Food Marketing
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Food Marketing

Creare esperienze nel mondo dei foodies

Carlo Meo

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Food Marketing

Creare esperienze nel mondo dei foodies

Carlo Meo

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Il food è diventata la nuova religione di consumo, la cultura dei giovani, l'argomento mediatico vincente, Expo incluso, ma ancora esiste un grande divario tra il successo del fenomeno e la sua interpretazione. Questo volume analizza le nuove tendenze di consumo dei foodies e contemporaneamente suggerisce alle aziende e agli imprenditori come operare in questi mercati sia per avere successo, sia per evitare dei guai: essere italiani aiuta, ma non è sufficiente! Il settore food è forse il più complesso nel quale operare, quello che richiede maggior equilibrio tra creatività e utilizzo di regole ormai consolidate e scientifiche. L'innovazione, vista come capacità di leggere i nuovi significati di consumo nel mondo alimentare, è la chiave per avere successo insieme al coraggio e alla coerenza imprenditoriale. E questo libro si propone come una risorsa operativa di riferimento nel settore.

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Information

Publisher
Hoepli
Year
2015
ISBN
9788820370039

1

Come nasce il “food” e il mercato dei “foodies”

Un foodie è un gourmet, o una persona con un interesse appassionato e/o raffinato nei confronti del cibo (food) e delle bevande alcoliche e non. Un foodie ricerca nuove esperienze nel campo food come un hobby o un’attività più che semplicemente mangiare per fame o per comodità.
I tipici interessi dei foodies si rivolgono verso tutto ciò che ha a che fare con il cibo, in alcuni casi concentrandosi su un prodotto o un genere in particolare.
Molte pubblicazioni hanno sezioni che si rivolgono ai foodies, così come il diffondersi di questa tipologia di fanatici del cibo ha portato alla crescente attenzione dei media, con il proliferare di programmi televisivi a loro dedicati (“Top Chef ”, “MasterChef ”…), all’interesse dell’editoria con la pubblicazione di riviste specializzate e ricettari, fino all’istituzione della categoria del “celebrity chef ”. Anche Internet non è rimasto indifferente, con siti come Foursquare, Yelp e Tripadvisor. Per quanto riguarda invece il mercato della vendita dei prodotti, un chiaro segnale è la crescente popolarità dei farmer’s market (mercati a km 0) e dei negozi specializzati.
Perché?
Perché Carlo Cracco cucina per i poliziotti della Questura di Milano per festeggiare il patrono della Polizia di Stato? Perché i vostri figli vi chiedono di partecipare a “Junior MasterChef ”? Perché i vostri migliori amici girano il mondo volando low cost ma collezionando cene stellate nelle nazioni europee? Perché il vostro collega ha fatto il corso per barman, dopo essersi comprato la macchina per il caffé professionale, quella che non ha neanche il bar sotto casa? Infine, perché il food è diventato la nuova religione di consumo, la cultura dei giovani, l’argomento mediatico vincente, quello che ha superato moda e sesso?
Cerco di spiegarvelo in questo libro, iniziando dai prossimi paragrafi.

L’evoluzione del consumismo

Se analizziamo il ciclo di vita del consumismo alla stregua di uno dei suoi tanti prodotti, scopriamo che la sua evoluzione è compresa in circa 50 anni tra la vendita di prodotti e la creazione di esperienze, tra la materia prima e le funzioni d’uso vs le emozioni, tra la quantità di prodotti venduti contro la qualità del tempo trascorso. All’inizio, il fine del consumismo era quello di rendere disponibile al maggior numero di persone la maggior quantità/varietà di prodotti possibile: la lunga mano della produzione di massa, rappresentata da fabbrica e operai, aveva bisogno di mercati, clienti e spazi commerciali per saturare l’offerta. Si dovevano creare la domanda e i canali distributivi per vendere prodotti alimentari, elettrodomestici, automobili. Visto con il senno di poi, il processo di acquisto integrava addirittura in modo funzionale gli stessi prodotti acquistati: il mercato industriale alimentare richiedeva il supermercato e l’ipermercato per contenere le merci, il frigorifero serviva per conservarle, l’auto per raggiungere il luogo di consumo e trasportarle… La cucina italiana aveva una cultura di autoproduzione di prodotti (le ricette di famiglia, per esempio), di materie prime con tempi autenticamente a km 0 (orti, campi e stalle), di metodi artigianali di conservazione e trasformazione dei prodotti (cantine, ghiacciaie). Vedremo come questo imprinting resisterà comunque anche ai giorni nostri.
La prima fase consumistica poggia su un’idea diffusa di modernizzazione della società attraverso la disponibilità di prodotti ad alto contenuto funzionale, cose che servono e che prima non c’erano, il prodotto è ontologico, è sostanza e uso, il processo e l’acquisto invece sono democratici. In seguito, e siamo agli anni Ottanta, nasce il fenomeno della “moda”, intesa come autoaffermazione attraverso l’immagine della propria personalità; il settore di riferimento è l’abbigliamento, con l’invenzione del prêt-à-porter. Sui prodotti compare il marchio, o meglio la firma, rappresentativi dello stile del capo o di uno stilista. I prodotti, dunque, assumono rispetto al passato un significato valoriale, sempre più disgiunto dalla sua sostanza e uso, rappresentano contemporaneamente l’appartenenza a una tribù e l’autoaffermazione di una personalità, sia che si parli di tailleur Armani o di un piumino per giovani. Il valore economico del prodotto è superiore alla sua fattura e materia prima, e come non mai appare chiaro che i costi di marketing incidono sul prezzo finale del prodotto, in quanto rappresentano un posizionamento di mercato ancor prima che il riflesso delle spese pubblicitarie. Si attenua la componente industriale di massa, o meglio si cela, mentre è il brand il nuovo anello della relazione azienda-consumatore; nascono le divisioni industriali e i brand che ancora oggi connotano la nostra spesa, marchi di grande notorietà legati a valori quali la qualità, la soluzione, la serietà: Nutella, Mulino Bianco, Magnum, Philadelphia. Il prodotto è valore e simbolo, l’acquisto è egoismo.
Poi arriva la “tecnologia-umana”, quella alla fine vincente della Apple, quella che inizialmente serviva, ma oggi fa divertire, distrarre, fa vivere in modo diverso da prima. All’inizio erano i cellulari che servivano per telefonare in mobilità, pc per lavorare meglio e velocemente, televisori meno ingombranti; oggi sapete che queste funzioni basiche sono scontate, quasi considerate inutili, siamo nel mondo delle “App”, della soluzione continua, ininterrotta e in diretta dei nostri problemi e curiosità, o almeno così pare. Un mondo tanto fluido e connesso necessita di un’ulteriore evoluzione: con i frigoriferi e gli armadi pieni, lo smartphone in tasca, l’ipermercato in difficoltà, la crisi alle porte, le persone hanno bisogno di nuovi stimoli, comprare è sempre più “boring e cheap”. Nasce il mercato delle esperienze.

Vendere esperienze

Definisco l’acquisto di esperienze come quell’atto di consumo dove la persona compra e vive qualcosa di più del singolo prodotto acquistato, della sua sostanza e del suo uso. Capodanno è sempre un buon esempio per introdurre il tema delle caratteristiche dell’esperienzialità. Ogni anno si ripete, ed è una delle difficoltà del vendere esperienze, cioè crearne di nuove, valide, ripetibili e apprezzate dalle persone. La vostra soddisfazione esula, nel bene e nel male, da quanto spendete per il cenone; il prezzo dell’esperienza, alto o basso che sia, può darvi di più o di meno di quanto vi aspettiate e di quanto abbiate pagato. L’esperienza è dunque potenzialmente molto più difficile da vendere rispetto al prodotto, bisogna concepirla, immaginarla, implementarla. In più travalica le dimensioni di tempo e luogo tradizionali del consumismo, può esser casalinga come all’esterno, in un dehors o in metropolitana, per sempre o temporanea ecc.
Il mondo dell’esperienzialità può essere riassunto in due tipologie.
In primis l’esperienza creata per la vendita di altre esperienze, come viaggi, sport, consumi fuori casa, wellness ecc. L’oggetto della vendita non è un prodotto, ma essere un’esperienza non basta per essere venduta… rischia di diventare una commoditiy alla stregua di un prodotto, un ristorante è uguale a un altro se non dà qualcosa di più, una vacanza idem.
La seconda tipologia riguarda l’esperienza creata per la vendita di prodotti di cui la nascita della formula distributiva “concept store” è l’esempio più semplice, ovvero la creazione di un’esperienza di acquisto unica e distintiva finalizzata a comprare un prodotto-brand in uno spazio fisico, un negozio. Se volete un pretesto, uno stratagemma per vendere di nuovo prodotti e creare una relazione con i clienti.
Il mercato delle esperienze nasce sia da una saturazione della domanda sia da un suo male sociale, il paradosso del consumismo lavorare-comprare-lavorare si attenua in quello lavorare-divertirsi-lavorare, il paradigma di riferimento è quello del Mondo nuovo di Huxley piuttosto che il 1984 orwelliano. Se proprio dobbiamo vivere male, almeno divertiamoci. Così, in tempi di contraddizione, etica relativa e di critica finale del modello consumistico, rilanciando con la vendita di esperienze, il consumismo stesso mette in atto un’operazione camouflage di grande successo. Alla fine potremo tranquillamente affermare che il mercato dell’esperienzialità è quello che vende tempo di qualità, oggi la risorsa più scarsa e più ambita.

Nasce il “food”

Se parliamo di cibo, torniamo indietro di 50 anni o alle caverne, se invece parliamo di food siamo nel mercato delle esperienze, quello dei neologismi come foodies o food experience. Nel significato di una parola c’è tutto il nuovo mondo. Ma andiamo con ordine: come si salda l’alleanza tra esperienzialità e food, e il “cibo” come diventa “food”?
Da una parte il mondo dell’alimentazione è da sempre fisiologicamente legato alla routine dell’acquisto e del consumo, e alla constatazione che per stare in piedi dobbiamo mangiare, dall’altra parte a una certa semplicità, per non dire arretratezza, di approccio legata più alla sostanza e funzione del prodotto, che alle emozioni. Un atto comune che fanno tutti ma che non ha mai avuto un significato valoriale o esperienziale, di immagine e di massa. Non è poco: non tutti vanno in palestra, alcuni preferiscono le vacanze al mare invece che in montagna, mentre tutti devono mangiare. Il marketing contemporaneo cerca di creare nuovi mercati, ma se li ha già tanto meglio… Solo che mangiare era un atto ingenuo privo di significati esperienziali. Certo i gourmands sono sempre esistiti, nelle case italiane il pranzo della domenica era la liturgia profana dopo il rito sacro della messa, di trattorie è sempre stato pieno il Bel Paese, la convivialità nasce nei bar. Ma questo non basta per creare un mercato, una cultura, una religione. Cracco non sarebbe mai andato a cucinare per i poliziotti e Jamie Oliver non avrebbe mai creato, su iniziativa di Tony Blair, menù per gli ospedali inglesi.
Ecco dunque che il mercato del “prodotto cibo” si trasforma in quello dell’“esperienza food”: è la fine degli anni Novanta nel mondo e gli anni 2000 in Italia, la domanda esiste già, i canali di vendita e di consumo pure, si tratta di riposizionare un intero settore e di aggiornarlo alla contemporaneità, ai nuovi stili di vita. Se deve essere esperienza, ci deve essere anche segmentazione negli stili di consumo e nelle funzioni d’uso: si mangia per piacere (tempo slow), per comodità (tempo veloce), per salute (il corpo come immagine e macchina). Lo stesso prodotto, una banale bottiglia di acqua, si tramuta a seconda delle segmentazioni precedenti: è acqua premium e bottiglia disegnata da un designer appartenente al mondo del premium-food, è prodotto di impulso in bottiglia di plastica in un frigorifero a servizio di tutti, è borraccia nella borsa della palestra… Nel mondo del cibo resterebbe sempre acqua… Le cose evidentemente si complicano per aziende di produzione, retailer e canali horeca. Tra cibo e food c’è un mondo di sfaccettature, di esperienze da creare, d’innovazione e intelligenze da mettere in gioco. Non tutti ce l’hanno fatta e questo libro spiega come riuscirci.

Le caratteristiche del mondo dei foodies

Il nuovo mondo del food mette in evidenza le seguenti caratteristiche esperienziali del cibo:
• è sensoriale nel gusto, vista e olfatto e interattività con il prodotto;
• è storie, vere o presunte tali, da narrare;
• è origine e luoghi di produzione e consumo;
• è tradizione di prodotti, paesi e ricette;
• è luogo di preparazione e di consumo, a casa o al ristorante;
• è il vizio, il peccato più sano, tra quelli non proibiti.
Insomma siamo davanti a potenzialità infinite sia di allargamento dei mercati sia di segmentazione degli stessi: i consumi alimentari, vi stupirete, negli ultimi anni sono crollati come quantità, ma crescono i consumi di qualità legati a prodotti o stili di vita quali il biologico, il vino, l’etnico, il cioccolato. Chi compra bio lo fa non perché appartiene a una setta ma principalmente perché crede in una qualità superiore di questi prodotti. I luoghi di acquisto si evolvono: il super e l’iper sono gli spazi della standardizzazione del consumo e non dell’esperienzialità; per fare la spesa nascono nuovi formati e si rilanciano i negozi tradizionali, ormai non si può più comprare senza aver prima mangiato sul posto. Ma il mondo food passa attraverso l’evoluzione del rapporto consumo in casa-fuori casa: il ristorante in tutte le sue nuove declinazioni è il tempio del gusto, della competenza, della sorpresa; muri, arredo, servizio e cucina sono gli elementi coerenti dei nuovi concept dei locali. Il bello da vedere e da mangiare impazza. Lo chef è un “figo”. La cucina è voyeristicamente a vista. I ristoranti si collezionano prima di frequentarli, i piatti si fotografano, poi, se mai, si mangiano. L’italiano tutto casa e mensa ora mangia sempre di più “fuori”: per velocità e comodità a pranzo, per piacere la sera. Ma riprendono quota altri momenti di consumo come la merenda, la prima colazione e l’aperitivo, per la famosa regola che più opportunità si hanno più si spende, la giornata diventa una maratona-food.
Sul mercato, lo vedremo nel prossimo capitolo, si contrappongono le nuove e le vecchie generazioni, le aziende di prodotto-qualità e i consorzi alimentari legati ai vecchi significati di consumo, i nuovi imprenditori che hanno capito che saper vendere è più importante di saper produrre, gli operatori del nuovo divertimento che creano i nuovi locali esperienziali. C’è spazio per nuove figure professionali: food designer, progettisti di locali, pr, star chef… avanti un altro!
La casa intanto diventa il laboratorio sperimentale dei nuovi maschi, quelli tutta estetica, super-urban nel modo di vestire, tecnici fino al midollo, quelli che usano solo la padella nera per intenderci, pinze e pinzette, sifoni e silicone, forni ventilati e kitchen aid.
La donna, da sempre più intelligente, non cucina più e se cucina unisce una sana praticità a momenti più tradizionali: “Quattro salti in padella” vs tortellini fatti a mano, la ricetta della torta della (sua) mamma, le cupcakes colorate, il barattolo di gelato Häagen-Dazs. Ma oltre a uomo e donna, esistono anche i teen e i kids, l’archetipo della famiglia che fa la spesa spingendo il carrello scompare sostituito da una serie di abitudini e gusti puramente individuali. I giovani sono il target emergente, i veri foodies, mentre i piccoli vogliono e comprano le linee di prodotto studiate apposta per loro. Ma è una rivoluzione anche di costumi rispetto all’Italian style: mio figlio Ettore, 9 anni, così come i suoi coetanei mangia sushi da anni e maneggia le bacchette meglio di me. Non vi preoccupate mangia anche la pizza ma con una lentezza esasperante… colpa del prodotto, non di Ettore. Se ci pensate la contrapposizione tra pizza e sushi sta proprio nella differenza tra cibo e food: sfizio contro fame, immagine verso concretezza, poco contro tanto. Per questo anche la pizza sta vivendo una trasformazione, come l’hamburger, esperienziale: è un susseguirsi di pizza d’autore dove il pizzaiolo è come lo chef stellato, di farine particolari, di lievito madre, di ingredienti premium, fino alla pizza nera di Angelo Rumolo, al carbone vegetale, vincitrice del Trofeo Caputo e Campione del Mondo per la specialità Pizza di Stagione. La pizza diventa sfizio, tanti triangoli di pasta da personalizzare con ingredienti diversi, un piatto da condividere con altri. Così Ettore può provare un’esperienza food simile al sushi!

Una possibile contraddizione

Se scorrete un quotidiano generalista o economico degli ultimi due anni scoprirete che gli acquisti alimentari sono crollati e si fa fatica ad arrivare a fine mese. Com’è possibile quindi che il settore food “tiri”, sia di moda, se non ci sono soldi per fare la spesa?
I dati parlano chiaro, ma è la qualità degli stessi che va analizzata: sicuramente il panel e le abitudini di spesa tradizionali sono in crisi, in calo a due cifre come i canali e le insegne della distribuzione che li presidiano, in più anche il mercato dei pubblici esercizi, quello dei bar, sta sempre peggio. Ma sono cambiate le abitudini di consumo, i luoghi di acquisto, i marchi e i prodotti di riferimento: si continua a misurare il mercato con un metro che non è più utile ai nostri tempi. I super e gli iper italiani sono i più vecchi di Europa, luoghi anonimi dove non sei invogliato a entrare, la spesa è una routine, un lavoro e non un’esperienza, gli assortimenti son pieni di prodotti e di marchi che pagano per essere referenziati piuttosto che essere studiati per le esigenze di consumo, le promozioni sembrano essere l’unico modo per vendere i prodotti. In Italia ci sono 172 mila bar: il record è di 4,6 esercizi ogni mille abitanti in Val d’Aosta, mentre in Lombardia ci sono 3 bar ogni mille abitanti. In tutto il Regno Unito ci sono 55 mila pub. Questo significa che in Italia c’è un bar ogni 350 abitanti, in UK un pub ogni 1.160 abitanti. Il record è di Cipro con un bar ogni 124 abitanti. Un indicatore, l’italiano, quindi più simile a quello dei paesi non industrializzati. Ma passando alla qualità degli stessi le cose non fanno che peggiorare: gestione familiare, caffè mediocre, brioche di cartone, evasione fiscale alle stelle. Capite bene che nel mondo dell’esperienzia...

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