
- 208 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La chiave a stella
Informazioni su questo libro
Faussone, detto Tino, il protagonista di questa «opera prima» di Primo Levi, ovvero del suo primo romanzo d'invenzione, è un operaio specializzato che si lascia alle spalle la dura esperienza della catena di montaggio alla Lancia e gira per il mondo a montare gru, ponti sospesi, strutture metalliche, impianti petroliferi. Il romanzo racconta la sua vita e il suo lavoro: una sorta di Odissea moderna con protagonista una specie di Ulisse che dall'India alla Russia, dall'Alaska all'Africa offre agli altri la sua voglia di fare e la sua tecnica e che Levi racconta con gusto e ironia, immedesimandosi nel personaggio e nelle sue avventure.
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Informazioni
Off-shore
«Sí, sono giovane, ma anch’io le ho viste grige, e sempre per via del petrolio. Non si è mai visto che il petrolio lo trovino in dei bei posti, non so, come San Remo o la Costa Brava; mai piú, sempre posti schifosi, dimenticati da Dio. Le piú brutte che ho passato le ho passate a cercare il petrolio; e oltre a tutto non è neppure che ci mettessi il cuore, perché tanto tutti lo sanno che sta per finire e non val neanche la pena. Ma sa bene com’è, quando hai fatto un contratto, dove ti mandano bisogna bene che ci vai; e poi, a dirle la franca verità, quella volta lí ci sono andato abbastanza volentieri, perché era in Alasca.
Io di libri non ne ho poi letti tanti, ma quelli di Jack London sull’Alasca me li sono letti tutti, fin da piccolo, e mica una volta sola, e mi ero fatto tutt’un’altra idea; però dopo che ci sono stato, scusi se glielo dico cosí sulla faccia, io della carta stampata ho incominciato a fidarmene poco. Insomma in Alasca io credevo di trovarci un paese tutto fatto di neve e di ghiaccio, di sole anche a mezzanotte, di cani che tirano le slitte e di miniere d’oro e magari anche di orsi e di lupi che ti corrono dietro. Era quella l’idea che me n’ero fatta, me la portavo dentro senza quasi accorgermi, e cosí quando mi hanno chiamato in ufficio e mi hanno detto che c’era da andare in Alasca a montare un impianto non ci ho pensato su due volte e ho messo la firma, anche perché c’era l’indennità della sede disagiata, e poi perché era già tre mesi che stavo in città, e a me, sa bene, stare in città non mi va. Cioè mi va per tre o quattro giorni, vado a spasso, magari anche al cine, vado a cercare una certa ragazza e la trovo, mi fa piacere rivederla e la porto a cena al Cambio e mi sento grandioso. Può anche capitare che vado a far visita a quelle due mie zie di via Lagrange che le ho detto l’altra volta…»
Non mi aveva detto di queste zie, o almeno non me le aveva descritte: avrei potuto giurarlo. Ne è nato un breve battibecco in cui ciascuno cercava garbatamente di insinuare che l’altro era stato poco attento, poi Faussone ha liquidato l’argomento alla spiccia:
«Non ha importanza. Sono due zie di chiesa, mi ricevono nel salotto buono e mi dànno i cioccolatini; una è furba e l’altra mica tanto furba. Ma gliele racconto poi quest’altra volta.
Allora le dicevo dell’Alasca, e che in città non mi trovo. Perché vede, io sono uno che non tiene il minimo. Sí, come quei motori col carburatore un po’ starato, che se non stanno sempre su di giri si spengono, e allora c’è pericolo che si bruci la bobina. Dopo un po’ di giorni mi vengono tutti i mali, mi sveglio di notte, mi sento come se mi dovesse venire il raffreddore e invece non arriva, mi viene come se mi dimenticassi di respirare, ho male alla testa e ai piedi, se vado in strada mi pare che tutti mi guardino, insomma mi sento sperso. Una volta sono fino andato dal dottore della mutua, ma mi ha preso in giro. E aveva ragione, perché cosa avevo lo sapevo da me, avevo voglia di partire: e allora quella volta che le dicevo ho firmato il contratto, non ho neanche fatto tante domande, mi sono contentato di sapere che era un lavoro nuovo, un progetto fatto in società con gli americani, e che le istruzioni me le avrebbero date sul cantiere. Cosí ho fatto che chiudere la valigia, perché ce l’ho sempre pronta, e ho preso l’aereo.
Niente da dire del viaggio; la faccenda del fuso orario una volta mi dava fastidio, ma adesso ci ho fatto l’abitudine, ho fatto i miei tre cambi, ho dormito in volo, e sono arrivato che ero fresco come una rosa: tutto andava per il suo verso, c’era il rappresentante che mi aspettava con una Chrysler che non finiva mai e io mi sentivo come lo Scià di Persia. Mi ha anche portato in un ristorante a mangiare gli srimp che sarebbero poi come dei gamberi, e mi ha detto che sono la specialità del paese; ma bere niente, mi ha spiegato che lui è di una religione che non devono bere, e mi ha fatto capire cosí con le buone maniere che era meglio se non bevevo neanche io per via dell’anima: era uno gentile, ma era fatto cosí. Tra un gambero e l’altro mi ha spiegato anche il lavoro che c’era da fare, e sembrava un lavoro come ce n’è tanti: ma sa bene come sono fatti tutti i rappresentanti, a baliare la gente sono bravi, ma argomento lavoro lasciamo perdere. Una volta mi è successo che mi sono perfino attaccato con uno, appunto perché non capiva niente e al cliente gli faceva delle promesse impossibili; e sa cosa mi ha detto? Che un lavoro come il nostro si può capire bene, capire poco e capire niente; ma capirlo bene bisognerebbe essere tutti ingegneri, e piuttosto che capirlo poco è piú distinto capirlo niente, cosí uno ha sempre la scappatoia. Bel ragionamento, eh?»
Siccome ho degli amici rappresentanti, ho fatto del mio meglio per difendere la categoria: che è un incarico delicato, che spesso se sanno troppo è peggio perché fanno perdere degli affari, e cosí via, ma Faussone non ha inteso ragione:
«No, non ne ho mai visto uno che ne capisse qualche cosa, e neanche che facesse lo sforzo. Ce n’è bene di quelli che fanno finta di capire, ma sono peggio di tutti. Non me ne parli, dei rappresentanti, se vuole che andiamo d’accordo. Creda a me, sono solo buoni a baliare i clienti, a portarli al nàit e alla partita, e per noi non è che vada male perché ci portano delle volte anche noialtri, ma per la cognizione del lavoro niente da fare, son tutti compagni, mai visto uno che ne masticasse tanto cosí.
Bene, il mio uomo mi dice appunto che si tratta di finire il montaggio di un derrick, in un cantiere lontano una quarantina di chilometri, e poi di metterlo su delle barche e di portarlo nel mare, su un bassofondo mica tanto lontano. Cosí io mi sono fatto l’idea che, per caricarlo su una barca, doveva essere un derrick niente di speciale, e quasi quasi cominciavo a arrabbiarmi perché mi avevano fatto venire a me dall’altra parte del mondo; ma non gli ho detto niente, non era colpa sua.
Era venuto notte, lui mi saluta, mi dice che verrà all’albergo a prendermi al mattino alle otto per portarmi al cantiere, e se ne va. Al mattino tutto bene, salvo il fatto che c’erano i srimp anche per colazione, ma insomma ne ho viste di peggio; tutto bene, dicevo, lui arriva alle otto, puntuale, con la sua Chrysler, e partiamo, e in un momento siamo fuori della città, perché era una città piccola. Altro che Radiosa Aurora! Non avevo mai visto un paese piú malinconico: sembrava il Séstrier fuori stagione, non so se c’è mai stato, c’era un cielo basso, sporco, che sembrava di toccarlo, anzi qualche volta si toccava proprio, perché quando la strada saliva si entrava dentro la nebbia. Tirava un’arietta fredda e umida che s’infilava sotto i vestiti e faceva venire di cattiv’umore, e nei campi intorno c’era un’erba nera, corta e dura che sembravano punte da trapano. Non si vedeva un’anima, solo delle cornacchie grosse come i tacchini: ci guardavano a passare e ballavano sui piedi senza volare via, come se ci ridessero dietro. Abbiamo passato una collina, e dall’alto della collina Mister Compton mi ha fatto vedere il cantiere, in mezzo all’aria grigia sulla riva del mare, e mi è mancato il fiato. Guardi, lei lo sa che a me le parole grosse non mi piacciono, ma eravamo ancora lontani dieci chilometri e sembrava già lí: sembrava lo scheletro di una balena, lungo e nero coricato sulla riva, già tutto arrugginito perché da quelle parti il ferro viene ruggine in un momento, e io a pensare che mi toccava metterlo in piedi in mezzo al mare mi veniva un accidente. Si fa presto a dire “vai e monta un derrick”. Si ricorda l’altra volta, la volta del scimmiotto, quando lei mi ha spiegato del boia di Londra e tutto: bene, faccia conto, quello era alto venti metri e mi sembrava già una bella altezza; ma questo, con tutto che non era ancora finito, da coricato era già lungo un duecentocinquanta metri, come da qui a quello steccato verde che vede laggiú, oppure da piazza San Carlo a piazza Castello, tanto perché lei si faccia l’idea. A me il lavoro non mi spaventa, ma quella volta mi sono detto che era arrivata l’ora.
Mentre scendevamo giú per la collina, il mister mi ha spiegato che l’Alasca con la neve e le slitte c’è proprio, ma molto piú a nord: lí era anche Alasca, ma una specie di prolunga che scende giú sulla costa del Pacifico, come chi dicesse il manico dell’Alasca vera, e difatti lo chiamano proprio cosí, Panhandle, che vuol dire il manico della padella. E per la neve, mi ha detto che stessi pure tranquillo, che in quella stagione un giorno o l’altro ne sarebbe venuta, ma che se non veniva tutto compreso era meglio. Sembrava che lo sapesse, quello che stava per capitare. Quanto al derrick, ha detto che sí, era abbastanza grosso, ma appunto, era giusto per quello che avevano fatto venire dall’Italia un brait gai, che modestia a parte sarei io. Era proprio uno gentile, a parte la faccenda dell’anima.
Cosí parlando, siamo scesi giú per i turniché della collina e siamo arrivati al cantiere. Lí c’era tutta la compagnia che ci aspettava: i progettisti, l’ingegnere direttore dei lavori, una mezza dozzina di ingegnerini appena schiusi, tutti spichínglis e tutti con la barba, e la squadra dei montatori alascani, che di alascano non ce n’era neanche uno. Uno era un pistolero grande e grosso, e mi hanno spiegato che era un russo ortodosso, perché ce n’è ancora, fin dal tempo che i russi hanno fatto quel bell’affare di vendere l’Alasca agli americani. Il secondo si chiamava Di Staso, e vede che tanto alascano non poteva essere. Il terzo mi hanno detto che era un pellerossa, perché sono bravi a rampicare sulle incastellature e non hanno paura di niente. Il quarto non me lo ricordo bene: era un tipo regolare, come ce n’è dappertutto, con la faccia un po’ da cottolengo.
L’ingegnere capo era uno in gamba, di quelli che parlano poco e non dicono una parola piú forte dell’altra; anzi, a dire la verità facevo fino fatica a capire quello che diceva perché parlava senza aprire la bocca: ma sa bene che in America glielo insegnano a scuola, che aprire la bocca non è educazione. Ogni modo era in gamba; mi ha fatto vedere il modellino in scala, mi ha presentato alla squadra scompagnata che le ho detto, e a loro gli ha detto che il montaggio lo avrei diretto io. Siamo andati a pranzo alla mensa, e non fa bisogno che le dica che anche lí c’erano i gamberi; poi mi ha consegnato il libretto con le istruzioni per il montaggio, e mi ha detto che mi lasciava due giorni per studiarlo, e che dopo mi ripresentassi al cantiere perché bisognava incominciare col lavoro. Mi ha fatto vedere sul libretto che tutte le operazioni andavano fatte a giorno fisso, qualcuna addirittura a ora fissa, per via della marea. Già, della marea: lei non capisce, vero? E neanch’io l’ho capito, lí sul momento, cosa c’entrasse la marea; l’ho capito poi dopo, e cosí anche a lei glielo racconto dopo, se lei è d’accordo».
Ero d’accordo: conviene essere sempre d’accordo con chi racconta, se no lo si intralcia e gli si fa perdere il filo. Del resto, Faussone appariva in gran forma, e a mano a mano che il racconto si dipanava, lo vedevo insaccare sempre piú la testa fra le spalle, come fa quando sta per raccontare qualcosa di grosso.
«Poi ce ne siamo andati Compton e io: ma bisogna ancora che le dica che avevo un’impressione strana, come se quell’ufficio, quella mensa, e piú che tutto quelle facce, le avessi già viste prima, e poi ho capito che era proprio vero, era tutta roba vista al cine, non saprei dirle quando e in che film. Compton e io, le dicevo, siamo partiti per la città; io dovevo tornare all’albergo a studiare il libretto, ma dopo incamminato il lavoro l’ingegnere mi aveva detto che mi aveva riservato una camera nella foresteria del cantiere; lui diceva nel ghestrúm, e lí per lí non capivo che cosa diavolo fosse, ma non mi azzardavo di chiederglielo perché in teoria io l’inglese lo dovrei sapere.
Allora, ci siamo messi in strada con la bellissima Chrysler del mio mister; e io stavo zitto e ruminavo la storia di quel montaggio. Per un verso era un gran bel lavoro, di quelli che uno se li ricorda per un pezzo e resta contento di averli fatti; per un altro verso quella parolina della marea, e il fatto quel derrick di doverlo far navigare, mi stava un po’ sullo stomaco. Perché sa, a me il mare non è mai piaciuto: si muove sempre, ci fa umido, c’è l’aria molle e marinosa, insomma non mi dà fiducia e mi fa venire le lune. A un certo punto ho visto una cosa strana: nel cielo si vedeva il sole che era un po’ annebbiato, e aveva due soli piú piccoli, uno per parte. L’ho fatto vedere a Compton, e ho visto che lui diventava nervoso; difatti, poco dopo, tutto d’un colpo il cielo si è fatto scuro, ben che era ancora giorno, e in un momento ha cominciato a nevicare, e io non avevo mai visto nevicare cosí. Veniva giú fitto, prima a granini duri come la semola, poi come un polverino che entrava fino dalle prese d’aria della macchina, alla fine con dei fiocchi grossi come delle noci. Eravamo ancora sulla salita, a una dozzina di chilometri dal cantiere, e ci siamo accorti che si metteva male. Compton non ha detto niente, ha solo fatto uno o due grugniti: io guardavo il tergicristallo, sentivo che il motorino ronzava e sforzava sempre di piú, e pensavo fra me che se si fermava quello eravamo panati.
Lei, scusi, ha mai fatto una jona?»
Ho risposto che sí, e anche piú di una, ma che non vedevo il rapporto. Faussone ha ripreso:
«Anche io ne ho fatte, e tante, ma nessuna grossa come quella che ha fatto lui. Si slittava da matti, e l’unica era andare avanti in seconda, senza mai frenare né accelerare, magari lasciando che il tergicristallo si riposasse ogni tanto; invece lui vede un rettilineo, fa ancora un grugnito e dà tutto il gas. L’auto ha dato un giro, ha fatto un dietrofront netto come i soldati, e si è fermata contro la montagna con le due ruote di sinistra dentro la canaletta; il motore si è spento, ma il tergi continuava a andare su e giú come un matto, e scavava nel parabrezza come due finestrelle incorniciate di neve. Si vede che era di buona marca, o forse in quei paesi li fanno maggiorati.
Compton aveva delle scarpe da città e io degli stivaletti militari con la suola di gomma, cosí è toccato a me di scendere per vedere cosa si poteva fare. Ho trovato il cric e ho cercato di piazzarlo, avevo intenzione di sollevare il lato sinistro e poi di mettere dei sassi sotto le ruote, dentro la canaletta, e di provare a ripartire indietro verso il cantiere, dato che la macchina aveva fatto mezzo giro e si era messa in posizione di discesa, e guasti sembrava che non ce ne fossero. Ma niente da fare: si era fermata a trenta centimetri dal muraglione, in maniera che io riuscivo appena appena a infilarmi di coltello, ma quanto a mettermi giú per piazzare il cric che fosse un po’ sicuro, neanche da pensarci. Intanto, di neve ne era già venuto giú due palmi, e continuava sempre peggio, e ormai era quasi buio.
Non c’era che passare la mano, mettersi lí tranquilli e aspettare che venisse giorno: la maniera di venire fuori della neve l’avremmo trovata, benzina ce n’era, potevamo lasciare acceso il motore e il riscaldamento e dormire. L’importante era di non perdere la testa, e invece Compton l’ha persa subito: piangeva e rideva, diceva che si sentiva soffocare, e che mentre c’era ancora un filo di luce io dovevo correre al cantiere a cercare soccorsi. A un certo punto mi ha perfino preso per il collo, e allora gli ho dato due pugni nello stomaco per calmarlo, e difatti si è calmato: ma io praticamente avevo paura di passargli la notte vicino, e poi lei lo sa che stare nello stretto e nel chiuso non mi piace; cosí gli ho chiesto se aveva una torcia elettrica, l’aveva, me l’ha data, e io mi sono buttato fuori.
Devo dire che per grigia era grigia. S’era levato il vento, la neve era ritornata fina e veniva tutta per traverso, si infilava per il collo e negli occhi, e facevo fatica a respirare. Ne era venuto forse un mezzo metro, ma il vento l’aveva accumulata contro il muraglione e l’auto era quasi tutta coperta; i fari erano rimasti accesi, ma anche loro erano sotto una branca di neve, e si vedeva la luce da sopra, un chiaro smorto che sembrava che venisse dal Purgatorio. Ho bussato al vetro, ho detto a Compton che li spegnesse, che stesse lí quieto e che sarei tornato presto, ho cercato di stamparmi bene in mente la posizione della macchina, e mi sono messo in cammino.
Al principio non è stata neanche tanto brutta. Pensavo fra me che c’era poi solo da fare un dieci chilometri, anzi meno se mi buttavo giú per le scorcie fra un turniché e l’altro; pensavo anche: “volevi l’Alasca, volevi la neve: l’hai avuta, dovresti essere contento”. Ma non ero tanto contento: quei dieci chilometri era come se fossero quaranta, perché a ogni passo affondavo fino a mezza gamba; e anche se ero in discesa, incominciavo a sudare, mi batteva il cuore, e un po’ per la tormenta, un po’ per la fatica, mi mancava anche il fiato e tutti i momenti mi dovevo fermare. La torcia, poi, mi serviva tanto come niente: si vedeva solo tante righe bianche coricate, e un polverino di scintille che facevano girare la testa: cosí l’ho spenta e sono andato avanti al buio. Avevo una gran fretta di arrivare al piano, perché pensavo che una volta in piano il cantiere non doveva essere lontano: ebbene, era una fretta stupida, essendo che, quando al piano ci sono arrivato, mi sono accorto che non sapevo piú da che parte andare. Bussole non ne avevo: la sola bussola, fino allora, era stata la pendenza, e finita quella non sapevo piú cosa fare. Mi ha preso la paura, che è una gran brutta bestia, e credo che peggio che in quel momento non l’ho mai avuta, neanche delle altre volte che a pensarci bene c’era molto piú rischio: ma era per via del buio, del vento, e che ero solo in un paese in capo al mondo; e mi veniva in mente che se cadevo e svenivo, la neve mi avrebbe sotterrato, e nessuno mi avrebbe piú trovato fino a che non fosse venuto aprile e si fosse squagliata. E pensavo anche a mio padre, che di solito non ci penso.
Perché sa, mio padre era del ’12, che era una leva disgraziata. Gli è toccato di fare tutte le naie possibili, l’Africa, poi la Francia, l’Albania, e alla fine la Russia, e è tornato a casa con un piede congelato e delle idee strane, e poi è ancora stato prigioniero in Germania, ma questo glielo conto poi un’altra volta: fra parentesi, è stato proprio allora, mentre guariva del piede, che mi ha messo in fabbricazione a me, me lo raccontava sempre e ci faceva degli scherzi sopra. Insomma quella volta io mi sentivo un po’ come mio padre, che l’avevano mandato a perdersi nella neve ben che era un bravo battilastra, e lui, mi diceva, aveva una gran voglia di sedersi giú nella neve e aspettare di morire, ma poi invece si era fatto coraggio e aveva camminato ventiquattro giorni finché non era uscito dalla sacca: cosí mi sono fatto coraggio anch’io.
Mi sono fatto coraggio e mi sono detto che l’unica era di ragionare. Ho ragionato cosí: se il vento aveva spinto la neve contro la macchina e contro il muraglione, era segno che veniva da mezzanotte, cioè dalla direzione del cantiere; non c’era che da sperare che il vento non cambiasse direzione e camminare dritto contro il vento. Magari non avrei trovato subito il cantiere, ma almeno mi sarei avvicinato, e avrei scartato il pericolo di girare in tondo come fanno le boie panatere quando vedono la luce. Cosí ho continuato a camminare contro vento, e ogni tanto accendevo la torcia per vedere indietro i miei passi, ma la neve li cancellava in un momento: oltre alla neve che continuava a venire dal cielo, si vedeva l’altra neve, quella che era sollevata dal vento, che filava via raso terra verso il buio, e fischiava come cento serpenti. Ogni tanto guardavo anche l’orologio, e era strano, a me mi pareva di camminare da un mese, e invece l’orologio sembrava che non si muovesse come se il tempo si fosse fermato. Tanto meglio per Compton, pensavo, cosí non lo troviamo duro come un merluzzo: ma garantito che anche lui lo trova lungo.
Basta, ho avuto fortuna. Dopo un due ore che camminavo, il cantiere non l’ho trovato, ma mi sono accorto che incrociavo la ferrovia, voglio dire il raccordo di servizio: i binari si capisce che non si vedevano, ma si vedevano quegli steccati che usano da quelle parti perché la neve non si accumuli sulle rotaie. Avevano servito proprio niente, ma hanno servito a me, perché sporgevano ancora un poco: cosí, seguendo contro vento la linea degli steccati, sono arrivato al cantiere. Il resto poi è andato liscio, avevano un cingolato fatto apposta per le emergenze, come dicono loro, e guardi che l’inglese è una lingua ben strana, perché dalla neve non c’era un bel niente che emergesse; era un bestione di sei tonnellate, che ha i cingoli larghi quasi un metro e cosí non affonda nella neve e va su per delle pendenze anche del quaranta per cento come ridere. Il guidatore ha acceso i fari, siamo tornati su in un momento, abbiamo trovato il posto, avevamo le pale, e abbiamo tirato fuori Compton, che era mezzo addormentato. Forse aveva già cominciato a perniciare, ma noi lo abbiamo scosso un poco, gli abbiamo dato un cicchetto che era contro i suoi principî ma lui non se n’è accorto, gli abbiamo fatto un massaggio, e dopo stava bene. Parlava poco, ma tanto era uno che parlava sempre poco. L’auto l’abbiamo lasciata lí.
Al cantiere mi hanno arrangiato su un pagliericcio, e io prima cosa mi sono fatto dare un’altra copia del libretto di montaggio, perché la prima era rimasta nella Chrysler a passare l’inverno. Ero stanco morto, e mi sono addormentato subito; ma per tutta quella notte non ho fatto che so...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- La chiave a stella
- «Meditato con malizia»
- Clausura
- L’aiutante
- La ragazza ardita
- Tiresia
- Off-shore
- Batter la lastra
- Il vino e l’acqua
- Il ponte
- Senza tempo
- La coppia conica
- Acciughe, I
- Le zie
- Acciughe, II
- Assonanze
- Cronologia della vita e delle opere di Primo Levi
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright