Il Museo dell'innocenza
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Il Museo dell'innocenza

  1. 592 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Il Museo dell'innocenza

Informazioni su questo libro

Entrato in un negozio per comprare una borsa alla fidanzata, Kemal Basmaci, trentenne rampollo di una famiglia altolocata di Istanbul, si imbatte in una commessa di straordinaria bellezza: la diciottenne Füsun, sua lontana cugina. Fra i due ha ben presto inizio un rapporto anche eroticamente molto intenso, che travalica le leggi morali della Turchia degli anni Settanta. Kemal tuttavia non si decide a lasciare Sibel, la fidanzata: per quanto di mentalità aperta e moderna, in lui sono comunque molto radicati i valori tradizionali (e anche un certo opportunismo); vuole la moglie ricca e la bella amante povera, il matrimonio e l' amour fou, i party a base di champagne (importato clandestinamente) della Istanbul bene e la seducente atmosfera di una stanza in un appartamento disabitato. Così si fidanza, con un sontuoso ricevimento all'Hilton. E perde tutto: sconvolta dal suo comportamento, Füsun scompare, mentre Kemal, preda di una passione che non gli dà tregua e mosso da una struggente nostalgia, trascura gli affari, si ritrae sempre più dal suo ambiente e alla fine scioglie il fidanzamento.
Quando, dopo atroci patimenti, i due amanti si ritrovano, nella vita di Füsun tutto è cambiato. Kemal però non si dà per vinto. In assoluta castità, continua a frequentarla per otto lunghi anni, durante i quali via via raccoglie un'infinità di oggetti che la riguardano: cagnolini di porcellana, apriscatole, righelli, orecchini, mozziconi di sigarette, ditali, saliere, mutandine, grattugie per mele cotogne... Poterli guardare, assaggiare, toccare, annusare, è spesso la sua unica fonte di conforto.
E quando la sua esistenza subisce una nuova dolorosa svolta, quegli stessi oggetti confluiranno nel Museo dell'innocenza, destinato a rendere testimonianza del suo amore per Füsun nei secoli futuri.
La storia di una incontenibile passione, ma allo stesso tempo uno sguardo ora severo, ora ironico, ma certamente non privo di profondo affetto sulla Istanbul di quegli anni e sulla sua contraddittoria borghesia, sempre scissa, allora come oggi, fra tradizione e modernità, fra Oriente e Occidente.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2012
Print ISBN
9788806198084

1. L’ISTANTE PIÚ FELICE DELLA MIA VITA

Era l’istante piú felice della mia vita, e non me ne rendevo conto. Se l’avessi capito, se allora l’avessi capito, avrei forse potuto preservare quell’attimo e le cose sarebbero andate diversamente? Sí, se avessi intuito che quello era l’istante piú felice della mia vita non mi sarei lasciato sfuggire una felicità cosí grande per nulla al mondo. Quell’istante prezioso che avvolse il mio corpo in un abbraccio profondo e sereno forse durò solo qualche secondo, è vero, ma la felicità di quel momento parve proseguire per ore, estendersi per anni. Era il 26 maggio 1975, un lunedí, all’incirca le tre meno un quarto: in quell’istante ebbi la sensazione che ci fossimo liberati da tutti gli opprimenti sensi di colpa, dal peccato, dal castigo e dal pentimento, e che il mondo si fosse sottratto alle leggi della gravità e del tempo. Baciai la spalla di Füsun, sudata per il caldo e il sesso, l’abbracciai dolcemente da dietro e penetrai dentro di lei, mordicchiandole l’orecchio sinistro. Per un lungo istante l’orecchino rimase quasi sospeso nell’aria e poi cadde. Quel giorno non notai quale forma avesse. Eravamo cosí felici che fingemmo di non accorgercene e continuammo a baciarci.
Fuori il cielo era terso, il cielo tipico delle giornate di primavera a Istanbul. Il caldo faceva sudare la gente che non era riuscita a spogliarsi delle abitudini invernali, ma all’interno degli edifici, dentro i negozi, sotto i tigli e i castagni, l’aria era ancora fresca. Avevamo la sensazione che un simile refrigerio provenisse anche dall’interno del vecchio materasso maleodorante di muffa su cui avevamo fatto l’amore dimenticandoci di tutto e tutti come due bambini felici. Dalla finestra aperta del balcone soffiò una brezza primaverile profumata di mare e di tiglio che fece trasalire i nostri corpi nudi e sollevò le tende di tulle lasciandole poi ricadere lentamente. Dal letto su cui giacevamo, nella camera che dava sul retro dell’appartamento al secondo piano, sentendo i ragazzini che giocavano a pallone in giardino insultarsi nella calura di maggio, ci rendemmo conto che stavamo mettendo in pratica tutte le oscenità che loro si lanciavano a vicenda. Smettemmo per un attimo di fare l’amore e, guardandoci negli occhi, ci sorridemmo. Ma la nostra felicità era cosí profonda, cosí grande che, proprio com’era accaduto per l’orecchino, ci dimenticammo subito di quello scherzo che la vita ci inviava dal giardino sul retro.
Quando ci incontrammo il giorno dopo, Füsun mi disse che non trovava piú uno dei suoi orecchini. A dire il vero l’avevo visto dopo che lei se n’era andata, sul letto, tra le lenzuola azzurre – sul ciondolo c’era l’iniziale del suo nome – ma, anziché metterlo da parte, mosso da qualcosa di indefinibile, l’avevo riposto nella tasca della mia giacca perché non andasse perso. – È qui, tesoro, – esclamai. Infilai la mano nella tasca destra della giacca appesa allo schienale della sedia. – Ah no, non c’è, – aggiunsi. Per un attimo ebbi come la sensazione di una disgrazia incombente, come un cattivo presagio, ma subito dopo mi ricordai che, poiché la mattinata era stata molto calda, avevo indossato un’altra giacca. – È rimasto nella tasca dell’altra giacca.
– Domani portamelo, per favore, non dimenticartene, – replicò Füsun, spalancando gli occhi. – È molto importante per me.
– D’accordo.
Füsun era una mia lontana parente, aveva diciotto anni ed era di condizioni modeste. Fino a un mese prima non mi ricordavo nemmeno piú della sua esistenza. Quanto a me, avevo trent’anni ed ero sul punto di fidanzarmi e sposarmi con Sibel, con cui – a detta di tutti – formavo proprio una bella coppia.

2. LA BOUTIQUE CHAMPS-ÉLYSÉES

Tutti gli avvenimenti e le coincidenze che cambiarono la mia vita ebbero inizio un mese prima, e cioè il 26 aprile 1975, quando Sibel e io notammo una borsa della famosa marca Jenny Colon nella vetrina di un negozio. Stavamo passeggiando lungo viale Valikonağı, godendoci la fresca serata di primavera, leggermente brilli e infinitamente felici. Durante la cena al Fuaye, un raffinato ristorante inaugurato poco tempo prima nel quartiere di Nişantaşı, parlammo a lungo con i miei genitori dei preparativi per il nostro fidanzamento. Si sarebbe tenuto a metà giugno per dare a Nurcihan, l’amica di Sibel degli anni parigini e sua compagna al liceo Dame de Sion, la possibilità di partecipare alla cerimonia. Sibel aveva ordinato con molto anticipo il suo abito a Ismet Mani di Fata, a quei tempi il sarto piú in vista e piú caro di Istanbul, e quella sera si discusse per la prima volta di come ricamare sul vestito le perle che mia madre le avrebbe donato per l’abito. Per la sua unica figlia, il mio futuro suocero voleva organizzare una cerimonia sfarzosa quanto un matrimonio, e mia madre era molto soddisfatta della cosa. Anche mio padre era felicissimo di avere una nuora come Sibel, una ragazza che aveva studiato alla Sorbona: in quegli anni, parlando delle giovani donne educate in una qualche scuola parigina, la buona borghesia di Istanbul diceva sempre e comunque: «Ha studiato alla Sorbona».
Dopo cena, mentre riportavo Sibel a casa, le avvolsi un braccio intorno alle spalle stringendola a me, e pensai con orgoglio a quanto fossi felice e fortunato. A un certo punto, passando davanti a una vetrina, Sibel disse: – Che bella borsa! – Nonostante avessi la mente offuscata dal vino, memorizzai sia la borsa sia il negozio e il giorno dopo, all’ora di pranzo, andai subito a comprarla. A dire il vero non ero uno di quegli uomini che riempiono le donne di regali, sapete, di quelli che trovano immancabilmente un pretesto per mandare dei fiori, che sono sempre cortesi e gentili, dei dongiovanni nati insomma… ma, chissà, forse quel giorno volevo diventarlo. A quei tempi le casalinghe ricche e occidentalizzate di Istanbul, annoiate dalla vita domestica nei quartieri bene della città come Şişli, Nişantaşı, Bebek, non aprivano gallerie d’arte come oggi, ma boutique, dove cercavano di rifilare alle altre casalinghe ricche e annoiate, a prezzi spropositati, abiti alla moda copiati dalle riviste straniere come «Elle» e «Vogue», quando non trafugati in valigia direttamente da Parigi e Milano, e altre cianfrusaglie e collane di contrabbando. La titolare della boutique Champs-Élysées, la signora Şenay, quando la incontrai anni dopo, mi ricordò di essere una mia lontana parente da parte di madre, proprio come Füsun.
Quando in seguito – senza chiedermi i motivi del mio smodato interesse per ogni cosa che riguardava Füsun e la boutique Champs-Élysées – la signora Şenay mi diede tutto ciò che ancora possedeva (compresa l’insegna sopra la porta d’ingresso del negozio), intuii che a conoscere alcuni momenti particolarmente curiosi della storia che avevamo vissuto non fosse solo lei, ma un’intera schiera di persone, ben piú folta di quanto immaginassi.
Il giorno dopo, verso la mezza, quando entrai nella boutique, la campanella di bronzo sopra la porta tintinnò: un ricordo che mi riempie di emozione ancora adesso. Era primavera, ma nel caldo di mezzogiorno l’interno del negozio era buio e fresco. Subito pensai che dentro non ci fosse nessuno. Solo dopo mi accorsi di Füsun. I miei occhi, abbagliati dal sole cocente, stavano ancora cercando di abituarsi al buio del negozio eppure, per qualche motivo, il cuore mi balzò in gola, gonfio come una gigantesca onda che sta per infrangersi sulla spiaggia.
– Vorrei acquistare la borsa in vetrina, quella sul manichino, – dissi.
È bellissima, pensai, ed è anche molto attraente.
– La borsa color crema Jenny Colon?
Quando i nostri sguardi si incrociarono, immediatamente mi ricordai di lei.
– Quella sul manichino, – sussurrai, come dentro un sogno.
– Ho capito, – replicò, e si diresse verso la vetrina. Con un gesto si tolse la scarpa sinistra, gialla, con il tacco alto, mise il piede nudo – aveva le unghie accuratamente smaltate di rosso – sul pavimento della vetrina e si allungò verso il manichino. Le guardai prima la scarpa vuota, poi le gambe lunghe e bellissime. A fine aprile erano già abbronzate.
La gonna gialla con la cerniera e i ricami fioriti, dato che aveva le gambe molto lunghe, sembrava piú corta di quanto in realtà non fosse. Prese la borsa, passò dietro al bancone e con un’aria estremamente seria, quasi misteriosa, come se mi stesse svelando un segreto intimo, con mani sapienti e affusolate aprí la cerniera della borsa (da cui estrasse un mucchio di carta velina color crema), i due piccoli scompartimenti (erano vuoti) e un altro scompartimento nascosto da cui tirò fuori un biglietto con il marchio Jenny Colon e la garanzia. Per un attimo i nostri sguardi si incontrarono.
– Ciao, Füsun. Come sei cresciuta. Probabilmente non mi hai riconosciuto.
– No, Kemal, io l’ho riconosciuta subito: è lei che non si è ricordato. Ho preferito non importunarla.
Ci fu un breve silenzio. Guardai il punto della borsa indicatomi da lei un attimo prima. La sua bellezza, la minigonna (estremamente corta per quei tempi), o forse qualcos’altro, mi avevano turbato: non riuscivo a comportarmi in modo naturale.
– Cosa fai di bello?
– Mi sto preparando per l’esame di ammissione all’università. Vengo qui tutti i giorni. In negozio conosco gente nuova.
– Molto bene. Quanto costa questa borsa?
– Millecinquecento lire –. Lesse la minuscola etichetta scritta a mano sotto la borsa aggrottando le sopracciglia (a quei tempi una tale cifra corrispondeva a sei stipendi di un giovane impiegato). – Ma sono sicura che la signora Şenay le farà un po’ di sconto. È andata a casa per pranzo. Adesso starà dormendo, non posso chiamarla, mi capisce? Se passa di qui oggi pomeriggio però…
– Non importa, – risposi, ed estratto il portafoglio dalla tasca posteriore dei pantaloni con un gesto che in seguito, durante i nostri incontri clandestini, Füsun, per prendermi in giro, imitò piú volte, iniziai a contare le banconote umide. Füsun, con mano inesperta ma meticolosa, avvolse la borsa in un foglio di carta e la mise in un sacchetto di plastica. Sapeva che in quel silenzio stavo scrutando le sue lunghe braccia color miele e i suoi movimenti agili ed eleganti. Quando, con un gesto professionale e gentile, mi porse la borsa, la ringraziai. – I miei rispetti a zia Nesibe e a tuo padre (per un attimo non mi venne in mente il nome del signor Tarık), – dissi. Ebbi una leggera esitazione: la mia anima aveva abbandonato il mio corpo e nell’angolo di paradiso in cui si era rifugiata stava abbracciando Füsun e la baciava. Mi affrettai verso la porta. Era solo una sciocca fantasia, e poi Füsun non era nemmeno cosí graziosa. La campanella sulla porta tintinnò: sentii che un canarino si era messo a cinguettare. Uscii in strada, c’era un piacevole tepore. Soddisfatto del mio regalo, e profondamente innamorato di Sibel, decisi di dimenticare il negozio e Füsun.

3. LONTANI PARENTI

Tuttavia, la sera a cena intavolai il discorso con mia madre e le raccontai, senza scendere troppo nei particolari, che, comprando la borsa a Sibel, mi ero imbattuto in Füsun, la nostra lontana parente.
– Ah, sí, la figlia di Nesibe. Lavora qui al negozio di Şenay… che peccato! – esclamò mia madre. – Ormai madre e figlia non le vediamo nemmeno alle feste comandate. Quel concorso di bellezza è stato una rovina. Anche se passo tutti i giorni davanti al negozio, non mi viene spontaneo salutare quella povera ragazza… be’, a dire il vero, neanche me ne ricordo. Eppure quand’era piccola le ero molto affezionata. A volte, quando Nesibe veniva per dei lavori di cucito, si portava dietro anche lei. Tiravo fuori i vostri giocattoli dall’armadio e glieli davo, cosí, mentre sua madre cuciva, lei giocava in silenzio. Anche zia Mihriver, pace all’anima sua, la madre di Nesibe, era una cara persona.
– Di preciso che parentela abbiamo?
Visto che mio padre guardava la televisione e non ci stava ascoltando, mia madre mi raccontò, non senza ricamarci un po’ sopra, che suo padre (cioè mio nonno Ethem Kemal) era nato lo stesso anno di Atatürk e, come risulta dalla prima di queste foto che trovai anni dopo, aveva frequentato la stessa scuola elementare del fondatore della Repubblica, la scuola Şemsi Effendi. Quando non aveva ancora ventitre anni, prima di sposarsi con mia nonna, era già convolato a nozze in fretta e furia con la sua prima moglie. Questa povera ragazza (cioè la bisnonna di Füsun), proseguí mia madre, era morta nella Guerra dei Balcani, durante la liberazione di Edirne. Non aveva avuto figli da mio nonno Ethem Kemal, ma in passato aveva avuto una figlia di nome Mihriver da uno sceicco spiantato con cui, secondo mia madre, si era sposata cosí giovane che doveva essere «ancora in fasce». Mia madre ci aveva sempre ripetuto che avremmo dovuto considerare zia Mihriver (nonna di Füsun) e sua figlia Nesibe (madre di Füsun) come parenti acquisite cresciute da alcune bizzarre persone e non come consanguinee vere e proprie, e voleva, chissà perché, che queste donne (che sebbene acquisite erano pur sempre parenti) le chiamassimo tutte indistintamente «zia». Tempo prima mia madre (il suo nome è Vecihe) le aveva offese durante una visita per qualche festa comandata: si era comportata con freddezza ed eccessivo distacco con queste lontane parenti ridotte in miseria, che abitavano in una stradina nel quartiere di Teşvikiye. Il motivo era che mia madre si era decisamente arrabbiata perché due anni prima, quando Füsun aveva sedici anni e studiava al liceo femminile di Nişantaşı, zia Nesibe non si era opposta alla sua partecipazione a un concorso di bellezza: anzi, come venimmo a sapere successivamente, l’aveva incoraggiata; piú che altro mia madre voltò loro le spalle perché, dai pettegolezzi che udí in seguito, venne a sapere che zia Nesibe, un tempo da lei amata e protetta, invece di vergognarsi della partecipazione a questo concorso (come si doveva fare), ne andava fiera.
Zia Nesibe, al contrario, voleva davvero bene e aveva molta considerazione per mia madre, di vent’anni piú grande di lei. Anche perché, quando da ragazza zia Nesibe viveva facendo lavori a domicilio nei quartieri bene di Istanbul, mia madre l’aveva aiutata molto.
– Erano sul lastrico, – spiegò mia madre. Poi, temendo di aver esagerato, aggiunse: – Ma non erano le sole: tutta la Turchia era povera a quei tempi –. In quegli anni mia madre raccomandava zia Nesibe alle sue amiche, dicendo: «È proprio una brava persona oltre che una brava sarta», e una volta all’anno (a volte due) la invitava a casa nostra per commissionarle un abito da cerimonia per un ricevimento o un matrimonio.
Quando veniva per qualche lavoro, raramente la incontravo: di solito ero a scuola. Ma alla fine di agosto del 1956, mia madre invitò Nesibe nella casa di villeggiatura, a Suadiye, perché aveva urgente bisogno di un abito per un matrimonio.
Nella piccola stanza sul retro al secondo piano, da dove tra le foglie di palma si intravedevano le barche, i motoscafi e i bambini che felici si tuffavano in mare, le due donne, lamentandosi del caldo, delle zanzare, della fretta, scherzando e ridendo come due sorelle, cucirono per ore fino a notte fonda. Per ore trafficarono intorno alla Singer di mia madre, perse tra ritagli di stoffa, pizzi, forbici, punteruoli, metri da sarta, ditali saltati fuori come per magia dalla scatola per il cucito di Nesibe (sul coperchio era raffigurato un panorama di Istanbul). Ricordo che Bekri, il cuoco, continuava a portare bicchieri di limonata in quella stanzetta afosa che odorava di velluto. Quando pranzavamo tutti insieme mia madre, scherzando, gli diceva: «A una donna incinta deve dare subito tutto ciò...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il Museo dell’innocenza
  4. 1. L’istante piú felice della mia vita
  5. 24. Il fidanzamento
  6. 43. Le giornate fredde e solitarie di novembre
  7. 57. Non riuscire ad alzarsi e andarsene
  8. 65. I cagnolini
  9. 76. I cinema di Beyoğlu
  10. Mappa di Istanbul
  11. Indice delle persone
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright