Inseguendo un raggio di luce
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Inseguendo un raggio di luce

Alla scoperta della teoria della relatività

Amedeo Balbi

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Inseguendo un raggio di luce

Alla scoperta della teoria della relatività

Amedeo Balbi

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Fra tutte le teorie scientifiche, la relatività è quella che più ci affascina e ci sconcerta. Andando contro la nostra rassicurante percezione del mondo, ci costringe a prendere atto che spazio e tempo non sono due dimensioni fisse e separate, ma si contraggono e si dilatano, sfumando l'una nell'altra, fino a perdere la loro individualità. La realtà è, dunque, molto più strana di quello che appare. Tutto ciò può sembrare misterioso o comprensibile solo agli addetti ai lavori. Ma non è così. Einstein stesso arrivò a formulare la teoria della relatività seguendo intuizioni nate da immagini molto semplici. Ispirandosi a questo stesso metodo dell'"esperimento mentale", con straordinario talento da divulgatore Amedeo Balbi accompagna passo dopo passo il lettore, anche il più digiuno di fisica e matematica, in un entusiasmante viaggio concettuale, con l'aiuto di situazioni concrete e degli scenari della migliore fantascienza (da 2001: Odissea nello Spazio fino al recente Interstellar ). Così si illuminano argomenti che potrebbero sembrare inaccessibili: dalla relatività ristretta a quella generale, dai buchi neri alle onde gravitazionali. Inseguendo un raggio di luce è una lettura istruttiva su una delle più alte creazioni dell'ingegno umano, la vetta del pensiero di Einstein. La relatività, uno strumento fondamentale per interpretare la realtà dell'universo, diventa in questo libro affascinante un'esperienza vertiginosa per la nostra immaginazione.

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Information

Publisher
RIZZOLI
Year
2021
ISBN
9788831805735

UNA STRANA MESCOLANZA DI SPAZIO E DI TEMPO

La relatività ristretta
Le idee di spazio e di tempo che desidero esporvi scaturiscono dal terreno della fisica sperimentale, e in questo sta la loro forza. Esse sono radicali. D’ora in poi, lo spazio e il tempo, considerati singolarmente, sono condannati a svanire come semplici ombre, e solo una specie di unione tra i due conserverà una realtà indipendente.
HERMANN MINKOWSKI1
La prima cosa da fare, se vogliamo capire davvero la teoria della relatività, è liberarsi da un falso luogo comune: la relatività non ci insegna che «tutto è relativo». Questo lo sappiamo già. Non bisogna essere un genio per notare che ogni osservazione risente del punto di vista di chi la fa.
In realtà, lo scopo della relatività è esattamente il contrario. Essa nasce per soddisfare una delle esigenze fondamentali della scienza: ottenere una conoscenza il più possibile oggettiva del mondo naturale, una descrizione della realtà che sia valida per tutti, indipendentemente dalle circostanze. Cos’è che resta costante, quando cambiamo punto di vista? Esiste una ricetta che ci permetta di passare da un punto di vista all’altro senza contraddizioni?

La nave di Galileo

Il primo tentativo di risposta a questo tipo di domande ce lo offre Galileo Galilei nel 1632, in un passo del suo Dialogo sopra i massimi sistemi. Lo voglio copiare qui interamente, perché è uno dei momenti più importanti nella storia della scienza:
Riserratevi con qualche amico nella maggiore stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno uguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muovere la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprendere se la nave cammina o pure sta ferma.2
Nel suo splendido italiano seicentesco, Galileo ci invita a fare un «esperimento mentale», ovvero a visualizzare una precisa situazione fisica provando a immaginarne le conseguenze: è una tecnica che lo stesso Einstein userà in più occasioni per arrivare alla sua teoria della relatività. L’esperimento mentale di Galileo consiste nell’immaginare di essere nella stiva di una nave (il «gran navilio»), senza poter guardare fuori, e di fare una serie di semplici osservazioni: la velocità con cui volano farfalle e insetti, e con cui i pesci nuotano in una vasca; il modo in cui cadono le gocce d’acqua in un vaso; la traiettoria di un oggetto lanciato verso un amico; la distanza che riuscite a percorrere con un salto.
La cosa importante da notare, ci dice Galileo, è che nessuna di queste osservazioni potrà mai farci capire se la nave sta ferma o se si muove, a patto che il moto avvenga senza accelerare, cioè senza cambiare direzione e velocità («pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là»).
In altre parole, Galileo sta affermando che esistono punti di vista da cui i fenomeni naturali ci appaiono avere le stesse proprietà. In fisica, il punto di vista da cui facciamo un’osservazione si chiama «sistema di riferimento»: la stiva della nave è un sistema di riferimento; la banchina del porto è un altro sistema di riferimento. I due sistemi di riferimento si muovono l’uno rispetto all’altro ma, fintanto che il moto relativo tra i due sistemi avviene a velocità costante e in linea retta, non notiamo nessuna differenza nel comportamento degli oggetti. Dunque, se costruiamo un laboratorio di fisica nella stiva della nave che viaggia in modo uniforme, qualunque misura o esperimento ci darà risultati in accordo con le leggi che valgono in un laboratorio costruito sulla terraferma. La velocità del sistema di riferimento (a patto che essa non cambi) non ha nessuna conseguenza fondamentale per la nostra visione del mondo.
La branca della fisica che descrive il movimento degli oggetti e il modo in cui essi rispondono alle forze si chiama «meccanica», e i sistemi di riferimento in moto rettilineo e uniforme si chiamano «sistemi inerziali». La nave di Galileo, che si muove a velocità costante, senza curvare e senza scossoni, è appunto un esempio di sistema di riferimento inerziale. Dunque, il modo più sintetico di riformulare il risultato dell’esperimento mentale di Galileo è questo: le leggi della meccanica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali.
È un risultato importantissimo, ed è il primo esempio di teoria della relatività. Una conseguenza notevole dell’idea galileiana è che non esistono sistemi di riferimento che possano essere considerati in quiete in modo assoluto. Se non posso stabilire attraverso esperimenti di meccanica se la mia barca si muove o sta ferma, questo significa che sono autorizzato a considerare come “reali” solo le differenze di velocità tra diversi sistemi di riferimento. Non c’è un sistema di riferimento “più fermo” degli altri. Avrete probabilmente fatto esperienza diretta di questa proprietà della natura trovandovi dentro un treno in attesa della partenza. Guardando fuori del finestrino, vedete il treno nel binario accanto muoversi: per un po’ (ovvero finché non c’è un’accelerazione abbastanza grande), non riuscite a capire se siete voi a partire o l’altro treno a muoversi in direzione opposta.
C’è però da aggiungere una cosa importante. È vero che il modo in cui si muovono gli oggetti appare obbedire alle stesse leggi in tutti i sistemi di riferimento inerziali, ma questo non significa che le misure effettuate nei diversi sistemi siano identiche. Per esempio, la velocità di una farfalla misurata nella stiva della nave non sarebbe la stessa se la misurassimo stando sulla banchina del porto. In realtà, per far quadrare i conti, c’è bisogno di una regola di conversione, di una ricetta per confrontare tra loro le misure fatte nei vari sistemi di riferimento: in altre parole, di una «legge di trasformazione».
Nel caso della relatività galileiana, questa regola è molto semplice: basta sommare la velocità relativa dei sistemi di riferimento. In altre parole, se una farfalla si muove all’interno di una nave che si muove rispetto alla banchina del porto, la velocità della farfalla osservata dalla banchina sarà quella della nave rispetto alla banchina, sommata a quella della farfalla rispetto alla nave (stiamo assumendo, per semplicità, che il moto della farfalla all’interno della stiva avvenga nella stessa direzione del moto della nave).
Più difficile da dire che da capire. Naturalmente, anche lo spazio percorso in un certo intervallo di tempo nei due sistemi di riferimento andrà confrontato nella stessa maniera: la distanza percorsa dalla farfalla sarà più lunga se misurata rispetto alla banchina, perché il suo spostamento rispetto alla nave andrà sommato a quello compiuto dalla nave rispetto alla banchina.
Insomma, se si tiene conto della relatività galileiana, e si applicano correttamente le regole di trasformazione da un sistema di riferimento all’altro, le leggi della meccanica hanno esattamente la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento inerziali. È un bel successo: abbiamo trovato una descrizione della realtà che non dipende dal punto di vista.
Forte di questo successo, la nave della fisica è andata avanti a gonfie vele per un paio di secoli. Ovvero fino a quando tutto quello che c’era da sapere per descrivere i fenomeni fisici erano le leggi della meccanica.
A un certo punto, però, la luce si è messa di traverso.

Quiete assoluta

Questo non è un libro di storia della scienza, quindi non proverò a ricostruire il complicato percorso che ha portato i fisici, nella seconda metà del diciannovesimo secolo, a rendersi conto che la relatività galileiana non funziona se applicata alle leggi dell’elettromagnetismo. È sufficiente dire che, quando si ha a che fare non solo con il movimento degli oggetti, ma anche con il comportamento di calamite e circuiti elettrici, la ricetta di Galileo per passare da un sistema di riferimento all’altro (sommare le velocità) dà risultati contraddittori.
In particolare, se si applicano le regole di trasformazione galileiane, le equazioni di Maxwell (le leggi che descrivono, tra l’altro, il comportamento delle onde elettromagnetiche, e quindi della luce) non restano le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali. Questo fatto manda in crisi l’idea che tutti i sistemi in movimento uniforme siano perfettamente equivalenti. In effetti, sembrerebbe che un osservatore chiuso nella stiva della nave di Galileo, facendo qualche esperimento di elettromagnetismo, potrebbe capire se la nave si muove o sta ferma. Di conseguenza, dovrebbe anche esistere un sistema di riferimento in quiete assoluta, rispetto a cui misurare il moto di qualunque altro sistema di riferimento.
Questo sistema di riferimento in quiete assoluta, secondo la fisica dell’Ottocento, doveva essere l’«etere», una singolare sostanza dalle strane proprietà. L’etere doveva essere invisibile e pervadere tutto lo spazio, rispondendo alle sollecitazioni elettriche e magnetiche. Un po’ come l’aria è il mezzo in cui si propagano le onde sonore, l’etere era visto come il mezzo che trasmetteva le onde elettromagnetiche attraverso lo spazio vuoto. In effetti, l’etere e lo spazio dovevano essere in pratica la stessa cosa: un sistema di riferimento universale, immobile, rigido e identico per tutti.
Ora, secondo le leggi di Maxwell, la luce (e, più in generale, qualunque onda elettromagnetica) si propaga nel vuoto sempre con la stessa velocità, indicata con il simbolo c (il cui valore esatto è 299.792,458 chilometri al secondo), in ogni direzione e indipendentemente dalla velocità della sorgente che emette la luce, proprio come avviene al suono nell’aria. Tuttavia, se la relatività galileiana fosse corretta, ciò potrebbe essere vero solo nel particolare sistema in quiete assoluta dell’etere. Da ogni altro sistema di riferimento, in moto rispetto all’etere, la luce dovrebbe apparire viaggiare con una diversa velocità.
Per esempio, se vi metteste a rincorrere un’onda luminosa, viaggiando dunque nella sua stessa direzione, dovreste sottrarre la vostra velocità a quella della luce: la luce, quindi, dovrebbe andare più piano. Andando incontro alla luce, invece, dovreste vederla arrivare a velocità maggiore di c. Ma allora, cosa succederebbe se poteste correre accanto a un’onda luminosa, alla sua stessa velocità? Se l’ipotesi dell’etere e la relatività galileiana fossero corrette, la luce dovrebbe apparire in quiete. E se vi allontanaste alla velocità della luce da uno specchio, non dovreste vedere la vostra immagine riflessa. Ma che senso avrebbe, una cosa del genere? Lo stesso Einstein, da adolescente, fantasticava su questo tipo di domande, e non riusciva a raccapezzarsi.
Verso la fine del diciannovesimo secolo, un celebre esperimento condotto dai fisici Albert Michelson e Edward Morley provò a chiarire la faccenda. L’idea era semplice: poiché la Terra doveva necessariamente muoversi rispetto all’etere, misurando la velocità della luce in diverse direzioni si sarebbe dovuta notare una differenza. Tuttavia, l’esperimento di Michelson e Morley non trovò nessuna evidenza di questo effetto. La velocità della luce era esattamente la stessa in qualunque direzione. Questo fatto sperimentale poteva essere interpretato in molti modi diversi. Per esempio, si poteva pensare che la Terra fosse ferma rispetto all’etere, o che trascinasse con sé una “bolla” di etere nel suo moto nello spazio. Entrambe le idee, oltre che piuttosto bislacche, erano anche in contrasto con molti altri risultati sperimentali. C’era poi la possibilità che fossero le leggi di Maxwell a essere sbagliate, e che andassero corrette. Ma anche questa idea fu scartata dopo essere stata sottoposta alle dovute verifiche. Non restava che mettere in discussione la ricetta di Galileo per passare da un sistema di riferimento all’altro.
In quegli stessi anni, il fisico Hendrik Lorentz dimostrò matematicamente che esistevano regole di trasformazione tra sistemi di riferimento inerziali che, al contrario di quelle galileiane, lasciavano intatta la forma delle leggi dell’elettromagnetismo. Erano regole più complicate di quelle di Galileo, ma, soprattutto, erano regole che non avevano nulla a che fare con l’intuizione. Non bastava, secondo Lorentz, tenere conto della velocità relativa dei sistemi di riferimento: bisognava anche considerare il suo rapporto con la velocità della luce. Inoltre, le regole di Lorentz non riguardavano soltanto le posizioni spaziali degli oggetti nei sistemi di riferimento, ma anche il tempo misurato nei due sistemi. L’idea che lo scorrere del tempo potesse dipendere dal moto dell’osservatore era in totale contrasto non solo con la percezione soggettiva, ma anche con le basi su cui era stata edificata tutta la fisica da Galileo in poi. La cosa, per farla breve, sembrava solo un trucco matematico per far quadrare i conti.
Dunque, la situazione all’inizio del ventesimo secolo era questa: se si usavano le regole di trasformazione di Galileo, le leggi della meccanica erano le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali, ma non lo erano quelle dell’elettromagnetismo. Se invece si usavano le regole trovate da Lorentz, le leggi dell’elettromagnetismo erano valide in qualunque sistema inerziale, ma quelle della meccanica non lo erano più. Insomma, non c’era una singola ricetta coerente per scrivere tutte le leggi della fisica in un modo che non dipendesse dal punto di vista di chi faceva l’osservazione.
Ed è qui che entra in gioco Albert Einstein.

Il principio di relatività

Nel 1905, Albert Einstein ha ventisei anni, si è da poco laureato in matematica e fisica al Politecnico di Zurigo, e lavora all’ufficio brevetti di Berna. È un impiego lontano dall’ambiente accademico, ma gli lascia tempo sufficiente per dedicarsi alla ricerca teorica. È un periodo che lo stesso Einstein ricorderà sempre con nostalgia e affetto: la mancanza di pressioni esterne gli permette di riflettere sui problemi che lo interessano maggiormente, e di mettere a frutto la propria creatività e il proprio spirito critico, in un modo che forse sarebbe stato impossibile all’interno del rigido sistema universitario prussiano.
Fatto sta che in quell’anno meraviglioso Einstein pubblica uno dopo l’altro quattro lavori scientifici, tutti fondamentali per la fisica moderna. Uno di es...

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