La Shoah dei bambini
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La Shoah dei bambini

La persecuzione dell'infanzia ebraica in Italia (1938-1945)

Bruno Maida

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La Shoah dei bambini

La persecuzione dell'infanzia ebraica in Italia (1938-1945)

Bruno Maida

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La storia della persecuzione degli ebrei attuata dal fascismo tra il 1938 e il 1945 ci è ormai ben nota, ma raramente ci si è soffermati a riflettere su cosa abbiano significato quei tragici sette anni per i bambini italiani. Per i bambini «ariani», cresciuti nell'educazione al razzismo e alla guerra, e, soprattutto, per i bambini ebrei, allontanati da scuola, testimoni impotenti della progressiva emarginazione sociale e lavorativa dei genitori, e in moltissimi casi della distruzione e dell'eliminazione fisica della propria famiglia. Da questa prospettiva la storia che abbiamo alle spalle assume nuovi significati e stratificazioni. Il regime fascista iniziò ad attuare la discriminazione proprio dal mondo della scuola, e i bambini ebrei - prima espulsi, poi separati, esclusi e infine internati - furono vittime tra le vittime. Una parte di essi fu poi deportata, gli altri dovettero fuggire e nascondersi per molti mesi. Bruno Maida ne ripercorre la storia attraverso i progressivi stadi della persecuzione, attento a cogliere non solo lo sguardo che l'infanzia ebbe di fronte al turbinio dei fatti, ma la portata politica di una ferita impossibile da sanare.

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Information

Publisher
EINAUDI
Year
2019
ISBN
9788858432495
Capitolo primo

La stella invisibile

Espulsi.

Se penso a un bambino, la prima cosa che mi viene in mente è che dovrebbe crescere libero e sicuro. Libero di conoscere, sperimentare, muoversi e incontrare; ma nello stesso tempo protetto e accompagnato in questi percorsi da adulti in grado di trasmettere quella sicurezza che permetta di guardare il mondo in modo sereno e aperto. Le leggi razziali furono per l’infanzia ebraica il ribaltamento di questi principî. Lo ha raccontato, con rara sensibilità, Georges Perec:
Desideravo una medaglia e un giorno la ottenni. La maestra me l’appuntò sul grembiulino. All’uscita, per le scale, ci fu un parapiglia che si ripercosse di gradino in gradino e di bambino in bambino. Io ero a metà della scala e feci cadere una bambina. La maestra credette che l’avessi fatto di proposito, si precipitò su di me e, nonostante le mie proteste, mi strappò la medaglia.
Mi vedo scendere correndo per rue des Couronnes, in quel modo particolare di correre che hanno i bambini, ma sento ancora fisicamente quella spinta sulla schiena, prova inconfutabile dell’ingiustizia, e la sensazione cinestetica di una perdita d’equilibrio causata da altri, arrivata dall’alto e ricaduta su di me, è rimasta cosí fortemente impressa nel mio corpo che mi domando se quel ricordo in realtà non nasconda il suo esatto contrario: non il ricordo di una medaglia strappata, bensí quello di una stella appuntata1.
Le leggi razziali furono innanzitutto un’identità imposta, sconosciuta e incomprensibile, non perché ebraica ma perché fondata sulla colpa. I bambini furono espulsi dalla scuola e da tutti gli spazi pubblici, esclusi e separati dai coetanei, costretti in una dimensione privata che aveva i confini di una gabbia, immobilizzati in una quotidianità che riproduceva tempi e ritmi che non appartengono all’infanzia e ai quali, per molto tempo, questa dovette adattarsi. Quell’imposizione fu però solo una parte del ribaltamento, perché si accompagnò alla distruzione progressiva quanto inesorabile del mondo conosciuto. Guido Lopez, che aveva quattordici anni, si vide «improvvisamente frantumato» quando venne espulso dalla scuola2. Era la sicurezza di una vita, che un bambino non mette in discussione, che da un giorno all’altro iniziò a sgretolarsi: nei volti dei genitori e nei loro sempre piú indecisi comportamenti, nel modificarsi delle relazioni e dei gesti, nelle ombre che accompagnavano le giornate prima luminose.
Tutto cominciò dalla scuola, e non fu affatto casuale. L’inizio delle lezioni venne fissato, nel 1938, il 17 ottobre3. Quel giorno – invitava una circolare emanata il 30 settembre dal ministro dell’Educazione, Giuseppe Bottai – si sarebbero svolte cerimonie ai sacrari dei caduti della «rivoluzione fascista», alle quali avrebbero partecipato i provveditori delle province. Nelle singole classi gli insegnanti, insieme agli alunni e a una rappresentanza delle famiglie, avrebbero assistito al discorso del capo d’istituto. Il ministro si preoccupò di suggerire i temi da affrontare e non volle far mancare un riferimento alla razza:
Ad alti fini della Scuola fascista ho accennato. Sono essi quelli stessi che la Rivoluzione persegue nei riguardi di tutto il popolo italiano, riportandolo, libero da intrusioni e da scorie alla espressione genuina delle sue essenziali tendenze, e rendendolo sempre piú unito e compatto, per razza e tradizione, per volontà e per ideali, attorno al suo Duce4.
Tra gli alunni, inquadrati nella Gioventú italiana del Littorio, attenti ad ascoltare le parole dei capi d’istituto, non vi furono bambini e ragazzi ebrei. La sera precedente, in una conversazione radiofonica, Bottai aveva voluto sottolineare come dall’inizio dell’anno la scuola avesse
[...] già predisposto i suoi quadri, sceverandone e separandone gli elementi razzialmente estranei [...] La Scuola italiana agli italiani, s’è detto. Gli ebrei avranno, nell’ambito dello Stato, la loro scuola, gl’italiani la loro.
Parole che sembravano annunciare la perdita della cittadinanza ma che per il momento individuavano un percorso di netta separazione. Il ministro volle ribadire il concetto:
La Scuola non ha dubbi. [...] La sua separazione dagli ebrei è, letteralmente e sostanzialmente, una separazione. Non vuol essere né una persecuzione, né una mortificazione. Separa principî, idee, pensieri, filosofie, sistemi, metodi, ideologie5.
Separava innanzitutto persone, e di ciò Bottai aveva assoluta consapevolezza, come aveva scritto nel suo diario alla data del 2 settembre 1938, dichiarando di presentare in Consiglio dei ministri i provvedimenti per la difesa della razza nella scuola italiana «con una tal quale commozione, non so se piú per la “cacciata” dei docenti attuali o per la permanente interdizione della scuola di stato agli ebrei, anche alunni»6.
La mattina dopo Cesare Finzi camminava tranquillamente, con la spensieratezza dei suoi otto anni, nella stradina del paese di Folgaria, in Trentino, dove stava trascorrendo le vacanze con i genitori. Il padre gli aveva dato il compito di acquistare il «Corriere Padano», il giornale di Ferrara, dove abitava la famiglia Finzi. Ma i quotidiani locali non arrivavano fino a Folgaria, cosí Cesare comprò il «Corriere della Sera». Un grande titolo in prima pagina informava che insegnanti e studenti ebrei erano esclusi dalle scuole pubbliche:
Capisco subito che la cosa riguarda anche me: a ottobre dovrei frequentare la quarta elementare presso la scuola pubblica Umberto I di Ferrara. Cosa significano queste parole? Non potrò piú andare a scuola? Perché? Certo, sono ebreo, ma che differenza c’è fra me e gli altri bambini? E se anche ci fosse una differenza, perché non dovrei piú andare a scuola? A dire il vero, non sono mai stato uno scolaro brillante né ho mai avuto un amore particolare per la scuola, ma veramente non mi sarà piú permesso andarci?7
Se nei primi sei mesi del 1938 vi erano stati segnali sempre meno equivocabili, nel corso dell’estate si era determinata un’accelerazione in termini di interventi, prese di posizione e documenti pubblici che, per quanto riguardava i bambini ebrei, culminarono nel Regio decreto legge 1390, del 5 settembre 1938, sui Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, nel quale, all’articolo 2 si deliberava: «Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica». Quel decreto venne poi integrato dai successivi del 23 settembre 1938, n. 1630, sull’Istituzione di scuole elementari per fanciulli di razza ebraica e del 15 novembre 1938, n. 1779, sull’Integrazione e coordinamento in un unico testo delle norme già emanate per la difesa della razza nella scuola italiana. Tutto fu accompagnato da circolari applicative del ministro, tanto odiose quanto capillari, cosí che appare del tutto condivisibile il giudizio per cui «i ministri succedutisi alla guida dei dicasteri dell’Educazione nazionale e della Cultura popolare (in particolare Giuseppe Bottai e Dino Alfieri) realizzarono negli ambiti di loro competenza un’arianizzazione che può essere definita totalitaria»8.
La prima presa di posizione ufficiale del fascismo e di Mussolini fu il testo dell’«Informazione diplomatica» n. 14 del 16 febbraio 1938. In quella nota – che come le precedenti e le successive aveva la funzione di far conoscere l’opinione del regime su determinate questioni internazionali –, dopo aver escluso misure di ogni genere contro gli ebrei, alla fine era scritto:
Il Governo si riserva tuttavia di vigilare sull’attività degli ebrei venuti di recente nel nostro paese e di far sí che la parte degli ebrei nella vita complessiva della Nazione non risulti sproporzionata ai meriti intrinseci dei singoli e all’importanza numerica della loro comunità9.
Un ebreo ogni mille italiani – cosí come verrà esplicitamente detto nell’«Informazione diplomatica» n. 18 del 5 agosto 1938 – era la misura del peso che essi dovevano avere. Quella cornice, tuttavia, aveva già trovato i suoi contenuti nel documento Il fascismo e i problemi della razza, noto altrimenti come «Manifesto degli scienziati razzisti» del 13 luglio 1938. Nel solco del piú tradizionale razzismo, ma rafforzato da una forte caratterizzazione biologica, il documento definiva la diversità degli ebrei e dichiarava la necessità della separazione: il punto 9 recitava che «gli ebrei non appartengono alla razza italiana», sostenendo altresí che essi «rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei»; il punto 10 affermava che «i caratteri fisici e psicologici europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo», e che perciò l’unione era ammissibile solo nell’ambito delle razze europee. Il 25 luglio il Partito nazionale fascista emise un comunicato nel quale riprese e certificò ufficialmente i contenuti del manifesto. Nel mese di agosto fu annunciata e poi svolta una rilevazione degli ebrei italiani e stranieri residenti nel Regno. I dati disponibili erano assai imprecisi, non aggiornati, e nel complesso risultò che erano presenti in Italia circa 47 000 ebrei di cui poco meno di 10 000 stranieri.
Conseguenza quasi naturale di tali ragionamenti e azioni concrete fu che gli ebrei dovevano essere esclusi innanzitutto dalle istituzioni, dai luoghi delle decisioni, della formazione dell’opinione pubblica, della cultura. A pochi giorni dalla pubblicazione del «Manifesto degli scienziati razzisti», il 19 luglio Bottai annotava nel diario: «Mussolini ci à preannunziato, nei confronti degli ebrei, soluzioni graduali, tendenti a escluderli dall’esercito, dalla magistratura, dalla scuola»10. Sebbene, nel corso delle settimane successive, non sarebbero mancati ripensamenti da parte del duce, la strada era tracciata. Come avrebbe scritto in seguito un commentatore fascista:
Affermatasi la determinazione di attuare una energica difesa della razza italiana, allo scopo di mantenerne integre le particolari caratteristiche fisiche e spirituali, era logico che il primo settore nel quale si doveva operare fosse quello dell’educazione nazionale: settore quanto mai delicato, perché la Scuola, nell’attuare il compito, ad ...

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