Le mosche del capitale
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Le mosche del capitale

  1. 400 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Le mosche del capitale

Informazioni su questo libro

«Il personaggio di Bruto Saraccini è l'estrema proiezione autobiografica di Paolo Volponi, scrittore e manager di vertice (prima alla Olivetti, responsabile del personale e delle relazioni aziendali, in seguito alla Fiat, da consulente), così come Le mosche del capitale, edito da Einaudi nel 1989, è tanto un drammatico bilancio personale quanto l'allegoria di un universo in frenetica trasformazione. Oggetto del romanzo è il collasso dell'industria quale bene pubblico e base dello sviluppo democratico del Paese, è il nuovo ordine politico-economico che privatizza i profitti mentre socializza i costi della sua illimitata voracità, è infine l'era del capitale finanziario che trionfa su qualunque attività, quasi disponesse di una propria metafisica e di un dispositivo di legittimazione teologica. Allievo e collaboratore di Adriano Olivetti, cui il libro è dedicato, lo scrittore intuisce che il rapporto fra l'industria e la Polis si è definitivamente chiuso; amico e compagno di via di Pasolini, è costretto a riconoscere che ogni potenziale di Progresso si è tradotto nella pura dinamica dello Sviluppo, quasi che l'obbligo ai consumi avesse surrogato la democrazia. »
dalla prefazione di Massimo Raffaeli

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
Print ISBN
9788806204174
eBook ISBN
9788858413586

Parte prima

I.

1.
Saraccini guarda dall’alto della collina la grande città industriale che si estende nella pianura, spianata dalla notte oltre se stessa fino a sparire tra i riflessi del fiume e le fumate dei campi.
Egli è sereno e gode soddisfatto di quella vista e del generale silenzio. «E sí, è proprio un altro grande generale, il silenzio», confida a se stesso e all’universo. Tutto lo spazio intorno, con il fiato trattenuto e cauto ad ogni tonfo, sembra capirlo e ubbidirgli, riconoscergli con premura di essere quasi ricco, quasi innamorato, ancora giovane e forte, il primo nella sua città esemplare e anche nella regione; il piú intelligente, equilibrato e capace dei direttori della sua gloriosa Azienda.
La grande città industriale riempie la notte di febbraio senza luna, tre ore prima dell’alba. Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radiocomunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol.
Ma dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segatura. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici.
Dormono i calcolatori, ma non perdono il conto nei loro programmi. È un problema di ordine, efficienza, produzione.
Saraccini confida negli psicofarmaci e nei calcolatori. Capiranno i giornali, i finanzieri, i direttori, i tecnici, i giovani specializzati, i consigli d’amministrazione, i contabili, i sindacalisti di fabbrica, quelli provinciali e nazionali, poi i sindaci, i politici, e poi anche i vertici della Confindustria, dell’Iri, e poi i ministri e gli editori. Tutti dovranno capire il primato sociale, culturale, scientifico dell’industria: e lo stesso capitale dovrà sottomettersi e seguirne le ragioni. Il capitale verrà rinnovato e regolato dall’industria.
Il midollo spinale dei nastri crepita, memoria e calcolo, come nel sonno il sangue circola, l’inconscio dilaga, il sogno si versa, il cervello si alimenta di nuovi scatti per i pensieri nuovi di domani. Già al primo risveglio sul lavandino sulla tazza o ancora prima sul sapore del cuscino, cresce spinto dalla vita di tutto e di tutti, il corpo e il valore del capitale. Mai un istante, anche nelle piú cupe notti, cessa di crescere e prevalere; si sposta si assesta recupera forze distribuisce risorse immagina e progetta nuove strategie delinea nuovi organi e nuove facoltà.
Il sonno si spande senza alcuna innocenza, e non per fisico gravame, ma come ulteriore dato e calcolo delle compatibilità favorevoli al capitale. Tutta la città gli è sottoposta; cosí ciascun dormiente, ciascuno nel suo posto e letto, nel proprio sonno come in quello piú grande e generale che si svuota di vapori. Il calcolatore guida e controlla, concede rincorre codifica assume imprime. Dormono anche i padroni e i custodi del calcolatore, dorme la loro coscienza vigilata da infiniti sistemi d’allarme, elettronici quanto morali, sociali politici biochimici. Ronza nel grande sonno il palazzo degli uffici, anch’esso in riposo, staccato isolato da novantotto delle sue cento correnti: restano le guardie, i ronzii dei commutatori, le bocche dei revolvers, le garitte dei turni, i quadranti degli orologi, quelli di rappresentanza del grande salone d’ingresso e delle sale d’attesa.
Ogni cinque minuti scatta il calcolo degli interessi, ogni dieci quello del tasso di inflazione, ogni mezz’ora, avendo intanto percorso il giro del mondo, l’indice di costo delle principali materie prime, ogni tre ore l’indice di valore del dollaro e del marco svizzero, seguito dopo venti minuti da quello di tutte le altre monete dei principali paesi industriali del mondo. Spesso manca la quotazione della lira. Il suo dato rimbalza all’improvviso fuori luogo insieme con quelli bigiornalieri del costo del lavoro, compresa la contingenza con la specificazione di un indice medio generale e dei seguenti indici di settore: metalmeccanici chimici tessili poligrafici, trasporti, comunicazioni, edili, cartai.
Saraccini guarda, ma non commenta: tramortito dalla potenza dell’avvenimento che lo investirà all’apertura della giornata, già prossima alla sua alba. Egli s’accorge che la notte ormai si leva e che tutto quel mondo si sta rigirando nel letto, cominciando a sporgersi verso l’alba. L’alba è un raggio sottile, diffuso dalla sua stessa leggerezza, che oscilla si dissolve e sfuma. Balza all’istante la potenza del mattino del nuovo giorno. Comincia la grandiosa impresa. Saraccini ne è investito e ammirato. Anche lui deve muoversi, cominciare. Corre verso Salisborgo C., traversa velocemente le vie ancora deserte... saltare il ponte volare sulla collina alberata atterrare davanti ai gradini di casa. Doccia, caffè, spremuta, vitamina, scarpe e cravatta. Fresco di stireria e lavanda, autorevole e giudicante, sale al terzo piano degli uffici.
Il professor Bruto Saraccini è un dirigente di seconda fascia della Direzione Generale del personale, relazioni sociali e pubblicità, immagini e servizi aziendali. Bello e discreto, efficiente, motivato, addetto alla selezione diplomati e laureati, quadri, addestramenti, carriere, retribuzioni, incentivi del personale di concetto e di comando. La sua funzione si arresta alla valutazione dei quadri per la nomina a dirigente. Invecchiano nei ranghi molti delusi di prima categoria. Ancora piú vecchi e delusi in prima super. Ma egli è considerato piú che un gestore, un precettore e un confessore, un ottimo, sicuro selezionatore, chiaro nel giudizio sulla persona e su grado di cultura, professionalità, voglia di apprendere e di produrre. Ha gusto e discrezione; nessuno lo solleverebbe da quell’incarico. Mai preso un comunista militante e fervoroso, o uno stupido troppo raccomandato, né uno fisicamente sgradevole o intellettualmente instabile e aggressivo; mai un terrone decisamente accentato e mai un figlio di papà snob e sofisticato; mai una bellezza provocante né una racchia lacrimosa; piuttosto delle beltà particolari e composte, tipi da capire, via via fino a innamorarsene, a possederle completamente, in ufficio e in privato.
Il Presidente ha cominciato ad apprezzarlo per la precisione delle sue relazioni e proposte, per la tempestività ed efficacia della loro praticabilità. Gli amministratori delegati, entrambi e singolarmente, lo considerano già importante dalla terza conferenza collegiale sui problemi degli organici e delle retribuzioni. Saraccini non stima molto quei due, e sa che prima o poi saranno esonerati per l’incerto rendimento della loro gestione, per l’incapacità di stabilire e organizzare un autentico piano di sviluppo aziendale, senza dire delle loro manovre e precipitazioni clientelari. Che nemmeno sanno sostenere e portare fino a una conclusione possibile. Raccomandazioni, elogi, vaghezze; spesso coprendo opinioni, problemi, opposizioni, correnti; e poi confidenze, promesse, congetture, di volta in volta negate, perfino rimproverate con sdegno e asprezza.
Il Direttore Generale del Personale ha finito per cadere di peso dentro questi tranelli, e ha dovuto dimettersi in mezz’ora, piangendo e chiedendo scusa. È riuscito a salvare la liquidazione e il preavviso, insieme con l’agenda personale e la cornice d’argento che teneva sul cristallo nero della scrivania. Non ha dato consegne né indicazioni per una qualsiasi successione, precipitato con l’ascensore riservato fino all’interrato garage, di lí schizzato via con la sua propria BMW da fanfarone. Le sue competenze sono state assunte dal piú giovane dei due amministratori delegati, e da quello stesso momento assolutamente sparite. Ogni funzione, organo e atto insorge e procede per proprio conto, condotto o bloccato dalla pratica quotidiana, generalmente al di fuori, se non in opposizione, dei canali e degli spazi dei vari organismi aziendali.
2.
– Lei che è un ottimo musicologo, professore, non può non ritenere almeno possibile e indicativo, se non proprio giusto ed esauriente, il paragone tra l’impresa capitalistica e il padre di Mozart? A me sembra che siano identici, simili nella natura di promotori organizzatori persecutori e consolatori... con lo stesso atteggiamento provvido, paterno... con la stessa presunzione di guidare e proteggere, di scegliere e d’insegnare, di decidere cosa è bene e cosa è male, e come va fatto e spartito il primo, e come evitato o contenuto il secondo. E poi sempre incalzanti, mai sazi, spietati, smaniosi di novità, ambiziosi e accecati dal successo, solo nell’interesse e nel fine del profitto, tutto,... quia absurdum, tutto... dal credo al benedictus. Sotto tale padre-impresa, il povero Mozart non ha conosciuto infanzia né fanciullezza. Nient’altro, niente. Niente oltre a strumenti musica concerti prove viaggi e ancora viaggi per altra musica altre prove altri concerti. Non le pare che il paragone possa reggere?
Nasàpeti soppesò, mostrandosi incerto, dibattuto nella scelta di una risposta. – Ma Mozart, – disse dopo vari rossori, – Mozart è stato un genio... che ha fatto tanto bene tanta arte tanta altissima musica... per tutti... per gli altri... come anche per sé, per il padre. Il padre credo lo ammirasse molto... lo aiutasse lo seguisse, lo proteggesse in tutto perché lui potesse continuare a creare e a suonare, a dedicarsi per intero alla sua arte... credo anche che lui amasse molto il padre, che ne apprezzasse la guida e le capacità... Non vedo bene i termini della sua similitudine. Sí, forse oggi l’industria ha il principio e lo scopo di far bene, di moltiplicare i beni, di organizzare e guidare il lavoro in senso scientifico e anche sociale, come lei ha ben detto tante volte... Non so, non ho la sua fantasia per arrivare a fare un paragone come quello che mi ha proposto... cosí diversi i termini i tempi i modi... e anche gli scopi... e i protagonisti.
– Eppure, – ripiegò Saraccini, – leggendo una biografia di Mozart mi è sembrato di riconoscere precisa questa equazione tra il padre impresario e l’allievo artista esecutore e l’identità e i rapporti dell’impresa. Mi è sembrata cosí dura la figura del padre e cosí completamente versata dentro la musica la figura del figlio... una sorte cosí dipendente, cosí organizzata sopra e spietata sotto... povero Mozart... quanti viaggi... chissà che freddo... che nottate che fatiche che contrattempi... notti e notti in carrozza in locande mediocri in stanze comuni... di qua e di là delle Alpi delle Fiandre della Prussia, sempre stretto al violino e alla borsa con gli spartiti, sempre con la mano del padre addosso, con l’assillante impegno della bravura, del successo, di altri viaggi; e il padre sempre sopra, con raccomandazioni consigli false premure, e intanto altri viaggi altri programmi. Lo sa che in due anni, già da sposato, cambiò casa non meno di quaranta volte? In questo è molto simile a Beethoven, il quale per tutto la sua vita di adulto cambiò casa almeno una volta al mese.
– Però è stato un genio, – confermò, sempre piú nel rossore, il Presidente.
– Sí, sí, questo sí... ma con quale dolore. Lo sa che dopo la morte del padre, Mozart seppellí anche il ricordo di lui? Non ne parlò piú. Nemmeno una volta, in nessuna delle sue lettere, sebbene frequentissime, e nemmeno negli appunti, nelle dediche... nemmeno nelle lettere alla sorella... cancellò il padre, rimosse del tutto la sua figura...
– Può capitare nelle migliori famiglie, – ridacchiò Nasàpeti, – per non dire in tutte –. Prolungò, dilagando nel rosso piú profondo, capace di comprendere assorbire e far sparire qualsiasi cosa, vere e proprie enormità catastrofi destini imprese, ben di piú di quegli scrupoli poetici del suo commensale.
– Sí, ma il caso resta emblematico. E adesso mi pare che proprio indichi, e con chiarezza, l’identità fra quel padre e l’impresa moderna e la comunità della soggezione nella sorte dei figli-subalterni.
– Non vada a dire queste cose ai sindacati. Non le scriva su qualche rivista intellettuale. Ci si addolori, ci si commuova... ci giochi se vuole... potrà pure servirle, oltre che intrattenerla, nell’esercizio della sua intelligenza e della sua bell’anima. Tanto piú che lei non è un gran cultore di musica... nemmeno dell’opera lirica.
– È vero, è vero, – disse Saraccini, – sono musicalmente ignorante. Però, un bel concerto, una bella sinfonia, so sempre apprezzarli, so proprio riempirmene, anche se non so riconoscerli. Invece la musica operistica non mi piace proprio, no, non mi piace: poco, pochissimo Verdi, per niente Puccini, solo qualcosa di Donizetti e di Rossini, e anche di Bellini. Gli altri li considero dei tromboni sentimentali approssimativi e corrivi come tanti scrittori mediocri loro coetanei, e anche nostri contemporanei.
– Stia attento a non essere troppo sbrigativo... dimostra di non avere gli stessi gusti dei suoi interlocutori sindacali... di non condividerne le idee, la cultura, come dice lei, forse neppure i problemi... nessuna solidarietà dunque. Tanto meno storica. Lei, prima di incontrarsi con sindacati e categorie di lavoratori, dovrebbe sempre canticchiare il Rigoletto o la Bohème. Se lei dovesse mettere la musica nei reparti, in montaggio in verniciatura, che musica metterebbe? Le ruote incalzanti delle carrozze sinfoniche di Mozart e le trombe pesanti e i botti cadenzati di Beethoven? Non credo che andrebbero bene, meglio l’aria della Traviata, sí sí... avvolgente appassionante, che accompagna bene il lavoro. Perché ha fatto togliere la musica?
– Perché mi pareva un inganno, un’ostentazione del tutto inopportuna, neppure una parvenza di libertà.
– Ma se fosse obbligato a rimettere un disco?
– Obbligato da chi?
– Suvvia, non sia polemico, non s’infervori. Accetti il caso.
– Musica nera, spiritual, jazz.
– Demagogico. Troppo scoperto il senso di colpa e il falso avvicinamento... e falso anche l’accostamento tra il lavoro dei neri e anche nero, specie agricolo, e quello degli operai liberi e coscienti delle nostre officine.
– Ha ragione. Ho sbagliato. Ammetto la caduta. Allora, mah... forse Vivaldi, le Quattro stagioni... o qualche altro veneziano... ma piú spesso le canzoni di moda, quelle che tutti amano e riconoscono.
– Giusto. Sí... meglio Vivaldi, però, meglio gli andanti, cosí penetranti: favorirebbero la velocità del lavoro, l’ondata continua delle operazioni.
– Comunque, professore, spero non mi obblighi davvero a rimettere musica nei reparti.
– No, no... io no, – disse dopo una pausa calcolata, assai gravida, il Presidente. Poi riprese, attenuato il rossore nel succhiare un grosso sigaro: – Io no, ma i due, sa, gli amministratori delegati, quelli sono imprevedibili, specie ora che sono tutti agitati a caccia di novità, per forza, di qualsiasi novità, fare pur di fare, sentono che il loro percorso è ormai alla fine e cercano di riportare indietro la ruota, in qualsiasi modo.
– Ma se davvero dovessero ordinarmelo, – insistette Saraccini, – dovrei per forza, per disciplina, obbedirgli? Obbedire senza appello?
– Nemmeno per sogno, – fu lieto di dire Nasàpeti. – Mai ubbidire loro senza essere prima d’accordo con me, mai e per niente. Neanche per mettere o togliere le piante dall’ingresso del vecchio palazzo uffici. Neanche per spostare un piantone. I due devono solo aspettare la data della loro uscita, che sarà la data della prossima convocazione del consiglio. Intanto possono anche non venire in fabbrica. Invece continuano a fare danni e confusioni, con riunioni ordini del giorno piani proposte conferenze... manca davvero che si mettano a fare concerti, musica per tutti, secondo i gradi i compiti la vocazione... musica classica o operistica, jazz o folk, valzer o mazurche, o marcette. Ma devono sbrigarsi a traslocare, e senza concerti, senza portar via niente, senza nemmeno chiudere le porte degli uffici, senza cambiare il foglio del calendario... via, via, traslocare. Gli farò proprio quei suoi nomi di musiche troppo andanti, gli darò questi esempi per farli andar via piú in fretta, cosa ne dice?
– Non è una novità che il corso dei due amministratori delegati sia giunto alla fine. Non solo per me e per qualsiasi altro dirigente, ma perfino per gli operai, per la gente dei reparti, per i gruppi della mensa, per quelli delle corriere. Persino per i sindacati. E tutto questo non è proprio un bene.
– Ecco, dunque, che nella sostanza siamo d’accordo, che sappiamo anche leggere le stesse parole nel gran libro dell’azienda e in quello dei suoi conti. Anch’io avrei preferito comunque che tutto avvenisse con maggior dignità e copertura, senza troppi sfilacciamenti e proclami, confidenze, invocazioni, che turbano sempre e comunque chi deve lavorare, chi deve obbedire e avere sempre fiducia nell’autorità. Al prossimo consiglio, dunque! E prepararsi fin da ora a un’inversione generale di rotta, e urgente; a provvedimenti di ripresa. Faccio molto conto su di lei, la comanderò, le organizzerò molti concerti, molte, molte sinfonie. So bene che la gente l’ascolta volentieri; che la sua, oltre a essere una buona musica, ha anche il merito di piacere e di essere capita da tutti –. Si concentrò sul sigaro, come stupefatto dallo spessore della cenere, del fuoco ormai oltre la metà del grosso siluro.
– Chi metterà al posto dei due e del direttore generale? Assumerà lei stesso finalmente l’incarico di amministratore delegato, come piú volte mi sono permesso di suggerirle? – domandò Saraccini, che guardava anche lui la colonna di cenere, per concordanza, anche lui caricandola di significati inevitabili.
– No, non io, io non posso compromettermi. Non posso investire tutto con il rischio di far cadere tutto. Io resterò nel mio compito, magari ancora piú attento –. Alzò la testa e buttò via con un colpo netto tutto il sigaro. Apparve meno rosso, il naso disteso fra le due opposte mandorle del viso, come nell’entità pesante e rilevabile dei propositi. Guardò piú acutamente Sarac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le mosche del capitale
  3. Le mosche del capitale
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright