IV
LA MORTE DEL PADRE
L’indomani Goriot e Rastignac attendevano soltanto la buona volontà di un facchino per andarsene dalla pensione borghese, quando verso mezzogiorno il rumore di una carrozza che si fermava esattamente alla porta della casa Vauquer risuonò nella rue Neuve-Sainte Geneviève. La signora de Nucingen scese dalla carrozza, chiese se suo padre si trovasse ancora lì e, alla risposta affermativa di Sylvie, salì rapidamente le scale.
Eugène era in camera sua senza che il vicino lo sapesse. All’ora di colazione, infatti, aveva pregato papà Goriot di trasportagli la sua roba dicendo che si sarebbero ritrovati alle quattro in rue d’Artois; ma, mentre il vecchio era andato a cercare dei facchini, Eugène, dopo aver subito risposto all’appello della lezione, era rincasato senza che nessuno lo vedesse, per regolare il conto con la signora Vauquer, non volendo lasciare quel compito a Goriot che, nel suo fanatismo, avrebbe sicuramente pagato per lui. Siccome però la padrona di casa era uscita, Eugène era risalito in camera per vedere se non avesse dimenticato nulla, e si era congratulato con se stesso per quella precauzione quando scorse nel cassetto del tavolo la cambiale in bianco rilasciata a Vautrin, ch’egli aveva sbadatamente gettato là dentro il giorno in cui l’aveva saldata. Poiché il fuoco non era acceso stava per strapparla in piccoli pezzi quando, riconoscendo la voce di Delphine e non volendo fare alcun rumore, si fermò ad ascoltare, pensando che lei non dovesse avere alcun segreto per lui. Poi, sin dalle prime parole, giudicò che quella conversazione tra padre e figlia fosse troppo interessante per non ascoltarla.
«Ah, padre mio» diceva la donna «grazie al Cielo avete avuto l’idea di chieder conto del mio patrimonio appena in tempo perché io non fossi rovinata! Posso parlare?»
«Sì, la casa è vuota» disse Goriot con voce alterata.
«Ma che avete, papà?» riprese la signora de Nucingen.
«Mi hai dato una mazzata sul capo» rispose il vecchio; «Dio ti perdoni, figlia mia! Tu non sai quanto bene ti voglio; se lo sapessi, non mi avresti detto certe cose così bruscamente, soprattutto se nulla è ancora perduto. Che è accaduto di così urgente perché tu sia corsa a cercarmi, mentre tra qualche istante saremmo stati in rue d’Artois?»
«Ah, papà, si è forse padroni del primo impulso in una catastrofe? Divento pazza! Il vostro avvocato ci ha fatto scoprire un poco prima la sciagura che certamente esploderà più tardi. La vostra antica esperienza commerciale diventerà necessaria e io sono corsa a cercarvi come ci si aggrappa a un ramo quando si sta per annegare. Quando il signor Derville ha visto che Nucingen gli opponeva un’infinità di cavilli, l’ha minacciato di un processo, dicendo che l’autorizzazione del presidente del tribunale sarebbe stata ottenuta rapidamente. Stamane Nucingen è venuto da me per chiedermi se volevo la sua e la mia rovina e io gli ho risposto che non capivo nulla di queste cose, che possedevo un patrimonio e volevo essere in grado di disporne, che tutto quanto riguarda questo pasticcio è di competenza del mio avvocato e che io mi trovavo nella più assoluta ignoranza dei fatti e quindi nell’impossibilità di giudicarli in alcun modo. Non è così che mi avevate raccomandato di rispondere?»
«Benissimo» confermò papà Goriot.
dp n="281" folio="251" ? «Ebbene» riprese Delphine «lui mi ha messo al corrente dei suoi affari: ha messo tutte le sue sostanze e le mie in alcune imprese appena iniziate e per le quali si sono dovute investire somme ingenti; ora, se lo costringessi a restituirmi la dote, si troverebbe nella necessità di dichiarare fallimento; mentre se posso attendere un anno si impegna sul suo onore a rendermi una cifra doppia o tripla della mia, investendo il mio capitale in operazioni immobiliari alla fine delle quali sarei padrona di tutti i beni. Mio caro papà, era sincero e mi ha spaventata; mi ha chiesto perdono del suo comportamento, mi ha reso la libertà, mi ha dato il permesso di agire a mio piacimento, a condizione di lasciarlo interamente padrone di gestire gli affari sotto il mio nome. Per provarmi la sua buona fede mi ha promesso di chiamare il signor Derville ogni volta che lo desidererò, per giudicare se gli atti in forza dei quali mi nominerebbe proprietaria siano debitamente redatti. Insomma, si è messo totalmente nelle mie mani. Ha chiesto inoltre di poter dirigere la casa per altri due anni e mi ha supplicato di non spender per me più di quanto mi accorda. Mi ha provato che tutto quanto poteva fare era di salvare le apparenze, che aveva congedato la sua ballerina e che si sarebbe sottoposto alla più stretta e rigida economia allo scopo di arrivare al termine delle speculazioni senza intaccare il suo credito. Io l’ho maltrattato, ho messo in dubbio tutto quanto mi diceva per mandarlo su tutte le furie e saperne di più: mi ha mostrato i registri, e poi ha pianto. Non ho mai visto un uomo in simili condizioni: aveva perduto la testa, diceva che voleva uccidersi, delirava; insomma, mi ha fatto pena!»
«E tu credi alle sue fandonie!» esclamò papà Goriot. «È un commediante! In affari ho avuto rapporti con molti tedeschi: sono individui quasi tutti in buona fede e pieni di candore; ma quando, sotto la loro apparenza schietta e bonacciona, si mettono a essere maligni e ciarlatani, lo sono più degli altri. Tuo marito ti inganna perché si trova con le spalle al muro, e allora fa il morto, vuoi rimanere padrone col tuo nome più di quanto non sia col suo, e approfitterà di questa circostanza per mettersi al riparo dai rischi del suo commercio. È tanto astuto quanto perfido, è un mascalzone.
No, non me ne andrò al Père-Lachaise lasciando le mie figlie prive di tutto. M’intendo abbastanza di affari, e poiché egli sostiene di aver impegnato i suoi fondi in certe imprese, i suoi interessi saranno rappresentati da valori, da ricevute, da contratti: ebbene, che li esibisca questi documenti, e liquidi la tua parte. Sceglieremo le migliori speculazioni, rischieremo, e avremo titoli nominali intestati a Delphine Goriot, moglie separata quanto al beni dal barone de Nucingen. Ma ci prende forse per degli imbecilli? Crede che io possa sopportare per due giorni l’idea di lasciarti senza mezzi, senza pane? Non lo sopporterò neppure un giorno, né una notte, e nemmeno due ore! Se quest’idea fosse vera, non potrei sopravvivere. Ma come? Avrei lavorato per quarant’anni, avrei portato sacchi sulla schiena, avrei superato i peggiori rovesci, mi sarei lesinato il centesimo durante tutta la vita, per voi, angeli miei, che mi rendevate leggero ogni lavoro, ogni peso; e oggi il mio patrimonio, la mia vita, se ne andrebbero in fumo! Ne morirei di disperazione. Per tutto quello che c’è di più sacro sulla terra e in Cielo, metteremo in chiaro ogni cosa, verificheremo i registri, la cassa, le imprese! Non dormirò più, non mi coricherò più, non mangerò più finché non avrò la prova che il tuo denaro esiste ancora, tutto intero.
Grazie al Cielo, i tuoi beni sono separati; avrai come avvocato il signor Derville, il quale fortunatamente è un galantuomo. Per la miseria, conserverai il tuo bel milioncino, le tue cinquantamila lire di rendita, fino alla fine dei tuoi giorni, o io solleverò un pandemonio in tutta Parigi. Ah, ah, e se i tribunali ci daranno torto, mi rivolgerò alle Camere. Saperti tranquilla e felice per quanto riguarda il denaro... questo pensiero alleviava tutti i miei malanni e calmava i miei dolori. Il denaro è la vita, col denaro si ottiene tutto. E di che viene a cianciare ora, quel balordo di un alsaziano? Delphine, non concedere neppure un quarto di centesimo a quel mostro che ti ha legata alla catena e ti ha reso infelice. Se ha bisogno di te, lo lavoreremo per benino e lo faremo rigar dritto. Dio mio, ho la testa in fiamme, sento nel cranio qualcosa che brucia. La mia Delphine sul lastrico! Oh, Fifine mia, proprio tu! Per tutti i diavoli, dove sono i miei guanti? Su, andiamo, voglio veder tutto, i registri, gli affari, la cassa, la corrispondenza: immediatamente. Non mi calmerò fino a quando non avrò le prove che il tuo patrimonio non corre più rischi, e non lo vedrò coi miei occhi.»
«Mio caro papà, siate prudente! Se voi metteste in questo affare la minima velleità di vendetta, se mostraste intenzioni troppo ostili, io sarei perduta. Lui vi conosce, ha trovato assolutamente naturale che, consigliata da voi, mi preoccupassi della mia fortuna, ma vi giuro che la tiene ben salda nelle sue mani, e vuole conservarla. È il tipo capace di fuggire con tutti i capitali e di piantarci in asso. È uno scellerato! Sa bene che non sarei mai capace di denunciarlo, disonorando così il nome che porto. È forte e debole allo stesso tempo. Ho considerato tutto: se lo esasperiamo, sono rovinata.»
«Ma allora è proprio un farabutto?»
«Ebbene, sì, padre mio» disse la donna, accasciandosi in lacrime su di una sedia. «Non volevo confessarvelo per risparmiarvi il dolore di avermi maritata a un individuo del genere. Vizi nascosti e senso morale, anima e corpo, tutto si accorda in lui! È spaventoso: lo odio e lo disprezzo. Sì, non posso più stimare quel vile di Nucingen dopo tutto quello che m’ha detto: un individuo capace di gettarsi nelle speculazioni di cui mi ha parlato non possiede la minima delicatezza, e i miei timori vengono dal fatto che ho letto a fondo nel suo animo. Mi ha chiaramente proposto, lui, mio marito, la libertà — e sapete che significa questo? — qualora accettassi di essere, in caso di fallimento, uno strumento nelle sue mani, insomma se volessi servirgli da prestanome.»
«Ma ci sono le leggi! Ma esiste una place de Grève per gli individui di quella specie» gridò papà Goriot; «ma lo decapiterei con le mie stesse mani se non ci fosse il boia!»
«No, papà, non ci sono leggi contro di lui. Vi riassumo in due parole il suo discorso, lasciando da parte tutte le circonlocuzioni che lo avvolgevano: “O tutto è perduto, e voi non avete più un soldo e siete rovinata, perché non potrei scegliere altro complice che voi, oppure mi lascerete condurre a termine i miei affari”. È chiaro? Tiene ancora a me, perché la mia lealtà lo tranquillizza; sa che gli lascerei il suo patrimonio e mi accontenterei del mio. È un’associazione disonesta e ladresca alla quale devo acconsentire pena la miseria. Mio marito compra la mia coscienza, e la paga consentendomi di essere liberamente la donna di Eugène. “Ti permetto di commettere delle colpe, e tu lasciami perpetrare i miei delitti, anche se rovineranno della povera gente!” Non ti sembra abbastanza chiaro questo linguaggio? E sapete in che cosa consistono quelle che lui chiama le sue operazioni? Acquista sotto il proprio nome terreni abbandonati e vi fa costruire case da uomini di paglia; questi poi concludono le trattative per la costruzione con tutti gli appaltatori, pagandoli con cambiali a lunga scadenza, e consentono, mediante una piccola somma, a rilasciar quietanza a mio marito, il quale diviene così proprietario delle case, mentre quegli uomini si sdebitano con le imprese truffate dichiarando fallimento. Il nome dei Nucingen serve ad abbagliare i poveri costruttori, l’ho ben capito; e ho capito anche che per provare, in caso di bisogno, il pagamento di enormi somme, Nucingen ha inviato cifre notevoli ad Amsterdam, a Londra, a Napoli, a Vienna. Come faremmo a rintracciarle?»
dp n="285" folio="255" ? Eugène udì il tonfo sordo delle ginocchia di papà Goriot, che sicuramente si era lasciato cadere sul pavimento della camera.
«Dio mio, che ti ho fatto? Mia figlia fra le mani di quel miserabile che esigerà tutto da lei, se vuole!... Perdonami, figlia mia!» gridò il vecchio.
«Sì, se mi trovo in un baratro forse la colpa è anche un po’ vostra» sospirò Delphine. «Capiamo così poco, quando ci maritiamo! Conosciamo forse il mondo, gli affari, gli uomini, i costumi? Toccherebb...