La lunga vita di Marianna Ucrìa (VINTAGE)
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La lunga vita di Marianna Ucrìa (VINTAGE)

Dacia Maraini

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  1. 264 pagine
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La lunga vita di Marianna Ucrìa (VINTAGE)

Dacia Maraini

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Informazioni sul libro

Sicilia, prima metà del Settecento. Marianna Ucrìa è destinata dalla famiglia a sposare l'uomo che, da bambina, la violentò lasciandola muta e sorda per lo spavento. Ma la lettura aprirà uno spiraglio inatteso nella sua esistenza da reclusa, insegnandole a conoscere il mondo al di là dei confini ristretti della quotidianità. Un romanzo amatissimo da critica e pubblico, che dà vita a un personaggio straordinario e sa ricreare, con insuperata maestria, le atmosfere e i costumi di una civiltà ferina e affascinante.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2012
ISBN
9788858635117
LA LUNGA VITA DI MARIANNA UCRÌA

I

Un padre e una figlia eccoli lì: lui biondo, bello, sorridente, lei goffa, lentigginosa, spaventata. Lui elegante e trasandato, con le calze ciondolanti, la parrucca infilata di traverso, lei chiusa dentro un corsetto amaranto che mette in risalto la carnagione cerea.
La bambina segue nello specchio il padre che, chino, si aggiusta le calze bianche sui polpacci. La bocca è in movimento ma il suono delle parole non la raggiunge, si perde prima di arrivare alle sue orecchie quasi che la distanza visibile che li separa fosse solo un inciampo dell’occhio. Sembrano vicini ma sono lontani mille miglia.
La bambina spia le labbra del padre che ora si muovono più in fretta. Sa cosa le sta dicendo anche se non lo sente: che si sbrighi a salutare la signora madre, che scenda in cortile con lui, che monti di corsa in carrozza perché, come al solito sono in ritardo.
Intanto Raffaele Cuffa che quando è alla “casena” cammina come una volpe a passi leggeri e cauti, ha raggiunto il duca Signoretto e gli porge una larga cesta di vimine intrecciato su cui spicca una croce bianca.
Il duca apre il coperchio con un leggero movimento del polso che la figlia riconosce come uno dei suoi gesti più consueti: è il moto stizzoso con cui getta da una parte le cose che lo annoiano. Quella mano indolente e sensuale si caccia fra le stoffe ben stirate, rabbrividisce al contatto col gelido crocifisso d’argento, dà una strizzata al sacchetto pieno di monete e poi sguscia fuori rapida. Ad un cenno, Raffaele Cuffa si affretta a richiudere la cesta. Ora si tratta solo di fare correre i cavalli fino a Palermo.
Marianna intanto si è precipitata nella camera da letto dei genitori dove trova la madre riversa fra le lenzuola, la camicia gonfia di pizzi che le scivola su una spalla, le dita della mano chiuse attorno alla tabacchiera di smalto.
La bambina si ferma un attimo sopraffatta dall’odore del trinciato al miele che si mescola agli altri effluvi che accompagnano il risveglio materno: olio di rose, sudore rappreso, orina secca, pasticche al profumo di giaggiolo.
La madre stringe a sé la figlia con un gesto di pigra tenerezza. Marianna vede le labbra che si muovono ma non vuole fare lo sforzo di indovinarne le parole. Sa che le sta dicendo di non attraversare la strada da sola perché sorda com’è potrebbe trovarsi stritolata sotto una carrozza che non ha sentito arrivare. E poi i cani, che siano grandi o piccoli, che stia alla larga dai cani. Le loro code, lo sa bene, si allungano fino ad avvolgersi intorno alla vita delle persone come fanno le chimere e poi zac, ti infilzano con quella punta biforcuta che sei morta e neanche te ne accorgi...
Per un momento la bambina fissa lo sguardo sul mento grassoccio della signora madre, sulla bocca bellissima dalle linee pure, sulle guance lisce e rosee, sugli occhi ingenui, arresi e lontani: non diventerò mai come lei, si dice, mai, neanche morta.
La signora madre le sta ancora parlando dei cani chimera che si allungano come serpenti, che ti solleticano coi baffi, che ti incantano con gli occhi maliziosi, ma lei scappa via dopo averle dato un bacio frettoloso.
Il signor padre è già in carrozza. Ma anziché sbraitare, canta. Lo vede da come gonfia le gote, da come alza le sopracciglia. Appena lei appoggia un piede sul predellino si sente agguantare da dentro e spingere sul sedile. Lo sportello viene chiuso dall’interno con un colpo secco. E i cavalli partono al galoppo frustati da Peppino Cannarota.
La bambina si abbandona sul sedile imbottito e chiude gli occhi. Alle volte i due sensi su cui conta di più sono talmente all’erta che si azzuffano fra di loro miserevolmente. Gli occhi hanno l’ambizione di possedere le forme complete nella loro integrità e l’odorato a sua volta si impunta pretendendo di fare passare il mondo intero attraverso quei due minuscoli fori di carne che si trovano in fondo al naso.
Ora ha abbassato le palpebre per riposare un momento le pupille e le narici hanno preso a sorbire l’aria riconoscendo e catalogando gli odori con pignoleria: com’è prepotente l’acqua di lattuga che impregna il panciotto del signor padre! sotto, si indovina la fragranza della cipria di riso che si mescola all’unto dei sedili, all’acido dei pidocchi schiacciati, al pizzicore della polvere della strada che entra dalle giunture degli sportelli, nonché ad un leggero sentore di mentuccia che sale dai prati di casa Palagonia.
Ma uno scossone più robusto degli altri la costringe ad aprire gli occhi. Vede il padre che dorme sul sedile di fronte, il tricorno rovesciato su una spalla, la parrucca di traverso sulla bella fronte sudata, le ciglia bionde posate con grazia sulle guance appena rasate.
Marianna scosta la tendina color mosto dalle aquile dorate in rilievo. Vede un pezzo di strada impolverata e delle oche che schizzano via davanti alle ruote aprendo le ali. Nel silenzio della sua testa si intrufolano le immagini della campagna di Bagheria: i sugheri contorti dal tronco nudo e rossiccio, gli ulivi dai rami appesantiti da minuscole uova verdi, i rovi che tendono a invadere la strada, i campi coltivati, i fichi d’India, i ciuffi di canne e dietro, sul fondo, le colline ventose dell’Aspra.
La carrozza ora supera i due pilastri del cancello di villa Butera e si avvia verso Ogliastro e Villabate. La piccola mano aggrappata alla tenda rimane incollata alla stoffa, incurante del calore che trasuda dal tessuto di lana ruvida. Nel suo stare rigida e ferma c’è anche la volontà di non svegliare il signor padre con dei rumori involontari. Ma che stupida! e i rumori della carrozza che rotola sulla strada piena di buche, e le urla di Peppino Cannarota che incita i cavalli? e gli schiocchi della frusta? e l’abbaiare dei cani? Anche se per lei sono solo rumori immaginati, per lui sono veri. Eppure lei ne è disturbata e lui no. Che scherzi fa l’intelligenza ai sensi mutilati!
Dalle canne che saltano su indolenzite appena mosse dal vento africano, Marianna capisce che sono arrivati nei pressi di Ficarazzi. Ecco in fondo sulla sinistra il casermone giallo chiamato “a fabbrica du zuccaru”. Attraverso le fessure dello sportello chiuso si insinua un odore pesante, acidulo. È l’odore della canna tagliata, macerata, sfibrata, trasformata in melassa.
I cavalli oggi volano. Il signor padre continua a dormire nonostante le scosse. Le piace che sia lì abbandonato nelle sue mani. Ogni tanto si sposta in avanti e gli tira su il tricorno, gli allontana una mosca troppo insistente.
Il silenzio è un’acqua morta nel corpo mutilato della bambina che da poco ha compiuto i sette anni. In quell’acqua ferma e chiara galleggiano la carrozza, le terrazze dai panni stesi, le galline che corrono, il mare che si intravvede da lontano, il signor padre addormentato. Il tutto pesa poco e facilmente cambia posto ma ogni cosa è legata all’altra da quel fluido che impasta i colori, scioglie le forme.
Quando Marianna torna a guardare fuori dal vetro si trova di colpo davanti al mare. L’acqua è limpida e si butta leggera sui grossi ciottoli grigi. Sopra la linea dell’orizzonte una grossa barca dalle vele flosce si dirige da destra verso sinistra.
Un ramo di gelso si schianta contro il vetro. Delle more porporine vengono schiacciate con forza contro il finestrino. Marianna si scosta ma in ritardo: l’urto le ha fatto sbattere la testa contro lo stipite. La signora madre ha ragione: le sue orecchie non sono buone a fare da sentinella e i cani possono agguantarla da un momento all’altro per la vita. Perciò il suo naso è diventato così fino e gli occhi sono rapidissimi nell’avvertirla di ogni oggetto in moto.
Il signor padre ha aperto gli occhi per un istante e poi è tornato a sprofondare nel sonno. E se gli desse un bacio? quella guancia fresca coi segni di un impaziente rasoio le dà voglia di abbracciarlo. Ma si trattiene perché sa che lui non ama le smancerie. E poi perché svegliarlo mentre dorme così di gusto, perché riportarlo ad un’altra giornata di “camurrìe” come dice lui, gliel’ha pure scritto su un foglietto con la sua bella grafia tutta tonda e tornita.
Dai sussulti regolari che scuotono la carrozza la bambina indovina che sono arrivati a Palermo. Le ruote hanno preso a girare sulle “balate” e le pare di udirne lo strepito cadenzato.
Fra poco volteranno verso Porta Felice, poi prenderanno il Cassaro Morto e poi? il signor padre non le ha fatto sapere dove la sta portando ma dalla cesta che gli ha consegnato Raffaele Cuffa può indovinarlo. Alla Vicaria?

II

È proprio la facciata della Vicaria che la bambina si trova davanti quando scende dalla carrozza aiutata dal braccio del padre. Una mimica che l’ha fatta ridere: il risveglio precipitoso, una calcata sulle orecchie della parrucca incipriata, una manata al tricorno e un salto dal predellino con una mossa che voleva essere disinvolta ma è risultata impacciata; per poco non cadeva lungo disteso tanto le gambe gli si erano informicolite.
Le finestre della Vicaria sono tutte uguali, irte di grate arricciolate che finiscono con delle punte minacciose. Il portone tempestato di bulloni arrugginiti, una maniglia in forma di testa di lupo dalla bocca aperta. È proprio la prigione con tutte le sue bruttezze che quando la gente ci passa davanti gira la testa dall’altra parte per non vederla.
Il duca fa per bussare ma la porta gli viene spalancata e lui entra come se fosse casa sua. Marianna gli va dietro fra gli inchini dei guardiani e dei servitori. Uno le sorride sorpreso, un altro le fa la faccia scura, un altro ancora cerca di trattenerla per un braccio. Ma lei si svincola e corre dietro al padre.
Un corridoio stretto e lungo: la figlia fatica a tenere dietro al padre che procede a grandi passi verso la galleria. Lei saltella sulle scarpette di raso ma non riesce a raggiungerlo. Ad un certo punto crede di averlo perso, ma eccolo dietro un angolo che la aspetta.
Padre e figlia si trovano insieme dentro una stanza triangolare illuminata malamente da una sola finestra arrampicata sotto il soffitto a volta. Lì un inserviente aiuta il signor padre a togliersi la giamberga e il tricorno. Gli prende la parrucca, l’appende al pomello che sporge dal muro. Lo aiuta a indossare il lungo saio di tela bianca che stava riposto nella cesta assieme al rosario, a una croce e a un sacchetto di monete.
Ora il capo della Cappella della Nobile Famiglia dei Bianchi è pronto. Nel frattempo, senza che la bambina se ne accorga, sono arrivati altri gentiluomini, anche loro in saio bianco. Quattro fantasmi col cappuccio floscio sul collo.
Marianna guarda in su mentre gli inservienti con le mani esperte trafficano attorno ai Fratelli Bianchi come fossero attori che si preparano ad andare in scena: le pieghe dei sai che siano ben dritte, che caschino candide e modeste sui piedi calzati dai sandali, i cappucci che siano calati fino al collo drizzando le punte bianche verso l’alto.
Ora i cinque uomini sono uguali, non si distinguono l’uno dall’altro: bianco su bianco, pietà su pietà; solo le mani quando fanno capolino fra le pieghe e quel poco di nero che balugina dai due fori del cappuccio lasciano indovinare la persona.
Il più basso dei fantasmi si china sulla bambina, agita le mani rivolto verso il signor padre. È indignato, lo si capisce da come batte un piede sul pavimento. Un altro Fratello Bianco interviene facendo un passo avanti. Sembra che si debbano prendere per il collo. Ma il signor padre li mette a tacere con un gesto autoritario.
Marianna sente il tessuto freddo e molle del saio paterno che casca sul suo polso nudo. La mano destra del padre si stringe attorno alle dita della figlia. Il naso le dice che sta per succedere qualcosa di terribile, ma cosa? Il signor padre la trascina verso un altro corridoio e lei cammina senza guardare dove mette i pi...

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