei quali il corpo degli dei è rappresentato). Questo corpo divino e ideale non è ottenibile dagli esseri umani. In questo caso la nozione di ideale implica che il corpo umano, come è rappresentato nell’arte e visualizzato nell’immaginazione, debba essere composto dalle parti ideali dei modelli viventi. Questi modelli, individualmente, non potranno mai personificare l’ideale, dal momento che un ideale per definizione non può essere reperito in questo mondo. Plinio ci dice che l’artista greco Zeusi cercò di dipingere Afrodite, la dea dell’amore, usando come modelle tutte le più belle donne di Crotone, in modo da scegliere in ciascuna la caratteristica o la parte del corpo ideale e combinarle tutte nella figura ideale della dea. Ad esempio, una giovinetta fornisce il viso e un’altra i seni. Ciò che voglio dire con questo, il punto focale, è che in una cultura che definisce una forma ideale di corpo, tutti i membri della popolazione si pongono al di sotto dell’ideale. Nessuna giovane donna di Crotone può rappresentare l’ideale. Per definizione, non si potrà mai trovare un corpo ideale. E immaginiamo che non vi sia una pressione sociale che imponga che la popolazione debba avere per forza un corpo che si conformi all’ideale.
Ma allora, se è vero che i concetti di norma o media sono entrati nella cultura europea, o almeno nelle lingue europee, solo con il Diciannovesimo secolo, è lecito chiedersi quale sia la causa di questa concettualizzazione. Uno dei campi più logici in cui cercare di capire concetti come «norma» e «media» è il ramo della conoscenza noto con il termine di statistica. A contribuire più di tutti all’imporsi di una nozione generalizzata di «normale» come imperativo fu lo studioso di statistica francese Adolphe Quételet (1796-1847). Egli notò che la «legge degli errori» sfruttata dagli astronomi per localizzare una stella tramite la mappatura di tutte le osservazioni, e quindi il calcolo della media degli errori, poteva essere applicata in modo invariato anche nella distribuzione di caratteristiche umane come l’altezza e il peso. In seguito, Quételet fece un altro passo in avanti, formulando il concetto di homme moyen o uomo medio. Quételet sosteneva che questo essere umano astratto rappresentasse la media di tutti gli attributi umani di un dato Paese. L’uomo medio di Quételet era una combinazione tra l’homme moyen physique e l’homme moyen morale, ossia un costrutto medio, sia fisicamente che moralmente.2
Sulla base di tale pensiero, quindi, la media, paradossalmente, diventa una sorta di ideale, ovvero una condizione altamente auspicabile. Come scriveva Quételet: «Un individuo che epitomasse in sé, in un dato momento, tutte le qualità dell’uomo medio, rappresenterebbe nell’insieme tutta la grandezza, la bellezza e la bontà di tale essere» (si veda Porter, 1986, p. 102). Inoltre, si deve osservare che l’intendimento dello studioso era quello secondo cui questa egemonia del «medio» dovesse applicarsi non solo alle qualità morali, ma anche a quelle del corpo. Scriveva ancora: «Le deviazioni dalla media, più o meno marcate, hanno costituito [per gli artisti] la bruttezza del corpo, così come il vizio dei principi morali e una condizione di malattia relativa alla costituzione» (si veda Porter, 1986, p. 103). Qui la nozione di Zeusi di bellezza fisica di un ideale eccezionale si trasforma in bellezza intesa come media.
Quételet preconizzò una sorta di utopia della norma associata al progresso, proprio come Marx pronosticò un’utopia della norma relativa alla ricchezza e alla produzione.
In effetti, Marx cita la nozione di Quételet dell’uomo medio in una discussione della teoria del valore lavoro.
Il concetto di norma, diversamente da quello di ideale, comporta che la maggioranza della popolazione debba, o dovrebbe, in qualche modo essere parte della norma. La norma identifica la maggioranza specifica della popolazione che rientra nell’arco della curva standard a campana. Questa curva, che è il grafico di una funzione esponenziale, è nota con varie denominazioni: la «legge degli errori» degli astronomi, la «distribuzione normale», la «funzione gaussiana di densità» o, semplicemente, la «curva a campana», e a suo modo divenne un simbolo della tirannia della norma. Qualsiasi curva a campana, infatti, ha sempre alle sue estremità le caratteristiche che deviano dalla norma. Quindi, il concetto di norma porta con sé quelli di deviazione o di estremi. Se prendiamo in esame i corpi, in una società in cui vigono questi concetti, le persone con disabilità sono pensate come devianti. E, come abbiamo visto, questa visione è in contrasto con quella delle società in cui vige il concetto di ideale, nelle quali tutte le persone hanno lo status di «non ideali».3
In Inghilterra, nel corso del decennio del 1830, ci fu un grande movimento di interesse per la statistica. In questo Paese, nel 1832, presso il Board of Trade [Camera di Commercio, ndt] fu aperto un ufficio di statistica, mentre nel 1837 fu creato il General Register Office [Anagrafe civile di Inghilterra e Galles, ndt], per raccogliere dati statistici di tipo demografico. L’uso della statistica diede avvio a un importante movimento e, ai fini del presente saggio, vediamo un collegamento significativo tra i fondatori della statistica e le loro più ampie intenzioni. Il fatto piuttosto stupefacente è che quasi tutti i primi studiosi di statistica avevano una cosa in comune: erano eugenisti. E lo stesso vale per le figure principali del movimento dell’eugenetica: Sir Francis Galton, Karl Pearson e R.A. Fisher.4 Pur sembrando questa una coincidenza quasi troppo sconcertante per essere vera, dobbiamo considerare che, tra il figurarsi una misurazione statistica degli esseri umani e il prefigurarsi il loro miglioramento tramite la riduzione delle deviazioni rispetto alla norma, il passo è davvero breve. La statistica si lega all’eugenetica poiché la comprensione fondamentale della prima è imperniata sull’idea che una popolazione possa essere normata. Una conseguenza importante che deriva dall’idea di norma è la suddivisione della popolazione totale in popolazione standard e sottopopolazione non standard. Dopo che la popolazione è stata concepita come suddivisa in due segmenti diversi (dentro la norma o fuori dalla norma), il passo successivo è quello che vede lo Stato cercare di normare il segmento non standard — che è lo scopo dell’eugenetica. Naturalmente un tale intervento è profondamente paradossale, dal momento che la regola inviolabile della statistica è quella per cui tutti i fenomeni siano riconducibili a una curva a campana. Per questo, il normare il «fuori norma» è un’attività problematica quanto il recidere il nodo gordiano.
MacKenzie (1981, p. 52) sostiene che non è tanto la statistica di Galton ad aver reso possibile l’eugenetica, quanto «i bisogni di eugenetica vigenti, che in larga parte determinarono il contenuto della teoria statistica di Galton». In ogni caso, esiste un rapporto simbiotico tra istanze della scienza statistica e istanze dell’eugenetica. Infatti, entrambe introducono nella società il concetto di norma e soprattutto di corpo normale — e così, di fatto, creano il concetto di corpo disabile.
A questo merito, è importante anche notare l’interessante triangolazione degli interessi eugenisti. Da un lato, sir Francis Galton era cugino di Charles Darwin, la cui nozione di vantaggio evoluzionistico degli organismi più idonei pone le basi dell’eugenetica e anche dell’idea di un corpo perfettibile sottoposto a un miglioramento progressivo. Nell’interpretazione di uno studioso, «l’eugenetica fu in realtà una biologia applicata, basata sulla teoria biologica egemone al tempo, ovvero la teoria evoluzionistica darwiniana» (Farrall, 1985, p. 55). Le idee di Darwin sono strumentali al porre le persone disabili da parte, in quanto frutti di un’evoluzione difettosa, destinati a essere lasciati indietro nel corso della selezione naturale. Per cui, l’eugenetica cominciò a essere ossessionata dalla necessità di eliminare gli individui «difettosi», categoria che includeva anche i «deboli di mente», i sordi, i ciechi, le persone con difetti fisici, ecc.
Di concerto, Galton creò il moderno sistema delle impronte digitali per l’identificazione delle persone. Il suo interesse proveniva da un desiderio di dimostrare che taluni tratti fisici potevano essere ereditati. In tal senso scriveva:
Una delle spinte che hanno portato a condurre queste indagini nel campo dell’identificazione delle persone è stata quella di scoprire caratteristiche indipendenti adatte all’indagine sull’ereditarietà [...] Non è improbabile (e vale la pena di prendersi l’onere di indagare) che ciascuna persona porti visibilmente sul suo corpo la prova inequivocabile della sua discendenza e della sua affinità parentale. (si veda MacKenzie, 1981, p. 65)
L’impronta digitale era vista come un marchio fisico di origine, una sorta di numero di serie scritto sul corpo. Ma andando oltre, si può dire che la nozione di impronta digitale porta in primo piano l’idea che il corpo umano possa essere standardizzato e contenga un numero di serie, come di fatto è, integrato nella sua struttura fisica. In tal modo, il corpo possiede un’identità che coincide con la sua essenza, la quale non può essere modificata dalla volontà morale, artistica o umana. L’indelebilità dell’identità corporale non fa altro che incoraggiare il concetto di marchio, posto sul corpo anche da altre qualità fisiche, come l’intelligenza, l’altezza e il tempo di reazione. Seguendo questa logica, la persona entra in una relazione di identità con il proprio corpo; così, il corpo forma l’identità, e l’identità è invariabile e indelebile, come il proprio posto nella curva normale. Ai nostri fini, pertanto, questa individuazione univoca delle impronte digitali del corpo significa che i marchi della differenza fisica diventano sinonimi dell’identità della persona.
Infine, Galton può essere collegato all’altra grandissima figura legata al discorso della disabilità nel Diciannovesimo secolo: Alexander Graham Bell. Nel 1983, nello stesso anno i...

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