1. LE NOZZE DI MEVLUT E RAYIHA
SOLO LA MORTE POTRÀ SEPARARCI
Süleyman. Secondo voi quand’è che Mevlut si rese conto che la ragazza che aveva rapito non era la bella Samiha, quella con cui si erano guardati dritto negli occhi al matrimonio di mio fratello, ma la sorella maggiore, la brutta Rayiha? Non appena la vide, al villaggio, nell’oscurità del giardino? Oppure quando scorse il suo viso mentre scappavano per monti e valli? L’aveva già capito quando si sedette al mio fianco, sul furgoncino? Quando gli chiesi «Qualcosa non va?» o «Non apre bocca?», era perché cercavo di sciogliere questo dubbio. Ma Mevlut rimase impassibile.
Dopo essere sceso dal treno, mentre si trovavano sul battello affollato che doveva condurli da Haydarpaşa a Karaköy, Mevlut non pensava al matrimonio, né alla cerimonia nuziale: il suo unico pensiero era che finalmente sarebbe rimasto da solo in una stanza con Rayiha. Trovava infantile che lei si lasciasse catturare dal movimento sul ponte di Galata o dai pennacchi di fumo dei battelli bianchi; lui, infatti, non riusciva a smettere di pensare che tra poco sarebbero arrivati a casa e, a quel punto, sarebbero rimasti soli.
Quando Mevlut aprí la porta dell’appartamento a Tarlabaşı con la chiave che custodiva in tasca come una gemma preziosa, ebbe la sensazione che nei tre giorni in cui era andato e tornato dal paese quel posto avesse subíto una profonda trasformazione: mentre di solito all’inizio di giugno era fresco, adesso si era surriscaldato per la calura estiva e, al sole, il vecchio pavimento in linoleum aveva rilasciato un fetore di plastica scadente, cera e corda. Da fuori giungeva il frastuono del traffico e della folla di Beyoğlu e Tarlabaşı, che Mevlut adorava da sempre.
Rayiha. – È bellissima, – dissi, riferendomi alla nostra casa. – Ma bisogna cambiare un po’ l’aria –. Ruotai la maniglia, ma non riuscii ad aprire la finestra. Allora Mevlut mi mostrò il funzionamento della spagnoletta. Capii che se avessi pulito con acqua e sapone, se avessi eliminato le ragnatele, la casa si sarebbe spogliata delle delusioni, delle paure e dei demoni che popolavano le fantasie di Mevlut. Uscimmo per comprare del sapone liquido, un secchio di plastica e uno straccio e, una volta fuori, la tensione dovuta al fatto di essere rimasti a casa da soli sembrò scomparire e ci rilassammo. Era quasi mezzogiorno, andammo a piedi fino a Balıkpazarı, passando per i vicoli di Tarlabaşı. Davamo un’occhiata alle vetrine, entravamo nei negozi, esaminavamo la merce sugli scaffali e compravamo l’occorrente: spugne, retine, spazzole e detersivi per la cucina; appena rientrati a casa, ci dedicammo alle pulizie generali. Eravamo cosí impegnati, cosí presi, che ci scordammo dell’imbarazzo che provavamo per essere rimasti a casa da soli.
Verso sera ero in un bagno di sudore. Mevlut mi fece vedere come accendere lo scaldabagno con il cerino, come aprire la bombola del gas, e qual era il rubinetto dell’acqua calda. Per infilare il cerino acceso dentro la fessura oscura dello scaldabagno salimmo su una sedia. Mevlut mi consigliò di tenere leggermente aperta la piccola finestra dal vetro satinato, che dava sul pozzo di aerazione, mentre mi lavavo.
– Se tieni solo una fessura aperta, l’aria viziata se ne va e da fuori non ti vedono… – disse con voce sommessa. – Io esco, torno fra un’ora.
Aveva capito che Rayiha, che indossava ancora i vestiti con cui era fuggita, non si sarebbe spogliata, né lavata con lui in casa. Entrò in uno dei tanti caffè di viale Istiklal. Nelle sere d’inverno pullulavano di portieri, tombolieri, autisti e venditori stanchi per la giornata, ma quella sera non c’era anima viva. Lo sguardo rivolto al tè che gli avevano messo davanti, Mevlut pensava a Rayiha che si stava lavando. Come faceva a sapere che aveva la pelle chiara? Le aveva guardato il collo, ecco come! E perché uscendo le aveva detto che sarebbe tornato dopo «un’ora»? Il tempo passava a rilento. Sul fondo del bicchiere, Mevlut vide una foglia solitaria.
Dato che non voleva tornare a casa prima che fosse trascorsa un’ora, dopo aver bevuto ancora una birra fece il giro largo, passando per i vicoli di Tarlabaşı: c’erano bambini che giocavano a calcio lanciandosi insulti coloriti e donne che pulivano il riso dalla pula sedute sulle soglie delle loro piccole case a tre piani, il vassoio sul grembo, e Mevlut era contento di essere parte di queste strade, dove tutti conoscevano tutti.
Dopo aver trattato sul prezzo con un venditore che si era sistemato su uno spiazzo con una tenda e un telo nero a copertura, batté con le nocche su diverse angurie per cercare di capire quale fosse piú matura. Su una di queste si aggirava una formica. Mentre Mevlut faceva roteare l’anguria, la formica restava sotto, senza cadere, per poi correre in tutta fretta fino a riprendere il suo posto in cima. Mevlut fece pesare l’anguria senza far cadere quell’insetto ostinato. Una volta arrivato a casa, entrò di soppiatto e lasciò l’anguria in cucina.
Rayiha. Dopo aver fatto il bagno, avevo indossato dei vestiti nuovi, puliti, mi ero sdraiata sul letto, dando le spalle alla porta, e mi ero addormentata senza copricapo.
Mevlut si avvicinò in silenzio. Rimase a lungo a osservare Rayiha distesa sul letto, consapevole che quell’istante si sarebbe inciso nella sua memoria, restandovi per sempre. Il corpo di lei dentro ai vestiti e i suoi piedi erano eleganti, incantevoli. A ogni respiro, le spalle e le braccia avevano dei movimenti quasi impercettibili. Per un attimo, Mevlut ebbe la sensazione che stesse solo fingendo di dormire. Senza dire una parola, si allungò sull’altro lato del letto matrimoniale, i vestiti con cui era uscito di casa ancora addosso.
Il cuore cominciò a battergli forte. Se adesso avesse cominciato a fare l’amore con lei – e non era sicuro di come farlo – avrebbe abusato della fiducia di Rayiha.
Lei si era fidata di Mevlut, aveva messo la propria vita nelle sue mani, si era tolta il copricapo e gli aveva mostrato i suoi bei capelli lunghi anche se non erano ancora sposati e non avevano ancora mai fatto l’amore. Già solo per questo segno di fiducia e questo abbandono, Mevlut sentí, guardando i lunghi capelli ricci di lei, che si sarebbe legato a Rayiha e che l’avrebbe amata davvero. Non era piú solo al mondo. L’osservava respirare con il cuore che gli scoppiava di felicità. E poi Rayiha aveva letto tutte le sue lettere e le erano piaciute.
Si addormentarono vestiti. Nel cuore della notte buia si abbracciarono, ma non fecero l’amore. Mevlut si rendeva conto che il buio avrebbe conciliato il sesso. Tuttavia desiderava fare l’amore con Rayiha per la prima volta alla luce del giorno, guardandola negli occhi. Al mattino, quando si svegliarono cosí vicini, faccia a faccia, la vergogna li prese di nuovo ed entrambi escogitarono qualcosa da fare.
Rayiha. Il mattino seguente andai di nuovo con Mevlut a fare la spesa e scelsi tutto io: la tovaglia da tavola in plastica cerata, il copripiumino a fiori azzurri, il cesto del pane di finto vimini e uno spremilimoni di plastica. Incuriosita da tutte quelle ciabatte, tazzine, contenitori e saliere, guardavo solo per il piacere di farlo, senza comprare nulla. Tornammo a casa e ci sedemmo sul bordo del letto.
– Non lo sa nessuno che siamo qui, vero? – chiesi.
Con quel suo viso infantile Mevlut mi lanciò uno sguardo cosí esplicito che dissi «C’è il mangiare sul fuoco» e mi dileguai. Dopo pranzo, quando il sole cominciò a scaldare il piccolo appartamento, stremata mi distesi a letto.
Quando Mevlut si stese al suo fianco, si abbracciarono e si baciarono per la prima volta. Vedendo sul viso dell’assennata Rayiha l’espressione di una bambina che ha appena fatto una marachella, la desiderò ancora di piú. Eppure, ogni volta che questo desiderio si faceva pressante, l’imbarazzo prendeva il sopravvento. Mevlut le infilò una mano sotto il vestito. Per un istante, il suo palmo avvolse il seno destro di Rayiha e Mevlut ebbe un capogiro.
Rayiha lo respinse. Mevlut se la prese e si alzò dal letto.
– Non preoccuparti, non sono arrabbiato! – disse deciso, uscendo di casa. – Torno subito.
In una delle strade alle spalle della moschea di Ağa c’era un rigattiere curdo diplomato alla Scuola a vocazione religiosa di Ankara. Per pochi spiccioli, sposava coloro che, già coniugati con il rito civile, si dicevano «Non si sa mai, meglio avere anche la cerimonia religiosa!», i disperati che si innamoravano a Istanbul nonostante avessero una moglie al paese, i giovani conservatori che però si incontravano di nascosto dai genitori e dai fratelli e, non riuscendo a trattenere gli istinti, si spingevano oltre, finendo per crollare perché rosi dal senso di colpa. Siccome i minorenni senza il permesso dei loro genitori potevano sposarsi solo con il rito hanafita, dichiaravano di appartenere a quella dottrina.
Mevlut lo trovò appisolato, la testa sprofondata tra le pagine del quotidiano «Akşam», affondato nel buio del retrobottega stipato di vecchi termosifoni, coperchi di stufe e pezzi di motore arrugginiti.
– Maestro, voglio sposarmi secondo i precetti della nostra religione.
– D’accordo, ma perché tanta fretta? – rispose quello. – Sei troppo giovane per prendere una seconda moglie, e pure povero.
– Ho rapito una ragazza! – spiegò Mevlut.
– Con il suo consenso, vero?
– Siamo innamorati.
– Ci sono molti uomini senza onore, stupratori che, dicendosi innamorati, rapiscono le giovani contro la loro volontà. Questi abbietti che violentano le ragazze, alla fine, cedendo all’insistenza della famiglia, accettano pure di sposarle…
– Non è cosí, – disse Mevlut. – Noi ci sposeremo con il reciproco consenso e, inshallah, con amore.
– L’amore è una malattia, – riprese il maestro. – La sua cura piú veloce ed efficace è senz’altro il matrimonio. Tuttavia, gli uomini se ne pentono in fretta, perché una volta scesa la febbre, per tutta la vita dovranno prendere una medicina ripugnante come il chinino.
– Io non me ne pentirò, – rispose Mevlut.
– Allora perché tutta questa fretta? Non ci sei ancora andato a letto?
– Dopo il matrimonio, come vuole la tradizione, – disse Mevlut.
– O la ragazza non è bella, o tu sei un puro. Come ti chiami? Sei un bel ragazzo, beviti un tè.
Mevlut trangugiò il tè servito da un apprendista tuttofare dal viso spento e dai grandi occhi verdi, cercando di tagliare corto, ma il maestro cominciò a raccontargli come andassero male gli affari, cosí da prepararlo alla richiesta di denaro. Purtroppo, erano sempre meno i giovani che si sposavano con il rito religioso solo per essersi baciati o presi per mano e che la sera tornavano ognuno a casa propria, dove li aspettavano genitori ignari del matrimonio celebrato quella stessa mattina.
– Io non ho molto denaro! – disse Mevlut.
– È per questo che l’hai rapita? Certi luridi cani di uomini piacenti come te, dopo aver ottenuto quello che vogliono divorziano, abbandonando la ragazza a se stessa. Sai quante ragazze conosco, belle come rose, ma scervellate, che per tipi come te hanno finito per suicidarsi o per fare le donnacce nei bordelli?
– Quando compirà diciotto anni celebreremo anche il matrimonio secondo il rito civile, – insistette Mevlut, spinto dal senso di colpa.
– D’accordo. Domani, con tua grande gioia, celebrerò il vostro matrimonio. Dove devo venire?
– E se lo celebrassimo qui, senza la ragazza? – disse Mevlut, perlustrando con lo sguardo il polveroso negozio di robivecchi.
– Per il rito non ti chiedo nulla, mi basta l’affitto della sala, – disse il rigattiere.
Rayiha. Dopo che Mevlut fu uscito, feci lo stesso; comprai a un prezzo stracciato due chili di fragole mature da un venditore ambulante trovato per caso, e lo zucchero in polvere dal droghiere. Prima che Mevlut rincasasse, avevo pulito le fragole e preparato la marmellata. Appena aperta la porta, Mevlut inalò con gioia l’effluvio di fragole zuccherate, ma non mi cercò in alcun modo.
Quella sera mi portò al cinema Lale, dove davano due film di produzione nazionale. Quando, nell’intervallo tra il film con Hülya Koçyiğit e quello con Türkan Şoray, in quella sala satura di umidità mi mormorò che il giorno dopo ci saremmo sposati, piansi un po’. Seguii, però, il secondo film con attenzione. Ero troppo felice.
– Sposiamoci con il rito religioso, almeno fino a che tuo padre non ci concederà il suo benestare o finché tu non compirai diciotto anni, cosí non potranno piú separarci… – disse Mevlut alla fine del film. – C’è un rigattiere, un mio conoscente. Celebreremo il matrimonio nel suo negozio. Gliel’ho chiesto, dice che non è necessario che venga anche tu… Ti basterà dire che hai dato la procura a qualcuno, tutto lí.
– No, voglio venire, – dissi, aggrottando le sopracciglia. Ma gli sorrisi, per evitare di turbarlo.
Al rientro a casa, Mevlut e Rayiha si comportarono come due estranei costretti a dividere la stanza in un motel di provincia: si tolsero i vestiti senza farsi vedere l’una dall’altro e indossarono l’una la camicia da notte, l’altro il pigiama. Fecero in modo di non incrociare gli sguardi, spensero la luce e si coricarono l’uno di fianco all’altra, lasciando però un po’ di spazio in mezzo; Rayiha gli dava di nuovo le spalle. In cuor suo Mevlut avvertiva un sentimento confuso, tra la gioia e la paura. Pensava che sarebbe rimasto sveglio fino al mattino per l’emozione, ma di lí a poco si addormentò.
Quando si svegliò nel cuore della notte, Mevlut era completamente avvolto dall’odore di fragole che emanava la pelle di lei, e dal profumo di biscotti che promanava dal suo collo. Erano sudati per il caldo e in balia delle zanzare. I corpi dei due giovani si abbracciarono con naturalezza. Mevlut, che dalla finestra vedeva il cielo pervinca sopra la città e i neon sugli edifici, pensò per un attimo che fossero volati da qualche parte al di là del mondo, e che fossero tornati alla loro infanzia, in un vuoto privo di forza di gravità.
– Non siamo ancora sposati, – disse Rayiha, e lo respinse.
Da un vecchio cameriere che conosceva dai tempi della trattoria Karlıova, Mevlut era venuto a sapere che Ferhat era tornato dal servizio militare. Al mattino, con l’aiuto di uno dei lavapiatti di Mardin, lo trovò in un misero dormitorio per scapoli a Tarlabaşı. Abitava lí insieme a dei ragazzi di Tunceli e Bingöl, di dieci anni almeno piú giovani di lui, per la maggior parte curdi e aleviti, che frequentavano le medie e nel frattempo lavoravano come lavapiatti. A Mevlut quella casa puzzolente non pareva adatta a Ferhat, e se ne dispiacque, ma quando apprese che lui andava a trovare i genitori si rasserenò. Intuiva che Ferhat era una sorta di protettore del dormitorio, che dietro c’erano il contrabbando di sigarette – molto piú complicato dopo il colpo di stato – e il traffico di marijuana, che chiamavano «erba», oltre che una sorta di rabbia e solidarietà politiche, ma non chiese nulla. Profondamente colpito dai racconti che aveva sentito durante la leva, da quello che lui stesso aveva vissuto in prima persona, dalle storie di conoscenti che erano finiti in carcere a Diyarbakır ed erano stati sottoposti a torture, Ferhat aveva finito per radicalizzarsi ulteriormente.
– Dovresti sposarti, – gli disse Mevlut.
– Dovrei conoscere una ragazza in città e corteggiarla, ecco cosa, – rispose Ferhat, – oppure posso rapire una ragazza al villaggio. Non ho i soldi per sposarmi.
– Io l’ho rapita, – disse Mevlut. – Fallo anche tu. Poi avviamo un’attività insieme, diventiamo titolari di bottega e facciamo quattrini a palate.
Romanzando un po’, Mevlut raccontò come avesse rapito Rayiha. Nella sua ricostruzione evitò di fare riferimento a Süleyman, come pure al suo furgoncino. Raccontò, con la voce rotta dal sentimento, che per un giorno intero erano scappati, mano nella mano, dal padre di lei che li inseguiva, che avevano attraversato le montagne trascinando i piedi nel fango fino ad arrivare alla stazione di Akşehir.
– Rayiha è bella come nelle lettere che le avevamo scritto? – chiese Ferhat, emozionato.
– Lo è molto di piú, ed è intelligente, – disse Mevlut. – Ma abbiamo tutti alle calcagna: dalla famiglia della ragazza ai Vural, a Korkut e Süleyman, persino Istanbul.
– Bastardi fascisti, – disse Ferhat, e accettò subito di fare da testimone alle nozze.
Rayiha. Mi misi il vestito lungo a fiori e sotto un paio di jeans puliti. Indossai un copricapo viola che avevo comprat...