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John Berger

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John Berger

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Osservare il linguaggio sgretolarsi in un'opera di Magritte. Scoprire la medesima, disperata assenza in un volto urlante di Bacon e in un animale antropomorfo di Walt Disney. Guardare il sangue nero e denso in una foto di guerra di Don McCullin. Scrutare l'abisso che si apre negli occhi di un elefante rinchiuso dietro le sbarre di uno zoo. Rivedere, a distanza di dieci anni, la pala d'altare di Grünewald a Colmar, e riconoscere la propria epoca tra le sfumature di una luce antica, dipinta cinque secoli prima. Sul guardare è un libro di immagini che interrogano la scrittura. Ma è tutta l'opera di John Berger a confermare questo vincolo indissolubile tra visione e linguaggio: dal guardare si irradia l'enigma del senso, si innesca il racconto come tentativo di fissare la propria esistenza nel tempo, che può assumere la forma di romanzo o critica d'arte, poesia o intervento politico. Come si legge in Questione di sguardi, «Il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare». Attraversando il pensiero di Walter Benjamin e Susan Sontag, John Berger mette in luce come la fotografia abbia trasformato la memoria in spettacolo; analizzando la Tempesta di neve di Turner, si trova avvolto dalla violenza della natura come in un maelstrom; osservando una foto di Cartier-Bresson che ritrae Giacometti mentre cammina sotto la pioggia, riconosce la stessa solitudine che anima tutte le sue sculture. Sul guardare – che il Saggiatore propone in una nuova traduzione di Maria Nadotti – è molto più di una raccolta di saggi critici: è un testo organico in cui ogni immagine è un evento inatteso e perturbante, ogni incontro con l'opera d'arte un'esperienza reale o, per usare le parole di John Berger, un «momento vissuto» che diviene scrittura.

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Information

Publisher
Il Saggiatore
Year
2017
ISBN
9788865765807
parte prima
Perché guardiamo gli animali?


01.tif

Perché guardiamo gli animali?
per Gilles Aillaud
Il xix secolo, in Europa occidentale e in Nord America, ha visto avviarsi un processo, portato oggi a compimento dal capitalismo delle multinazionali, che ha spezzato ogni consuetudine di mediazione tra uomo e natura. Prima di tale frattura, gli animali costituivano il primo cerchio intorno all’uomo. Ma forse perfino questa definizione suggerisce una distanza troppo grande. Essi occupavano insieme all’uomo il centro del suo universo. Tale centralità era ovviamente di natura economica e produttiva. Quali che fossero i cambiamenti nei mezzi di produzione e nell’organizzazione sociale, gli uomini dipendevano dagli animali per nutrirsi, lavorare, spostarsi, vestirsi.
Supporre, tuttavia, che fin dall’inizio gli animali siano entrati nell’immaginario umano sotto forma di carne o cuoio o avorio, significa proiettare sui millenni precedenti un atteggiamento tipico del xix secolo. Da principio gli animali entrarono nell’immaginario dell’uomo come messaggeri e come promesse. La pratica di addomesticare il bestiame, per esempio, non nacque dalla semplice prospettiva di procurarsi latte e carne. Il bestiame aveva funzioni magiche, talvolta divinatorie, talvolta sacrificali. E se all’origine una determinata specie veniva scelta come magica, addomesticabile e alimentare era in funzione delle abitudini, della vicinanza e del «richiamo» dell’animale in questione.
Bianco bue buona è mia madre
E noi la gente di mia sorella
La gente di Nyariau Bul…
Amico, grande bue dalle corna aperte,
che sempre muggisce in mezzo alla mandria,
bue del figlio di Bul Maloa.
Edward Evans-Pritchard
I Nuer: I modi di vita e le istituzioni politiche
di un popolo Nilotico
Gli animali vengono messi al mondo e sono esseri senzienti e mortali. In questo somigliano all’uomo. Nella loro anatomia visibile – meno in quella profonda –, nelle abitudini, nella percezione del tempo, nelle capacità fisiche, essi differiscono dall’uomo. Sono allo stesso tempo simili e diversi.
Noi sappiamo che cosa fanno gli animali e quali sono i bisogni del castoro, dell’orso, del salmone e delle altre creature, perché un tempo i nostri uomini si sposavano con loro e acquisivano questo sapere dalle loro mogli animali.
Indiani delle Hawaii in
Claude Lévi-Strauss, Il pensiero selvaggio
Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti. Quel medesimo animale può benissimo guardare nello stesso modo un’altra specie. Non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale. Gli altri animali sono tenuti a distanza da quello sguardo. L’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo.
L’animale lo scruta attraverso uno stretto abisso di non-comprensione. Ecco perché l’uomo può sorprendere l’animale. Eppure anche l’animale – perfino se è domestico – può sorprendere l’uomo. Anche l’uomo guarda attraverso un abisso di non-comprensione simile, ma non identico. Ed è così ovunque egli guardi. L’uomo guarda sempre attraverso la propria ignoranza e la propria paura. Così, quando è visto dall’animale, è visto come ciò che lo circonda è visto da lui. È il fatto di riconoscerlo che gli rende familiare lo sguardo dell’animale. Eppure l’animale è diverso dall’uomo, e non può confondersi con lui. All’animale viene dunque ascritto un potere paragonabile a quello dell’uomo, ma che con esso non coincide mai. L’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo.
La relazione uomo/animale può chiarirsi meglio se paragoniamo lo sguardo di un animale a quello di un altro uomo. Fra due uomini il duplice abisso che li separa viene, per definizione, colmato dal linguaggio. Anche se l’incontro è ostile e se non vengono usate parole (perfino se i due parlano lingue diverse), l’esistenza del linguaggio consente che almeno uno dei due, se non entrambi reciprocamente, trovi conferma nell’altro. Il linguaggio permette agli uomini di tenere conto degli altri come di se stessi. (Nella conferma resa possibile dal linguaggio vengono confermate anche l’ignoranza e la paura umane. Laddove negli animali la paura è la reazione a un segnale, negli uomini è endemica.)
Nessun animale conferma l’uomo, né in positivo né in negativo. L’animale può lasciarsi uccidere e mangiare, di modo che la sua energia vada a sommarsi a quella che il cacciatore già possiede. L’animale può lasciarsi addomesticare, fornendo cibo e lavoro al contadino. Ma sempre la mancanza di un linguaggio comune, il silenzio dell’animale, garantisce la sua distanza, la sua diversità, la sua esclusione dall’uomo.
Proprio in virtù di questa diversità, tuttavia, la vita di un animale, che non va mai confusa con quella di un uomo, corre parallela a quest’ultima. Solo nel momento della morte le due linee parallele convergono per incrociarsi, forse, e ridiventare in seguito parallele: da qui la diffusa credenza nella trasmigrazione delle anime.
Con le loro vite parallele, gli animali offrono all’uomo una compagnia diversa da quella che può essergli offerta da un altro essere umano. Diversa, perché è una compagnia offerta alla solitudine dell’uomo come specie.
Un tempo questa muta compagnia era a tal punto percepita come uno scambio alla pari, che spesso si credeva fosse l’uomo a mancare della capacità di parlare con gli animali; da qui le storie e le leggende di esseri eccezionali, come Orfeo, che riuscivano a conversare con gli animali nella loro stessa lingua.
Quali erano i segreti della somiglianza e della diversità fra l’animale e l’uomo? I segreti di cui l’uomo riconosceva l’esistenza non appena intercettava lo sguardo di un animale?
In un certo senso l’antropologia, occupandosi del passaggio da natura a cultura, è una risposta a questa domanda. Ma esiste anche una risposta generale. Tutti i segreti ponevano gli animali come intermediari tra l’uomo e le sue origini. La teoria evoluzionistica di Darwin, che pure porta impressi i marchi indelebili del xix secolo europeo, appartiene a una tradizione vecchia quasi quanto l’uomo. Gli animali facevano da intermediari fra l’uomo e le sue origini, perché erano simili a lui e allo stesso tempo diversi.
Gli animali venivano da oltre orizzonte. Erano a casa laggiù e qui. Allo stesso modo, erano mortali e immortali. Il sangue di un animale scorreva come quello umano, ma la sua specie era imperitura e ogni leone era il Leone, ogni bue era il Bue. Questo – che forse è il primo dualismo esistenziale – si rifletteva nel modo di trattare gli animali. Essi erano soggiogati e venerati, nutriti e sacrificati.
Oggi le vestigia di questo dualismo si conservano fra coloro che vivono in intimità con gli animali e da essi dipendono. Il contadino si affeziona al suo maiale ed è felice di mettere sotto sale il suo suino. Ciò che è significativo, e che il cittadino di passaggio fa così fatica a capire, è che le due affermazioni contenute in questa frase sono collegate da una e, non da un ma.
Il parallelismo delle loro vite simili/dissimili ha fatto sì che gli animali suscitassero alcuni dei primi interrogativi e dessero loro risposta. Il primo soggetto della pittura fu l’animale. Probabilmente il primo materiale da pittura fu il sangue animale. In precedenza, non è irragionevole supporre che la prima metafora fosse animale. Rousseau, nel suo Saggio sull’origine delle lingue, sosteneva che la metafora è all’origine stessa del linguaggio: «Come le emozioni furono i primi motivi che indussero l’uomo a parlare, le sue prime espressioni furono dei tropi (metafore). Il linguaggio figurato fu il primo a nascere, i significati propri furono trovati per ultimi».
Se la prima metafora fu animale, fu perché la relazione fondamentale fra uomo e animale era metaforica. All’interno di quella relazione, ciò che i due termini – uomo e animale – avevano in comune rivelava ciò che li differenziava. E viceversa.
Nel suo libro sul totemismo, Lévi-Strauss commenta il ragionamento di Rousseau: «È perché originariamente si sentiva identico a tutti i suoi simili (fra i quali, come dice esplicitamente Rousseau, dobbiamo includere gli animali) che l’uomo arrivò ad acquisire la capacità di distinguere se stesso come distingueva loro – a usare, cioè, la diversità delle specie come base concettuale della differenziazione sociale».
Accettare la spiegazione di Rousseau sulle origini del linguaggio significa naturalmente sollevare alcune questioni (qual era l’organizzazione sociale minima necessaria all’emergere del linguaggio?). Ogni ricerca sulle origini è, tuttavia, destinata a non essere pienamente soddisfatta. In tale ricerca la mediazione degli animali era così comune proprio perché gli animali restano ambigui.
Tutte le teorie sulle origini prime sono soltanto dei modi per meglio definire ciò che avvenne dopo. Chi è in disaccordo con Rousseau contesta il punto di vista di un uomo, non un fatto storico. Quel che stiamo cercando di stabilire, visto che l’esperienza si è quasi perduta, è l’uso universale dei segni animali per tracciare la mappa dell’esperienza del mondo.
In otto segni zodiacali su dodici comparivano degli animali. I greci rappresentavano ognuna delle dodici ore del giorno con un animale. (La prima con un gatto, l’ultima con un coccodrillo.) Gli indù pensavano che un elefante reggesse la terra sul dorso e che una tartaruga sostenesse l’elefante. Per i Nuer del Sudan meridionale:
originariamente tutte le creature, incluso l’uomo, vivevano insieme in amicizia in un unico campo. La discordia scoppiò quando Volpe persuase Mangusta a scagliare un bastone contro la faccia di Elefante. Ne seguì una disputa e gli animali si separarono; le specie andarono ognuna per la propria strada e presero a vivere come fanno adesso, e a uccidersi tra loro. Ventre, che prima viveva per conto suo nella foresta, entrò nell’uomo che da allora è sempre affamato. Gli organi sessuali, c...

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