Il castello d'Otranto
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Il castello d'Otranto

Horace Walpole, Oreste Del Buono

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Il castello d'Otranto

Horace Walpole, Oreste Del Buono

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Walpole ci fa tornare al medioevo di noi stessi. A quando la modernità era ancora bambina e aveva paura di tenere un piede fuori dalle coperte, la notte: paura che il razionalismo in agguato glielo amputasse con un morso. E allora botole, sotterranei, incesti diffratti, spettri che escono dai quadri. Che altro deve fare uno per esorcizzare gli orpelli dell'inconscio, telefonare a Jung?" - Giordano Meacci

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858661239

CAPITOLO PRIMO

MANFREDO, principe d’Otranto, aveva un figlio e una figlia: quest’ultima, una bellissima fanciulla, diciottenne, si chiamava Matilda. Corrado, il figlio, era di tre anni più giovane: un ragazzo brutto, malaticcio, che non prometteva nulla; tuttavia era il beniamino del padre, che non manifestava mai alcun segno d’affetto verso Matilda. Manfredo aveva progettato per suo figlio un matrimonio con la figlia del marchese di Vicenza, Isabella; e quella era già stata consegnata dai tutori nelle mani di Manfredo, in modo che le nozze potessero venire celebrate non appena le precarie condizioni di salute di Corrado lo avessero consentito.
L’impazienza di Manfredo per questa cerimonia era notata dai familiari e da quanti gli erano vicini; i primi invero, conoscendo la severità di carattere del principe, non osarono esprimere i loro sospetti su tanta fretta. Ippolita, sua moglie, un’amabile gentildonna, si azzardò a fargli notare il pericolo di dar moglie così presto al loro unico figlio, data la sua estrema giovinezza e la sua più grave infermità; ma ebbe in risposta solo considerazioni sulla sterilità di lei e sul fatto che era stata capace di dar alla luce un solo maschio. Feudatari e sudditi erano meno cauti nei loro discorsi: essi attribuivano queste nozze frettolose alla paura del principe di veder compiersi un’antica profezia, secondo la quale, si diceva, il castello e la signoria di Otranto sarebbero venuti a mancare alla presente famiglia, qualora il vero possessore fosse divenuto troppo grosso per abitarvi. Era difficile dare un senso a tale profezia; e ancor meno facile supporre che cosa potesse aver in comune col matrimonio in questione. Tuttavia questi misteri, queste contraddizioni non impedivano al popolino di restare della propria idea.
Il genetliaco del giovane Corrado fu fissato anche come giorno dei suoi sponsali. La compagnia era raccolta nella cappella del castello, e tutto era pronto per l’inizio del divino ufficio; ma proprio Corrado mancava. Manfredo, impaziente per quest’ultimo indugio, mandò uno dei servi a chiamare il giovane principe. Il domestico, rimasto assente neppure il tempo di attraversare il cortile sino all’appartamento di Corrado, tornò di corsa, senza fiato, con aria d’invasato, gli occhi sbarrati e la bava alla bocca: non disse nulla, ma indicò il cortile. La compagnia fu al colmo dello sbigottimento, dell’orrore, e la principessa Ippolita, senza sapere di che si trattasse, ma in ansia per il figliuolo, cadde in deliquio. Manfredo, meno inquieto che adirato per il ritardo delle nozze e per la follia del servo, chiese imperiosamente che cosa significasse tutto ciò. L’uomo non rispose, ma continuò a indicare verso il cortile; e alla fine, dopo essere stato ripetutamente interrogato, gridò: — L’elmo, l’elmo!
Nel frattempo qualcuno della compagnia era corso nel cortile, da cui proveniva ora un confuso rumore di grida di orrore e sorpresa. Manfredo, che incominciava a essere allarmato per l’assenza del figlio, andò di persona a rendersi conto della causa di quello strano subbuglio. Matilda rimase a cercar di soccorrere la madre; Isabella si fermò per lo stesso scopo e per risparmiarsi manifestazioni d’apprensione per il futuro sposo, verso il quale, invero, nutriva ben poco affetto.
La prima cosa che colpì la vista di Manfredo fu un gruppo di servi che cercavano di sollevare qualcosa che a lui parve una montagna di piume nere. Egli guardò senza credere ai propri occhi.
— Che state facendo? — gridò Manfredo irosamente. — Dov’è mio figlio?
Uno scoppio di voci gli rispose:
— Oh, signore, il principe, il principe! L’elmo, l’elmo!
Colpito da questi lamentevoli suoni e temendo, non sapeva neppur lui che cosa, Manfredo si avvicinò rapido, ma – quale spettacolo per gli occhi di un padre! – egli vide suo figlio fatto a pezzi, e quasi sepolto sotto un enorme elmo, cento volte più largo di qualsiasi elmo fabbricato per creatura umana, e ricoperto da una proporzionata quantità di penne nere.
L’orrore dello spettacolo, l’ignoranza di tutti i presenti sul modo in cui la disgrazia era accaduta, e, soprattutto, quella terribile cosa che gli stava davanti, lasciarono il principe senza parola. Tuttavia il suo silenzio durò più a lungo di quanto persino il dolore potesse giustificare; teneva gli occhi fissi su quanto si sforzava invano di considerare solo come un’allucinazione; e, più che intento a considerare la propria disgrazia, pareva sprofondato in meditazione sullo stupefacente oggetto che ne era stato la causa. Toccava, esaminava l’elmo fatale; e neppure i resti straziati e sanguinanti del giovane principe riuscivano a distogliere gli occhi di Manfredo dal prodigio che gli stava dinanzi. Tutti coloro che avevano conosciuto la sua predilezione e la sua tenerezza per il giovane Corrado erano più sorpresi dell’insensibilità del principe, che esterrefatti del portentoso elmo; e trasportarono il cadavere sfigurato nel vestibolo, senza ricevere la minima direttiva da Manfredo. Né costui fu più sollecito verso le gentildonne rimaste nella cappella; per contro, senza un minimo cenno alle infelici principesse, la moglie e la figliola, le prime parole che uscirono dalle labbra di Manfredo furono:
— Abbiate cura di Isabella.
I servi, senza notare la stranezza di quest’ordine, furono indotti dall’affetto verso la loro signora a ritenerlo particolarmente rivolto allo stato di lei, e corsero ad assisterla. La condussero in camera sua più morta che viva, e indifferente a tutte le strane circostanze di cui sentiva dire, eccetto la morte del figlio. Matilda, che adorava la madre, soffocava dolore e sgomento, e non pensava che ad assistere e confortare la sua disperata mamma. Isabella, che era stata trattata da Ippolita come una figlia, e che ricambiava quella tenerezza con pari devozione e affetto, era quasi altrettanto premurosa verso la principessa; e cercava di condividere e alleviare il peso del dolore per nascondere il quale vedeva lottare Matilda, cui la legavano ormai la più calda simpatia e amicizia. Tuttavia la propria situazione non poteva mancare di occuparle parte dei pensieri. Per la morte del giovane Corrado provava solo un sentimento di pietà; non le dispiaceva d’esser libera da un matrimonio che le prometteva ben poca felicità, sia a causa dell’animo incerto del promesso sposo, sia a causa dell’aspro carattere di Manfredo il quale, sebbene avesse eccezionalmente usato nei riguardi di Isabella una grande indulgenza, le aveva fatto una terribile impressione, per l’ingiusta severità ostentata verso principesse tanto amabili come Ippolita e Matilda.
Mentre le donne conducevano a letto la sventurata madre, Manfredo restava in cortile, fissando l’elmo funesto, senza curarsi della folla che lo strano avvenimento aveva raccolto intorno a lui. Le poche parole da lui articolate miravano unicamente a indagare se qualcuno conoscesse la possibile provenienza dell’elmo; ma nessuno sapeva dargli il minimo ragguaglio. Tuttavia, poiché questo pareva l’unico oggetto della sua curiosità, subito lo divenne anche per tutti gli altri spettatori, le cui congetture erano assurde e inverosimili, così come la stessa catastrofe era senza precedenti. Mentre s’intrecciavano quelle insensate ipotesi, un giovane contadino, che lo scalpore dell’avvenimento aveva attratto da un vicino villaggio, osservò che il prodigioso elmo era in tutto simile a quello dell’immagine in marmo nero di Alfonso il Buono, uno dei precedenti principi, nella chiesa di San Nicola.
— Villano, che dici? — proruppe Manfredo riscuotendosi dal suo torpore in uno scoppio di collera e afferrando il giovanotto per il colletto. — Come osi proferire una tale perfidia? Pagherai con la vita.
Gli astanti, che comprendevano tanto poco la causa dell’ira del principe quanto tutte le altre cose cui avevano assistito, erano incapaci di spiegarsi questa nuova circostanza. Lo stesso giovane contadino era anche più stupefatto, non riuscendo a capire in qual modo avesse offeso il principe; tuttavia, riavendosi, con un misto di garbo e di umiltà, si sciolse dalla stretta di Manfredo, poi, con un gesto reverente che mostrava più apprensione per la propria innocenza che spavento, chiese rispettosamente di che cosa fosse colpevole. Manfredo, più adirato dalla forza – anche se moderatamente usata – con cui il giovanotto si era sciolto dalla sua presa, che placato dalla sua sottomissione, ordinò ai servi di prendere il malcapitato e, se non fosse stato trattenuto dagli amici che aveva invitato alle nozze, avrebbe pugnalato il contadino tra le loro braccia.
Durante l’alterco qualcuno dei popolani presenti era corso alla grande chiesa che si trovava vicino al castello, e ne era ritornato a bocca aperta, dichiarando che dalla statua di Alfonso mancava l’elmo. Manfredo, a quest’ultima notizia, divenne addirittura frenetico; e, come se cercasse un oggetto su cui sfogare la tempesta che gli covava dentro, si scagliò di nuovo contro il giovane contadino, urlando:
— Villano, mostro, stregone! Tu hai fatto questo! Tu sei l’assassino di mio figlio!
La folla, che desiderava un oggetto alla portata delle proprie capacità intellettive su cui poter riversare e sfogare lo sbalordimento, raccolse le parole dalla bocca del principe e ripeté come un’eco: — Sì, sì, è lui, è lui: ha rubato l’elmo dalla tomba del buon Alfonso, e con quello ha frantumato le cervella del nostro giovane principe, — senza considerare affatto quale enorme differenza corresse tra l’elmo di marmo che era prima in chiesa, e quello d’acciaio che si trovava davanti ai lor occhi, né come fosse impossibile per un giovane che non sembrava avere ancora vent’anni maneggiare un capo d’armatura di peso sì rilevante.
La follia di queste grida fece tornare in sé Manfredo; tuttavia, sia che fosse ancora irritato col contadino che aveva notato la somiglianza tra i due elmi, e di conseguenza condotto all’ulteriore scoperta della mancanza di quello in chiesa, o che desiderasse far tacere ogni nuova chiacchiera circa quell’impudente supposizione, annunciò gravemente agli astanti che il giovane era certamente uno stregone; e che, sin quando la Chiesa non fosse giunta a un’opinione sull’accaduto, egli avrebbe tenuto prigioniero sotto lo stesso elmo il mago da loro in tal modo scoperto; e ordinò ai servi di sollevare l’elmo e di mettervi sotto il giovane, dichiarando che lo avrebbe tenuto senza cibo, di cui le sue arti infernali ben avrebbero potuto rifornirlo.
Fu inutile per il giovane protestare contro questa assurda sentenza; inutilmente gli amici di Manfredo cercarono di farlo desistere da una tale decisione crudele e insensata. I più tra i presenti apparivano entusiasti della deliberazione del proprio signore che a loro giudizio aveva l’aspetto di’ grande giustizia, in quanto il mago sarebbe stato punito proprio con lo strumento con cui aveva offeso; né furono presi dal minimo rimorso per l’eventualità che il giovane morisse di fame; infatti erano fermamente convinti che, con la sua diabolica abilità, costui sarebbe stato in grado di provvedersi agevolmente il nutrimento.
Così Manfredo vide i suoi ordini eseguiti persino di buon grado; e nominata una guardia, con ordini rigorosi d’impedire che si portasse cibo al prigioniero, licenziò gli amici e la scorta, e si ritirò in camera sua, dopo aver sbarrato le porte del castello, in cui non permise che restassero altri che i servi.
Nel frattempo le cure e lo zelo delle giovani donne avevan fatto rinvenire la principessa Ippolita, la quale, tra gli accessi del dolore, chiedeva di continuo notizie del suo signore; avrebbe voluto licenziare quanti la circondavano perché vegliassero su di lui e alla fine ingiunse a Matilda di lasciarla, di visitare il padre e recargli conforto. Matilda, che non nutriva per Manfredo né affetto né devozione, e tuttavia tremava davanti alla sua severità, obbedì agli ordini di Ippolita, che raccomandò teneramente a Isabella; e, chiedendone ai domestici del padre, fu informata che costui si era ritirato nel proprio appartamento e aveva ordinato che nessuno fosse ammesso alla sua presenza.
Credendolo immerso nel dolore per la morte del figlio e temendo di rinnovare in lui lacrime e sconforto con la propria presenza, Matilda era incerta se disturbare quella solitudine; ma l’apprensione per il padre, alla quale si univano le ingiunzioni della madre, le diedero il coraggio d’osar di disubbidire agli ordini impartiti: una colpa di cui non si era mai macchiata. La gentile timidezza della sua natura la fece indugiare qualche minuto alla porta; sentì il padre camminare avanti e indietro per la camera a passi agitati, un fatto che accrebbe la sua preoccupazione. Tuttavia stava proprio per chiedere il permesso d’entrare quando Manfredo improvvisamente aprì la porta; poiché era quasi buio ora, ciò che in lui aumentava il turbamento dell’animo, non riconobbe la persona, ma chiese irosamente:
— Chi è?
Matilda rispose tremando:
— Mio diletto padre, sono io, vostra figlia.
Manfredo, indietreggiando rapidamente, gridò:
— Vattene, non desidero una figlia; — e, fuggendo a precipizio, sbatté la porta sul viso all’atterrita Matilda.
Ella conosceva troppo bene la violenza del padre per tentare una seconda intrusione. Quando si fu un poco riavuta dal colpo dell’accoglienza tanto rude, si asciugò le lacrime per impedire la nuova pena che la conoscenza di questo fatto avrebbe recato a Ippolita. Quella le chiese con accenti colmi di ansietà delle condizioni di Manfredo e di come sopportasse la disgrazia; Matilda l’assicurò che Manfredo stava bene e che sopportava la sventura con gran forza.
— Ma non mi permetterà di vederlo? — disse tristemente Ippolita; — non mi permetterà di mescolare le mie lacrime con le sue, e di versare il mio dolore di madre sul petto del mio signore? Oppure tu mi inganni, Matilda? Io so che Manfredo adorava suo figlio: il colpo non è stato troppo grave per lui? non ne è sopraffatto? Tu non mi rispondi, ahimè, temo il peggio... Alzatemi, ragazze mie; io voglio, voglio vedere il mio signore. Portatemi subito da lui, che mi è più caro dei miei stessi figli.
Matilda fe’ cenno a Isabella d’impedire che Ippolita si levasse; e le due amabili fanciulle facevano gentile violenza alla principessa per fermarla e calmarla, quando giunse un servitore da parte di Manfredo, e comunicò a Isabella che il suo signore chiedeva di parlare con lei.
— Con me! — esclamò Isabella.
— Va’, — disse Ippolita, sollevata da questo messaggio del signore; — Manfredo non ha forza di sopportare la vita dei familiari: pensa che tu sia meno turbata di noi e teme di venir turbato dal mio dolore. Consolalo, Isabella cara, e digli che io soffocherò il mio dolore piuttosto che aggiungerlo al suo.
Poiché era già sera, il servo che conduceva Isabella portava una torcia innanzi a lei. Quando giunsero da Manfredo, che camminava impaziente per la galleria, costui trasalì e disse irosamente al servo: — Porta via quella luce, e vattene. — Poi, chiudendo violentemente la porta, si buttò su una panca contro il muro e comandò a Isabella di sedersi accanto a lui. Ella obbedì tremando.
— Ho mandato a chiamarvi, mia cara, — disse, poi si arrestò, con aria estremamente confusa.
— Signore...
— Sì, vi ho fatto chiamare per una questione di grande importanza, — riprese: — Asciugate le vostre lacrime, Isabella: voi avete perduto il vostro sposo. Sì destino crudele! – e io ho perso la speranza della mia stirpe; ma Corrado non era degno della vostra bellezza.
— Come, signore, — disse Isabella; — non vorrete sospettare che non nutrissi i sentimenti che dovevo: la devozione e l’affetto che avrei conservato sempre?
— Non pensate più a lui, — la interruppe Manfredo, — era un ragazzo debole, malaticcio; e forse il cielo lo ha rapito perché io non dovessi affidare l’onore del mio casato a così deboli fondamenta: la discendenza di Manfredo richiede numerosi sostegni, e la mia folle tenerezza per quel ragazzo ha accecato la mia prudenza; ma è meglio così. Io spero, tra pochi anni, di aver motivo di gioire della morte di Corrado.
Le parole non possono descrivere lo stupore di Isabella: dapprima temette che il dolore avesse sconvolto la mente di Manfredo; il suo secondo pensiero le suggerì che quello strano discorso avesse lo scopo di prenderla in trappola: temeva che Manfredo avesse intuito la sua indifferenza verso il figlio, e in seguito a questa supposizione, rispose:
— Mio buon signore, non abbiate dubbi sulla mia tenerezza; il mio cuore avrebbe seguito la mia mano. Corrado avrebbe occupato ogni mio affetto; e, in qualsiasi modo il destino vorrà disporre di me, avrò sempre cara la sua memoria e considererò Vostra Altezza e la virtuosa Ippolita come miei genitori.
— Maledizione a Ippolita! — gridò Manfredo. — Dimenticatela fin da questo momento, come faccio io. In breve, Isabella, voi avete perduto un marito immeritevole delle vostre grazie... se ne disporrà meglio ora, e, invece di un ragazzo malaticcio, voi avrete un marito nel fiore degli anni, che saprà apprezzare le vostre bellezze e che potrà confidare in una numerosa discendenza.
— Ahimè, signore, — rispose Isabella, — la mia mente è troppo dolorosamente occupata dalla catastrofe che ha appena colpito la vostra famiglia per poter pensare a un altro matrimonio. Se mai mio padre ritornerà ed esprimerà ancora una volta il suo desiderio, obbedirò, come feci quando acconsentii a concedere la mia mano a vostro figlio; ma, sino al suo ritorno, permettetemi di restare sotto questo tetto ospitale e di impiegare le mie tristi ore alleviando la pena vostra, di Ippolita e di Matilda.
— Vi ho già una volta espresso il desiderio, — l’interruppe Manfredo pieno di collera, — che non nominiate quella donna: da questo momento lei dev’essere un’estranea per voi, come lo deve essere per me: in breve, Isabella, poic...

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Stili delle citazioni per Il castello d'Otranto

APA 6 Citation

Walpole, H., & Buono, O. D. (2013). Il castello d’Otranto ([edition unavailable]). BUR. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3380273 (Original work published 2013)

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Walpole, Horace, and Oreste Del Buono. (2013) 2013. Il Castello d’Otranto. [Edition unavailable]. BUR. https://www.perlego.com/book/3380273.

Harvard Citation

Walpole, H. and Buono, O. D. (2013) Il castello d’Otranto. [edition unavailable]. BUR. Available at: https://www.perlego.com/book/3380273 (Accessed: 17 June 2024).

MLA 7 Citation

Walpole, Horace, and Oreste Del Buono. Il Castello d’Otranto. [edition unavailable]. BUR, 2013. Web. 17 June 2024.