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Così parlò Zarathustra - un libro per tutti e per nessuno
Informazioni su questo libro
Opera filosofica e poetica composta tra il 1883 e il 1885. In quest'opera le idee del "superuomo" e dell'"eterno ritorno" raggiungono una forma compiuta.
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Informazioni
Argomento
FilosofiaCategoria
Storia e teoria della filosofiaPARTE QUARTA ED ULTIMA
Ahimè, dove si fecero sulla terra maggiori follie che tra i misericordiosi? E che cosa recò tanto danno al mondo quanto la follia dei misericordiosi?
Guai a tutti coloro che amano e non sanno elevarsi al di sopra della loro compassione!
Così mi disse un giorno il demonio: «Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini».
E di recente l'intesi dire queste parole: «Dio è morto; per la sua compassione degli uomini, Dio è morto».
Così parlò Zarathustra, II, p. 136.
IL SACRIFICIO DEL MIELE
E di nuovo passarono i mesi e gli anni sull'animo di Zarathustra ed egli non vi badò, ma i suoi capelli divennero bianchi. Un giorno in cui sedeva su di una pietra dinanzi alla sua caverna, guardando lungi in silenzio – giacchè da quel luogo si vedeva il mare, molto lontano, sopra tortuosi abissi – i suoi animali gli girarono intorno pensierosi e finirono per mettersi di fronte a lui.
«O Zarathustra, dissero, cerchi tu con lo sguardo la tua felicità?» – «Che importa la felicità! egli rispose, è lungo tempo che non aspiro più alla felicità, bensì all'opera mia».
«O Zarathustra, risposero gli animali, tu dici così come uno che è stanco del bene. Non ti sei tu coricato in un azzurro lago di gioia?» – «O buffoni, rispose Zarathustra sorridendo, come sceglieste bene la similitudine! Ma voi sapete anche che la mia felicità è pesante e non come mobile onda: essa mi opprime e non vuol lasciarmi, ed è come pece liquefatta».
Allora gli animali gli girarono intorno pensierosi e di nuovo gli si posero dinanzi. «O Zarathustra, dissero, è dunque a causa di ciò che tu diventi sempre più giallo e cupo, sebbene i tuoi capelli vogliano sembrare bianchi e simili a canapa? Vedi, dunque, tu siedi nella tua pece!» – «Che dite, o miei animali?, rispose Zarathustra ridendo, in verità bestemmiai quando parlai di pece. Ciò che mi accade, accade a tutti i frutti che maturano. È il miele delle mie vene che rende il sangue mio più denso e anche l'anima mia più silenziosa» – «Dev'essere così, o Zarathustra, risposero gli animali appressandosi a lui, ma non vuoi tu oggi salire sopra un'alta montagna? L'aria è pura oggi, e si può veder più vasta parte di mondo che mai per l'innanzi.» – «Sì, animali miei – rispose Zarathustra – voi consigliate benissimo e secondo il mio cuore. Voglio salir oggi su un'alta montagna! Ma fate che trovi, lassù, del miele a portata di mano; miele di favo, aureo e bianco, buono e fresco come il ghiaccio. Giacchè sappiate che lassù voglio fare il sacrificio del miele».
Ma quando Zarathustra fu giunto alla sommità, egli congedò gli animali che l'avevano accompagnato, e s'accorse di esser rimasto solo: rise allora di tutto cuore, si guardò intorno e parlò così:
– Parlai d'offerte e d'offerte di miele; ma non era che un'astuzia del mio discorso e, in verità, un'utile follia! Quassù posso parlar più liberamente che non dinanzi alle caverne degli eremiti, e agli animali domestici degli eremiti.
Che sacrificio! Io prodigo ciò che mi fu donato, io, prodigo dalle mille mani: come oserei ancora chiamar ciò sacrificio?
E quando chiesi del miele, io desideravo soltanto esca e dolce visco verso cui tendono avidamente la lingua anche i burberi orsi, e gli uccelli uggiosi e cattivi:
– la miglior esca di cui hanno bisogno i cacciatori e i pescatori. Giacchè se il mondo è come una tenebrosa foresta popolata di bestie, giardino di delizia per tutti i cacciatori selvaggi, mi sembra assomigliare di più e ancor meglio a un ricco mare senza fondo,
– un mare pieno di pesci variopinti, e di crostacei del quale sarebbero allettati anche gli dèi, di modo che, a causa del mare, essi diverrebbero pescatori e getterebbero le reti: tanto è ricco il mondo di meraviglie grandi e piccine!
Sopratutto il mondo degli uomini, il mare degli uomini – è verso di lui che getto il mio amo dorato e dico: apriti, abisso umano!
Apriti e gettami i tuoi pesci e i tuoi scintillanti crostacei! Con la mia esca migliore adesco oggi per me i più prodigiosi pesci umani.
È la mia felicità che getto lontano, in tutte le direzioni, fra l'oriente, il mezzogiorno, l'occidente, per veder se molti pesci umani non impareranno ad abboccare e a dibattersi nella mia felicità,
– finchè, abboccando al mio amo sottile e nascosto, i variopinti abitatori degli abissi dovranno salire alla mia altezza, ed al più maligno di tutti i pescatori d'uomini.
Giacchè io sono tale dall'origine, e fino in fondo al cuore, tirando, attirando, sollevando ed elevando, un educatore, un maestro di disciplina, che non disse invano una volta: «Diventa chi sei!»
Dunque salgano adesso gli uomini presso di me; giacchè attendo ancora i segni annunziantimi che giunse il tempo della mia discesa, non discendo ancora io stesso, come devo, tra gli uomini.
Ecco perchè attendo qui, scaltro e beffardo, su questi alti monti, nè impaziente nè paziente, ma piuttosto come uno che abbia disimparato la pazienza, – giacchè più non patisce.
Il mio destino, mi concede infatti del tempo: m'avrebbe forse dimenticato? Oppure siede dietro un masso, all'ombra, e acchiappa le mosche?
E, in verità, son riconoscente al mio eterno destino di non incalzarmi e di concedermi tempo per pazzie e malizie, di modo che oggi ascesi questa alta montagna per pescare.
Pescò mai alcun uomo su l'alto dei monti? E quand'anche ciò che voglio quassù sia follia: val meglio questo che divenire solenne per l'attesa, laggiù, e verde e giallo –
– impazzito di collera per l'attendere, come una santa tempesta che giunge urlando dai monti, come un impaziente che grida alle valli: «Ascoltate, oppure vi batto con le verghe di Dio!»
Non che io sia avverso a tali uomini irritati: li stimo abbastanza per rider di loro. Comprendo che siano impazienti, questi grandi rumorosi tamburi che se non hanno la parola oggi non l'avranno mai più!
Ma io e il mio destino – noi non parliamo all'oggi, non parliamo al mai: noi abbiamo pazienza per parlare, e tempo, molto tempo. Giacchè bisognerà pur che venga un giorno e non potrà passare.
Chi deve venire un giorno e non potrà passare? Il nostro grande Hazar, cioè il nostro grande e remoto regno umano, il millenario regno di Zarathustra...
Quanto può esser lontano quel «lontano»? e che m'importa! Non è meno sicuro per me, ed io sto con tutt'e due i piedi su questa base,
– su un'eterna base, su dure, primitive rocce, su questa antica montagna, – la più alta e granitica, alla quale convergono tutti i venti chiedendo: dove? e donde? e per dove?
Ridi, su, ridi, mia luminosa e sana malizia! Getta dagli alti monti il tuo brillante riso di scherno! Adescami con il tuo scintillio il più bel pesce umano!
E tutto ciò che, in ogni mare, mi appartiene, il mio Io in tutte le cose, ciò pescami fuori, ciò trai in alto fino a me: ecco quello che attendo io, il più maligno di tutti i pescatori.
Fuori, fuori, mio amo! Dentro, dentro, esca della mia felicità! Lascia gocciolare il più dolce tuo succo, o miele del mio cuore! Mordi, amo mio, nel seno d'ogni cupa tristezza!
Fuori, fuori, occhio mio! O quanti mari intorno a te, quanto umano avvenire tramontante! E sopra me – qual rosea calma! Qual silenzio senza nubi!
IL GRIDO DI SOCCORSO
Il giorno seguente Zarathustra sedeva di nuovo sulla pietra dinanzi alla sua caverna, mentre gli animali erravano pel mondo a portar nuovo cibo – ed anche nuovo miele; giacchè Zarathustra aveva prodigato e dissipato fino all'ultimo granello il vecchio miele.
Ma mentre se ne stava là seduto, con un bastone in mano, seguendo la traccia che l'ombra del suo corpo disegnava per terra, meditando, in verità, nè su lui nè sulla sua ombra – trasalì a un tratto e fu assalito dalla paura: poichè aveva veduto un'altra ombra accanto alla sua. E girandosi sovra sè stesso e alzandosi rapido, vide presso di sè l'indovino, quello stesso cui aveva un giorno dato da mangiare e da bere alla tavola sua, il proclamatore della grande stanchezza, colui che insegnava: «Tutto è simile, nulla vale, il mondo è privo di senso, la scienza soffoca». Ma il volto suo s'era frattanto mutato; e quando lo guardò Zarathustra, di nuovo il cuore suo fu sgomento: tanti annunzi funesti e tanti scuri lampi passavano sopra quel volto.
L'indovino aveva compreso ciò che avveniva nell'anima di Zarathustra; passò la sua mano sul volto come per cancellare qualcosa; altrettanto fece Zarathustra. Quando ebbero entrambi riacquistato la calma e si furono così rinfrancati, si diedero la mano come segno che volevano riconoscersi.
«Sii il benvenuto, disse Zarathustra, o indovino della grande stanchezza; non sia detto che invano tu fosti il mio commensale e il mio ospite. Mangia e bevi anche oggi nella mia casa e perdona che un vecchio giocondo segga a tavola con te!» – «Un vecchio giocondo? rispose l'indovino scuotendo la testa: chiunque tu sia o voglia essere, o Zarathustra, tu non lo sarai più a lungo quassù, – la tua barca non sarà più, tra breve, all'asciutto!» – «Seggo io dunque all'asciutto?» – chiese ridendo Zarathustra. – Le onde intorno alla tua montagna, rispose l'indovino, salgono e salgono; le onde dell'immensa miseria e dell'afflizione: esse presto solleveranno la stessa tua barca, e ti travolgeranno con essa... – Zarathustra tacque sorpreso. – «Non senti ancora nulla? proseguì l'indovino: non è forse un fragore e un ruggito che vien dall'abisso?» – Zarathustra tacque di nuovo e rimase in ascolto: udì allora un lunghissimo grido che i burroni ripercossero e propagarono, giacchè nessun d'essi voleva serbarlo: tanto aveva un suono funesto. «Messaggero funesto, disse infine Zarathustra, questo è un grido che invoca soccorso, è il richiamo d'un uomo che esce forse da un nero mare...
Indice dei contenuti
- INTRODUZIONE: L'ORIGINE DI «COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA»
- PARTE PRIMA PROLOGO DI ZARATHUSTRA
- I DISCORSI DI ZARATHUSTRA
- PARTE SECONDA
- PARTE TERZA
- PARTE QUARTA ED ULTIMA
- FRAMMENTI DI NOTE POSTUME A CHIARIMENTO DELL'OPERA «COSÌ PARLÒ ZARATHUSTRA»