Capitolo IV
Rappresentazioni e pratiche
degli utenti
Le micropolitiche emerse sul campo e discusse nel precedente Capitolo, come si è visto, avevano una ricaduta concreta sulle pratiche del quotidiano e, in particolare, implicavano operazioni di triage che agivano sia nellâorientare le prassi, sia nel definire le interpretazioni accettabili di uno stato di disagio. A questo proposito è significativo osservare che specifiche operazioni di inclusione ed esclusione furono messe in atto anche nel momento in cui gli specialisti, coinvolti nel progetto di ricerca sanitario e nel mio lavoro etnografico, aiutarono a individuare i pazienti intervistabili. Le azioni di selezione dei pazienti avvennero a diversi livelli.
In primo luogo, furono coinvolti due medici nella disamina della traccia delle interviste. Essi si adoperarono entusiasticamente orientando gli items individuati, ma anche spingendo alla selezione di un âcampioneâ di pazienti che soddisfacesse specifici criteri. Suggerivano un processo di delimitazione piuttosto rigido degli utenti coinvolgibili, in base al quale solamente i soggetti affetti da âmalattia rara riconosciutaâ, âricoverati almeno una volta in day hospitalâ e âin follow-up attivoâ avrebbero preso parte al lavoro di ricerca. Per quanto simile processo di selezione non avrebbe avuto ricadute terapeutiche sui pazienti, e sicuramente non riguardasse situazioni di vita o di morte (come nelle pratiche di triage vere e proprie), esso distingueva tuttavia coloro i quali avrebbero avuto accesso alla parola, allâattribuzione di senso e, di conseguenza, alla legittima produzione di un sapere sulle malattie rare, da coloro che ne sarebbero stati esclusi. Ciò riduceva piuttosto forzosamente la complessitĂ e lâeterogeneitĂ degli utenti che quotidianamente si rivolgevano al Centro per richiedere una qualche forma di riconoscimento, e celava le modalitĂ con cui alcune soggettivitĂ venivano costruite nei termini di âpatologicheâ e ârareâ (e quindi accedevano a specifici diritti o presidi sanitario-assistenziali) mentre altre erano escluse da tali processi.
Simili dinamiche di selezione si resero ancor piĂš evidenti quando il lavoro prese effettivamente avvio. Infatti, gli stessi specialisti individuarono i nominativi degli utenti che avrebbero potuto sottoporsi alle interviste. La loro scelta non dipendeva semplicemente dal modo in cui i soggetti rispondevano ai criteri prestabiliti, ma anche dagli argomenti dâinteresse che, secondo lâopinione dei medici, gli utenti avrebbero potuto recare.
A livello operativo, accadeva che i medici mi anticipassero il nome del paziente descrivendomene brevemente la storia clinica. In seguito annunciavano allâutente lâattivazione dei progetti di ricerca, gli/le introducevano il mio ruolo in essi e lo/la invitavano alla partecipazione. In quel momento mi lasciavano sola con gli interlocutori e io provvedevo a descrivere il lavoro e a illustrarne gli obiettivi e le modalitĂ di conduzione. DopodichĂŠ domandavo loro se fossero disposti a farsi intervistare e, in caso di risposta affermativa, chiedevo di poter fissare un appuntamento secondo le loro esigenze. Nei casi in cui percepissi dubbi o incertezze, ribadivo che la partecipazione non era obbligatoria, invitavo a pensarci approfonditamente, e mi accordavo affinchĂŠ potessimo risentirci per conoscere la loro decisione in merito. La richiesta della mediazione dei medici dipendeva dalla consapevolezza che le ricerche avrebbero avuto una diversa autorevolezza se presentate dai dottori. In qualche modo, quindi, il potere esercitato dagli specialisti venne mobilitato consapevolmente per avere accesso agli utenti e alle loro storie.
Dâaltra parte, per controbilanciare questa dimensione di potere e le operazioni di selezione sopra descritte, insistetti affinchĂŠ, per la mia etnografia, gli specialisti mi indicassero tra i possibili soggetti intervistabili anche individui che avrebbero teso a escludere. Richiesi di incontrare utenti dalle esperienze atipiche, originali o âpoco rappresentativeâ, spiegando che sarebbero stati indispensabili per il mio lavoro.
Fu cosĂŹ che intervistai venticinque pazienti a cui si aggiunsero tre ragazzi disabili non afferenti al Centro. Alcune interviste durarono una quindicina di minuti (riducendosi quasi a radi questionari), mentre altre si protrassero per diverse ore o per piĂš incontri. La varietĂ delle storie, delle esperienze somatiche, dei processi di soggettivazione e delle pratiche di biocittadinanza nelle quali agivano le malattie rare mi apparve infine straordinaria, rendendomi ancora una volta impossibile ricostruire una rappresentazione univoca delle diverse esperienze dei âmalati rariâ.
Proprio per questo motivo, prima di procedere a una disamina complessiva del materiale raccolto, decisi di soffermarmi su alcune storie che, a mio avviso, rappresentarono discorsi e pratiche della âraritĂ â profondamente articolati e assai divergenti tra loro. Affiancando le narrazioni alle osservazioni sul campo, esplorai queste storie per esaminare come la malattia rara agisse nello strutturare lâesperienza di vita e di cura, nellâattivare processi di soggettivazione e biocittadinanza, nellâimplementare o limitare lâagency dei soggetti coinvolti.
Attraverso queste analisi volevo esplorare se, e come, tali processi venissero agiti a seconda delle specifiche esperienze di sofferenza, delle relative interpretazioni e dei rapporti particolari instauratisi tra medici e pazienti. Solo dopo essermi fatta unâidea delle molteplici modalitĂ con cui implicavano dinamiche avevano luogo, iniziai a esaminare trasversalmente le narrazioni di tutti gli intervistati.
4.1. Le storie
âNon esiste la sclerodermia. Esistono le sclerodermieâ.
La prima paziente che incontrai fu la signora Gialli, ossia colei che uno dei medici indicò come interlocutrice perfetta per discutere la traccia delle interviste. Era una donna di mezzâetĂ , energica e vivace nonostante la corporatura estremamente minuta (dovuta anche al disagio). La diagnosi biomedica a lei effettuata, ormai piĂš di ventâanni addietro, era di sclerodermia, una malattia riconosciuta tra le rare in Italia. Io ebbi un colloquio con la signora in uno studio riservatoci dai medici. PoichĂŠ ebbi il pieno consenso alla registrazione, potei in seguito trascriverla scrupolosamente.
La signora Gialli attribuĂŹ alla sua partecipazione al progetto un impegno morale di stampo formativo, considerando la ricerca unâoperazione che avrebbe potuto condurre medici e pazienti a una maggiore comprensione reciproca. Espresse piĂš volte lâentusiasmo per il lavoro e, in generale, per lâinsieme di attivitĂ e iniziative praticate al Centro, dal quale affermò di essere âaffascinataâ:
Io comunque sono affascinata da questo reparto qua! La⌠la freddezza che câè in reparto dovâero prima⌠io sono sempre restata lĂŹ tranquilla, tanto i miei problemi poi li raccontavo separatamente al mio dottore, quindi⌠Però non⌠non câè confronto!
In questo modo ella mi diede immediatamente lâimpressione di ricambiare la percezione positiva che gli operatori avevano di lei. Ben presto, poi, la consonanza di prospettive tra la signora e i medici apparve superare i complimenti reciproci. La donna, che incentrò la maggior parte del colloquio sulle caratteristiche necessarie a unâappropriata relazione medico-paziente, poneva proprio in questo rapporto uno degli elementi piĂš rilevanti per gli individui affetti da malattia cronico-degenerativa. Valorizzando la relazione operatore-paziente, ella confermava in parte quanto emerso dalle interviste dei professionisti, ossia il ruolo cruciale assunto da tale interazione per i soggetti con malattia cronica. Nellâapprofondire il discorso, però, divenne evidente che la signora Gialli si riferiva quasi esclusivamente al rapporto degli utenti con i medici: nel colloquio non vennero mai citate altre professioni sanitarie a esclusione degli psicologi, ai quali fu attribuito un ruolo prevalentemente negativo. Pur non negando la possibilitĂ che il supporto psicologico si rivelasse utile per alcuni pazienti, infatti, la signora Gialli escluse del tutto il fatto che a lei fosse stato di un qualche sostegno. Per quanto concerneva il rapporto medico-paziente, lungi dal descrivere una relazione quasi amicale o comunque travalicante i consueti confini professionali, la signora si prodigò per delineare modalitĂ relazionali in cui i rispettivi ruoli fossero ben definiti (rispecchiando cosĂŹ le aspirazioni dei medici, come abbiamo visto nel precedente Capitolo). Nellâottica della mia interlocutrice lâidea di fondo era che i medici, adeguatamente formati allâascolto, dovessero stipulare con i propri assistiti un vero e proprio âpattoâ, che avrebbe disposto questi ultimi ad affidarsi ai professionisti e i primi ad assumere un ruolo formativo e a dirigere gli itinerari terapeutici.
Tra i compiti spettanti ai medici, ad esempio, vi sarebbe stato quello di evitare processi di spaesamento in cui i pazienti avrebbero potuto perdersi. Un eventuale allontanamento dallo specialista di riferimento era ammesso solo nel caso in cui fosse questâultimo a consigliare altri consulenti ai propri assistiti. Facendo riferimento a esperienze vissute in prima persona, la signora Gialli raccontò:
PerchĂŠ potrebbe essere una procedura che il paziente considera normale: se io ho una malattia⌠ho lâinfluenza vado dal medico della mutua, ma se ho una cosa piĂš seria, comincio a girare tutto il mondo. Ecco. Poi câè un atteggiamento di esterofilia. Io sento tante amiche che, insomma: âVuoi mettere? Se noi andiamo allâesteroâŚâ [...] Câè la nonna di una mia [conoscente] che [...] lei è andata dal Dr. X, è andata allâospedale Y, è andata a Pavia, è andata a Milano⌠e continua, eh! PerchĂŠ poi non è che dice: âLâho fatto una volta e poi mai piĂšâ. No! Lei continua a avere questo... CosĂŹ, non ne vieni a capo! [...] sono tutti ansiosi in quella famiglia! E quindi â visto che hanno anche possibilitĂ di spendere â andare a destra e a manca per loro è unâaltra attivitĂ ! [...] Visto che i suoi problemi sono prevalentemente di natura polmonare, era arrivata lĂŹ, allâospedale Y â io so che lĂŹ ci sono dei bravi medici â e dico: âVai allâospedale Y!â [...] No. âVogliamo continuare a fareâŚâ PerchĂŠ poi câè anche la tendenza⌠anche questo bisogna dirlo dei pazienti: che quasi è diventata una moda parlare male dei medici: âAh, sono andata da quello, non va bene⌠Quellâaltro non va bene, mi ha dettoâŚâ
A parere della signora, quindi, lo spaesamento dei pazienti con malattia rara (giĂ riconosciuto anche nelle interviste agli operatori) non risultava tanto legato alla difficoltĂ di individuare specialisti competenti, quanto piuttosto a un atteggiamento quasi compulsivo, unâabitudine, o finanche una âmodaâ diffusa tra i pazienti. A ciò era necessario porre rimedio attraverso il rapporto di fiducia medico-paziente, che doveva essere espressamente finalizzato a garantire ai professionisti la gestione dei propri assistiti. Per la signora Gialli, infatti, lâascolto del paziente da parte del medico, lâadozione di un livello comunicativo âadeguatoâ al proprio interlocutore, il conseguente consolidarsi del rapporto fiduciario dovevano far sĂŹ che gli operatori governassero efficacemente le traiettorie terapeutiche dei pazienti. La donna raccontò:
Il Dr. X mi ha detto, in una fase un pochino critica, in cui io non stavo bene: âSignora, stia tranquilla, che se è necessario io la posso mandare anche in altri posti: dallâAmerica ad altri colleghiâ. A me quellâinformazione lĂŹ, in quel momento, è servita tantissimo e dico adesso, riflettendoci: âVedo tanti pazienti che passano la vita da un medico allâaltro: âio ho un problema, sĂŹ, sono andato da quello, sono andato di lĂ , sono andato di lĂ âŚââ. PerchĂŠ la gente ha bisogno di fare questa cosa? Evidentemente perchĂŠ non è sufficientemente convinta⌠[...] Allora, bisogna evitare. Forse, proprio una formula del tipo: âGuardi signora, se io mi faccio carico della sua malattia, io sono anche in grado, nel momento in cui verifico che le mie competenze non sono adeguate per coprire tutti i suoi bisogni, io mi sento di indirizzarla da altre parti. Ho la possibilitĂ di farlo⌠forse meglio di lei, visto che sono medicoâ.
Anche qui devâessere il medico a pilotare. Ci sono delle persone talmente fragili che possono anche avere bisogno di un intervento di questo genere, ma dovrebbe sempre essere filtrato dal medico curante. In modo tale che quando il paziente va dallo specialista riferisce le sue ansie, ma lo specialista dovrebbe essere in grado di comunicare con il medico, perchĂŠ lo specialista è in grado di interpretarle anche, quelle ansie.
Lo specialista, dunque, era per la signora Gialli non solo il supervisore dei percorsi e delle scelte dei pazienti, ma anche lâinterprete piĂš adeguato delle loro ansie. Egli avrebbe dovuto assumere la funzione di guida forte e, a tratti, direttiva. Ă pur vero che nella narrazione della signora il coinvolgimento del medico richiamava talvolta lâidea di una logica della cura, secondo cui dottore e paziente sarebbero stati due alleati contemporaneamente impegnati nel percorso di cura. Dâaltra parte, in molte osservazioni della signora Gialli, il ruolo dello specialista arrivava ad assumere toni decisamente imperativi, rispecchiati anche dalle modalitĂ espressive adottate dalla donna (âbisogna evitareâ, âdevâessere il medico a pilotareâ, âun intervento [...] dovrebbe sempre essere filtrato dal medicoâ). In queste considerazioni la signora Gialli sembrava auspicare quanto desiderato dagli operatori, ossia relazioni di cura esclusive, totalizzanti, a tratti paternaliste. Mi chiesi quindi se, e in che modo, le esperienze di disagio e di cura esperite dalla mia interlocutrice avessero avuto un ruolo nel consolidare tali concezioni. In questo modo volevo anche comprendere le dinamiche attraverso le qual...