I.
DEI POSSIBILI RAPPORTI TRA FILOSOFIA POLITICA E SCIENZA POLITICA.
Il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica è un problema a molte facce, perché, fermo restando il significato di uno dei due termini, cioè di «scienza politica», da intendersi come studio dei fenomeni politici condotto con la metodologia delle scienze empiriche e utilizzando tutte le tecniche di ricerca proprie della scienza del comportamento, se l’altro termine «filosofia politica» viene usato, come di solito accade, in significati tra loro molto diversi, anche i rapporti tra l’uno e l’altro si pongono inevitabilmente in modo diverso.
Lo scopo principale delle pagine che seguono è di mostrare che ad ogni accezione di «filosofia politica» corrisponde un modo diverso di porre il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica, e quindi di mettere in guardia chiunque sia tentato di credere che il problema abbia una sola soluzione. Credo che un’impostazione di questo genere possa servire tra l’altro a mettere in evidenza una delle ragioni della confusione che regna in questa materia.
Mi pare si possano distinguere almeno quattro significati diversi di «filosofia politica».
1. Il modo piú tradizionale e piú corrente d’intendere la filosofia politica è d’intenderla come descrizione, progettazione, teorizzazione dell’ottima repubblica o, se si vuole, come la costruzione di un modello ideale di stato, fondato su alcuni postulati etici ultimi, di cui non ci si preoccupa se, quanto, come possa essere effettivamente e totalmente realizzato. Appartengono a questa stessa forma di pensiero anche certe «utopie a rovescio», di cui si sono avuti esempi notissimi soprattutto nell’ultimo secolo, le quali consistono nella descrizione non dell’ottima ma della pessima repubblica o, se si vuole, del modello ideale dello stato che non si deve realizzare.
2. Un secondo modo d’intendere la filosofia politica è di considerarla come la ricerca del fondamento ultimo del potere, che permette la risposta alla domanda: «A chi devo ubbidire? e perché?» Si tratta qui del problema ben noto della natura e della funzione dell’obbligazione politica. In questa accezione la filosofia politica si risolve tutta quanta nella soluzione del problema della giustificazione del potere ultimo, o, in altre parole, nella determinazione di uno o piú criteri di legittimità del potere. Quando ci si riferisce, ad esempio, alla filosofia politica moderna, e vi si comprendono scrittori come Hobbes e Locke, Rousseau e Kant, De Maistre e Hegel, ci si riferisce a teorie che partendo generalmente da presupposti filosofici sulla natura umana, sulla natura della società e della storia, mirano a addurre buone ragioni, anzi le migliori ragioni, per cui il potere ultimo debba (o non debba in determinati casi) essere ubbidito, cioè a dare una giustificazione dell’obbligo politico e a delimitarne l’ambito. Tutte le filosofie politiche secondo questa accezione si potrebbero classificare secondo i diversi criteri di legittimazione del potere che sono stati di volta in volta adottati.
3. Per «filosofia politica» si può intendere anche la determinazione del concetto generale di «politica», come attività autonoma, o guisa o forma dello Spirito, come avrebbe detto un idealista, che ha le sue peculiari caratteristiche che la distinguono tanto dall’etica quanto dall’economia o dal diritto o dalla religione. Allo stesso modo si dice che il compito della filosofia del diritto è la determinazione del concetto di diritto. Ho l’impressione che questa sia stata, per influenza soprattutto di Croce che si richiamava al Machiavelli come allo scopritore della categoria della politica, l’accezione prevalente in Italia. Quando da noi si parla di filosofia politica, il pensiero corre immediatamente, non tanto come farebbe uno studioso inglese al problema dell’obbligazione politica, quanto al problema della distinzione tra politica e morale, tra ragione dell’individuo e ragione dello stato, al problema se la condotta politica abbia le sue proprie leggi, soggiaccia a propri criteri di valutazione, se il fine giustifichi i mezzi, se gli stati si possano governare coi paternostri, o come oggi si direbbe, se vi sia un’etica di gruppo distinta dall’etica individuale, o, seguendo la terminologia weberiana, se l’uomo politico segua l’etica della responsabilità o quella della convinzione, ecc.
4. Il diffondersi dell’interesse per i problemi epistemologici, logici, di analisi del linguaggio, in genere metodologici, ha fatto emergere un quarto modo di parlare di filosofia politica: la filosofia politica come discorso critico, intendo sui presupposti, sulle condizioni di verità, sulla pretesa oggettività, o avalutatività, della scienza politica. In questa accezione si può parlare di filosofia come di una metascienza, cioè di uno studio della politica a un secondo livello, che non è quello diretto della ricerca scientifica intesa come studio empirico dei comportamenti politici, ma quello indiretto della critica e legittimazione dei procedimenti con cui è condotta la ricerca al primo livello. Entra in questa accezione di filosofia politica l’orientamento della filosofia analitica verso la risoluzione della filosofia politica nell’analisi del linguaggio politico.
Non è difficile rendersi conto che il problema dei rapporti tra filosofia politica e scienza politica assume aspetti diversi secondo che venga presa in considerazione l’una o l’altra delle accezioni di filosofia politica sopra illustrate.
Quando per filosofia politica s’intende la teoria dell’ottima repubblica, il rapporto con la scienza politica è di netta opposizione. Mentre la scienza politica ha una funzione essenzialmente descrittiva o esplicativa, la filosofia come teoria dell’ottima repubblica ha una funzione essenzialmente prescrittiva: l’oggetto della prima è la politica quale è (la «verità effettuale»), l’oggetto della seconda, la politica quale dovrebbe essere. In altri termini, si tratta di due modi diversi di considerare il problema politico, di due punti di vista rispettivamente autonomi, o se si vuole di due strade che non sono destinate ad incontrarsi. La proiezione verso il futuro della filosofia come teoria dell’ottima repubblica è l’utopia; la stessa proiezione verso il futuro della scienza politica assume l’aspetto del «futuribile». Il disegno utopico è il progetto di uno stato che deve essere nel senso morale di «deve»; la futurologia è la previsione di uno stato che deve essere nel senso naturalistico di «deve»: lo stato utopico è desiderabile ma potrebbe anche non realizzarsi; lo stato futuro potrebbe anche non essere desiderabile ma è quello che deve necessariamente realizzarsi se la previsione è scientificamente esatta. Nel passaggio dall’atteggiamento filosofico a quello scientifico, l’utopia si risolve in futurologia.
Nella seconda accezione, secondo la quale per filosofia politica s’intende una teoria sulla giustificazione o legittimazione del potere, il rapporto tra filosofia politica e scienza politica è molto piú stretto. Qui il problema filosofico presuppone l’analisi dei fenomeni reali del potere che consideriamo di competenza dello scienziato politico. D’altra parte lo studio realistico del potere non può non sfociare nel problema, che è stato considerato tradizionalmente di competenza della filosofia, dei criteri di legittimità, cioè delle ragioni ultime per cui un potere è e deve essere ubbidito. L’opera di Hobbes, che è per molti aspetti un’analisi empirica del comportamento politico, è stata anche chiamata a ragione una grammatica dell’obbedienza. Nella Filosofia del diritto di Hegel è estremamente difficile separare l’analisi realistica della società e dello stato dalla ideologia politica che la guida, tanto sono strettamente intrecciati il momento della spiegazione di quello che accade e il momento della giustificazione per cui quello che accade deve accadere; o il problema della rappresentazione storica e quello della legittimazione ideale dello stato, o meglio di un certo tipo di stato. È superfluo aggiungere che altro è determinare un criterio di legittimazione, altro descrivere i vari criteri di legittimazione possibili o realmente applicati nei diversi regimi e nelle diverse epoche storiche (il che è opera della scienza politica).
Nel caso del terzo significato di filosofia politica – filosofia politica come determinazione della categoria della politica – il rapporto con la scienza politica è tanto stretto che è difficile stabilire una netta linea di separazione tra l’una e l’altra e dire dove finisce la competenza dello scienziato e dove comincia quella del filosofo. Le due ricerche costituiscono un continuo: non si può pensare ad una ricerca di scienza politica che non si ponga il problema del concetto di politica e quindi della delimitazione stessa del proprio campo di ricerca; ma non si può neppure pensare ad un’analisi del concetto di politica che non tenga conto dei dati raccolti e dei fenomeni esaminati dalla ricerca fattuale. La differenza tra piano della filosofia e piano della scienza non è piú in questo caso d’ordine qualitativo ma esclusivamente d’ordine di grandezza. Non vi è oggi analisi scientifica dei fenomeni politici che non cominci col porre o col presupporre una teoria generale del potere, la quale dovrebbe servire a delimitare il campo della politica da quello dell’economia o del diritto ecc. Piú che di filosofia politica, peraltro, in questo caso, sarebbe meglio parlare di «teoria generale della politica», con lo stesso criterio con cui nel campo del diritto si distingue la teoria generale del diritto dalla scienza giuridica strettamente intesa.
Nel caso della filosofia politica intesa come metascienza, la distinzione tra filosofia e scienza diventa di nuovo molto netta: si tratta di ricerche che hanno oggetto e fini diversi. La scienza è il discorso o l’insieme dei discorsi sul comportamento politico; la filosofia è il discorso sul discorso dello scienziato. Come tale, è una ricerca di seconda istanza. S’intende che la differenza non esclude un tipo ben preciso di rapporto: la metascienza si propone rispetto alla ricerca scientifica uno scopo, com’è stato detto piú volte, terapeutico, e quindi ha bisogno di mantenere un continuo contatto con la ricerca scientifica propriamente detta. La scienza d’altra parte si serve delle riflessioni riguardanti il metodo e il linguaggio per correggere ed eventualmente perfezionare il proprio lavoro e controllarne i risultati.
Volendo riassumere i diversi rapporti che si vengono a stabilire tra filosofia politica nelle sue diverse accezioni e scienza politica si potrebbe dire cosí: a) nel primo caso vi è un rapporto di separazione e insieme di divergenza; b) nel secondo caso il rapporto è pure di separazione ma insieme di convergenza; c) nel terzo caso vi è un rapporto di continuità e quindi sostanzialmente di indistinzione (si tratta, se mai, di una distinzione di comodo); d) nel quarto caso il rapporto è di integrazione reciproca o di reciproco servizio. Osservando questi vari tipi di rapporto, si può fare ancora una considerazione: fermo restando il carattere di «avalutatività» della scienza politica (o la scienza è avalutativa o non è scienza), il maggior distacco tra filosofia politica e scienza politica si verifica là dove la filosofia politica è intesa come assumente un carattere fortemente valutativo. Dalla nostra tipologia appare chiaro che le accezioni in cui la filosofia politica assume un carattere fortemente valutativo sono le prime due, ovvero la filosofia politica come descrizione dell’ottima repubblica e come determinazione di un principio di legittimazione. E sono questi, infatti, i due casi in cui il rapporto tra filosofia e scienza è di separazione piuttosto che d’integrazione.
Lascio ora da parte la quarta forma di filosofia politica, di cui ho parlato da puro cronista che osserva e descrive quello che avviene sotto i propri occhi, perché è stata sinora piú annunziata, promessa e proposta1 che praticata, e non trova alcun riscontro nella filosofia politica classica da Platone a Hegel. Nelle seguenti considerazioni aggiuntive, mi soffermo soltanto sulle prime tre forme di filosofia politica, esemplarmente rappresentate all’inizio dell’età moderna da tre opere che lasciano una traccia indelebile nella storia delle idee politiche, l’Utopia di Tommaso Moro, il Principe di Machiavelli, e il Leviatano di Hobbes. Queste tre opere possono bene essere assunte a simbolo di tre modi diversi e tipici di filosofare sulla politica: la prima della ricerca della miglior forma di governo, la seconda della ricerca della natura della politica, la terza della ricerca del fondamento dello stato. Il problema fondamentale di Moro è quello di levarsi al di sopra dei malanni, della corruzione, dell’ingiustizia dell’età presente per proporre un modello di stato perfetto, come si legge nel titolo stesso dell’opera, De optimo reipublicae statu. Il problema fondamentale di Machiavelli, almeno in una delle interpretazioni del suo pensiero, l’unica del resto che dà luogo a un «ismo» (il cosiddetto machiavellismo), è di mostrare in che consista la proprietà specifica dell’attività politica e per tal guisa distinguerla dalla morale e dalla religione. Il problema fondamentale di Hobbes è di mostrare la ragione o le ragioni per cui lo stato esiste (ed è bene che esista), e poiché deve esistere per la salvezza degli uomini, gli dobbiamo obbedienza.
Si tratta di tre modi profondamente diversi di accostarsi al problema politico che si possono far corrispondere alle tre tradizionali domande filosofiche:
Che cosa posso sperare?
Come debbo comportarmi?
Che cosa posso sapere?
Il che non toglie che nei dialoghi platonici, ad esempio, si possa trovare una risposta di volta in volta a tutte e tre: nella Repubblica alla prima, nel Critone alla seconda, nel Politico alla terza. La differenza peraltro non esclude la connessione o addirittura la dipendenza delle diverse soluzioni: cominciando dal fondo, dipende dalla risposta che io dò alla domanda sulla natura della politica (se e in quale misura la consideri dipendente o indipendente dalla morale) la risposta al problema dell’obbligo politico, vale a dire se e in quale misura io sia tenuto a ubbidire all’ordine ingiusto. Dipende dall’idea che mi faccio della natura dello stato, dei suoi fini, la risposta che dò alla domanda quali siano le istituzioni politiche migliori (migliori per l’appunto rispetto a quei fini). Nel Secondo trattato sul governo civile di Locke la stretta connessione dei tre problemi appare evidente: a) lo scopo del corpo politico è di dare agli individui la sicurezza della vita, della libertà e dei beni; b) quando il governo non è piú in grado di assicurare la sicurezza, l’obbligo politico, cioè l’obbligo di obbedienza, vien meno; c) il modo migliore per ottenere questa garanzia è un legislativo fondato sul consenso e un esecutivo dipendente dal legislativo. Per fare un esempio-limite: se, marxianamente, considero lo stato unicamente come apparato coercitivo al servizio della classe dominante, cade ogni ragione di discorrere ancora di obbligo politico, perché tra colui che esercita la forza e colui che la subisce non esiste obbligazione ma soltanto costrizione; dalla stessa premessa discende anche la conseguenza che non esiste una forma migliore di stato, e conseguentemente il miglior stato è paradossalmente il non-stato.
Nonostante la marcata differenza tra l’uno e l’altro modo di filosofare sulla politica, tutte e tre le forme di filosofia hanno, oltre che una connessione tra loro, qualche cosa di comune, che giustifica tra l’altro il fatto che consapevolmente o meno le assegnamo alla stessa categoria. Ciò che esse hanno in comune è proprio il poter essere comprese nell’estensione del concetto di filosofia, dove e qualora per «filosofia» s’intenda qualcosa che è diverso e che valga la pena di distinguere da «scienza».
Certamente, si può intendere «filosofia» in modo tale da comprendervi anche la scienza, come faceva Hobbes...