Massimo Vallerani
L’arbitrio negli statuti cittadini del Trecento
1. La moltiplicazione dei sistemi eccettuativi nel basso Medioevo
Il decennio iniziale del XIV secolo è segnato da una straordinaria concentrazione di riflessioni e di pratiche relative alla natura dei poteri di eccezione. Privilegio, arbitrio, supplica e grazia diventano strumenti ordinari di governo, segni irrinunciabili di un potere politico che si innalza al di sopra del livello formalizzato delle istituzioni. Non si tratta certo di un’invenzione del Trecento. Da lunghissimo tempo la Chiesa aveva creato un sistema organico di eccezioni per evadere dal diritto dei regni e dal suo stesso dettato normativo, basti pensare all’immunità e alla dispensa, due istituti di vitale importanza per la strutturazione del potere ecclesiastico e nello specifico pontificio. Ma è vero che all’inizio del XIV secolo una serie di crisi a catena ha messo in luce non solo l’aspetto «strutturante» – come dicono i giuristi – del ricorso sistematico di poteri di eccezione, ma anche la natura francamente gerarchica e regale dell’uso riservato di questi di poteri: vale a dire che la stessa eccezione arriva a fondare o istituire un potere nuovo.
In questo processo di enucleazione di ambiti di potere, il campo giudiziario risulta naturalmente privilegiato. L’intera procedura inquisitoriale ex officio era di fatto eccezionale, extra ordinem e come tale l’aveva presentata Innocenzo III nelle prime decretali di inizio Duecento. Ricordiamo il paradigma che fondava l’inquisitio: un reato commesso in pubblico, notorio, che crea scandalo e non può essere taciuto richiede l’intervento del «pastore» che deve scendere e «rendersi conto se le opere confermano il clamore che è giunto a lui». Su queste formule si basa l’individuazione da parte del papa di un potere di intervento ex officio, che mira ad accertare in un primo momento la natura della fama sorta intorno al colpevole e quindi la realtà dei comportamenti che gli sono imputati. L’inchiesta non parte necessariamente da una denuncia formale, ma, appunto, dalla fama che prende il posto dell’accusatore come una persona fittizia. Per Innocenzo III, in sostanza, il valore politico della difesa dell’istituzione ecclesiastica dai suoi stessi ministri giustifica l’eccezione procedurale (iniziare un processo senza accusatore, sostituito dalla fama) e l’occupazione di uno spazio di potere che l’eccezione ha creato (solo il legato pontificio può decidere quale fama sia «denunciante»). Anche in questo caso, le basi ideologiche del nuovo sistema riposano sull’imitazione di un modello divino chiaramente inattingibile dalla burocrazia ecclesiastica ordinaria.
Negli stessi anni, sempre in ambito ecclesiastico, era stato elaborato il concetto di enormitas, diverso dall’atrocitas romana, applicato a un comportamento «fuori dalle norme» provvisto di un’esplicita carica anti-istituzionale. Ora proprio l’enormitas aveva portato come conseguenza una sostanziale indeterminatezza delle procedure e delle pene, da formulare caso per caso, senza limiti precisi o tempi prestabiliti. L’individuazione di un reato eccezionale richiedeva, dunque, la messa in opera di una procedura straordinaria, attivata da un potere che si appoggiava proprio sulla nuova procedura per ampliare spazi di intervento e di controllo prima inaccessibili. Un processo di crescita giurisdizionale «per via di eccezione» che sembra emergere come nota di fondo di molti sistemi politici bassomedievali.
Che il meccanismo sia questo, del resto, lo conferma un caso molto famoso, il processo ai Templari iniziato da Filippo il Bello nel 1307. Nei documenti di accusa e nell’ordine di arresto, più volte l’enormitas e la gravità del reato sono invocate come giustificazioni dell’intervento extra ordinem del re: il crimine dei Templari è giudicato inumano, «exulans extra terminos naturae» e non ci sono più limiti all’azione regia. La forza espressa dalla formula sta proprio nella natura “informe” della reazione regia, come riflesso speculare della natura «esterna all’ordine del mondo» della colpa dei Templari. In effetti anche l’ordine del re è «fuori norma» perché pretende l’immediato scioglimento dell’ordine e il sequestro dei suoi beni, provvedimenti che potevano essere decisi solo dal papa e non da un’autorità laica. Ma ancora più interessante è la trasformazione del ruolo del re successiva a questa reazione “enorme”. Nella consultatio altera, una finta consulenza scritta dal legista di corte Pierre Dubois, si dice chiaramente che il re non agisce come una normale parte o come un accusator ma come ministro di Dio («Non ergo ut accusator vel partem faciens litigantis rex loquitur, set ut dei minister»), come un figlio che sveglia il «padre dormiente» (papa Clemente V) in un momento di emergenza: «filius patrem excitat dormientem»; e lo ripete poco dopo: quando la Chiesa chiama in aiuto i principi, «non est accusatio». Bisogna dunque procedere non secondo un modum iudicii ma con un modum provisionis che permetta di sciogliere subito l’ordine, senza processo e senza difesa. La prova della nequitia dei Templari è così evidente che non c’è bisogno di contro-prove, in analogia con quanto avveniva nei processi antiereticali (quale difesa potevano mai presentare i Nestoriani o le altre sette ereticali?). Anche nelle fittizie «rimostranze del popolo di Francia» si chiede espressamente di non seguire l’ordine e il diritto davanti a un crimine notorio. Ora, in tutte queste scritture il re non è mai un giudice, ma assume un’altra veste, un ruolo ibrido di legislatore e sacerdote, di ministro divino, come Mosè, incaricato di salvare in quel momento il popolo di Dio: quando la fede è in pericolo «accipiat unusquisque gladium». È una pretesa esplicita di occupare un nuovo spazio giurisdizionale e politico in virtù della enormitas del crimine perseguito.
Pochi anni dopo, all’interno scontro frontale tra Enrico VII e Roberto d’Angiò, l’imperatore emanò nel 1313 la costituzione Ad remprimendum che estendeva l’uso del processo sommario ai casi di lesa maestà. Riprendendo le formule dell’inquisitio ecclesiastica – il «clamore notorio del tradimento operato da Roberto non poteva ormai essere più celato» – l’imperatore si arrogava il potere di procedere anche in assenza del reo: «Nos qui legibus subiecti non sumus, contra dictum Robertum propter premissa ipso inrequisito potuissemus procedere». E così si era proceduto all’inquisitio e alla raccolta dei testimoni senza la presenza del re imputato, che era rimasto in una proterva e colpevole contumacia. Naturalmente il passo «legibus non subiecti» ha attirato l’attenzione degli storici del pensiero politico, ma qui importa di più il legame stretto fra lex e procedura, anzi fra una nuova procedura e la...