1. La religione politica dell’Impero romano
1. Un viaggio immaginario nel passato
Che cosa potevano mai pensare i due fedeli seguaci di Cristo, Pietro e Paolo, arrivando a Roma al tempo del crudele imperatore Nerone, di fronte alla straordinaria ricchezza e varietà della religione della città, che si manifestava nello splendore dei suoi innumerevoli templi e delle sue altrettanto numerose feste e cerimonie?
A Roma la presenza degli dèi era visibile a ogni angolo di strada. Dai sacelli dedicati ai geni e alle divinità locali lo sguardo del viaggiatore poteva spaziare fino ai grandi templi – posti in zone elevate o particolarmente sacre della città – dedicati alle divinità maggiori, in particolare alle divinità protettrici, come Giove capitolino. La Roma del I secolo dell’era volgare era la capitale di un vasto impero, che spaziava dalla Spagna alla Persia, dai paesi nordici all’Egitto, come testimoniavano i numerosi templi dedicati alle divinità orientali come Iside o Serapide che, proprio in quel torno di tempo, dopo lotte e conflitti, erano riuscite ad impiantare il loro culto anche nella capitale dell’Impero.
Grazie alle profonde trasformazioni edilizie che la città aveva conosciuto sotto Cesare e Augusto, in concomitanza con l’avvento del principato – e prima che nel 64 d.C. l’incendio provocato da Nerone la danneggiasse gravemente, distruggendo buona parte delle regioni o quartieri augustei – Roma era diventata non solo la città più grande e popolosa del Mediterraneo, la capitale di un impero potente e solido, ma anche il centro vitale e dinamico della sua vita religiosa, il «tempio del mondo intero». Come aveva osservato nella sua Geografia Strabone, che era vissuto a Roma al tempo di Augusto:
si potrebbe dire che i primi Romani hanno tenuto in poco conto la bellezza di Roma, volti ad obiettivi importanti e necessari; i successori poi, e specialmente i Romani di oggi e vicini ai nostri tempi, neppure in questo sono rimasti indietro, ma hanno riempito la città di molti bei monumenti. E infatti Pompeo, il divo Cesare, Augusto e i suoi figli, gli amici, la moglie, la sorella hanno dispensato in gran quantità ogni loro cura e ogni spesa per queste opere di abbellimento1.
Tra questi edifici spiccavano templi magnifici, che si erano andati ad aggiungere o, in alcuni casi, avevano sostituito quelli più antichi dedicati agli dèi tradizionali. La religione romana, infatti, e cioè la religione dei cittadini di Roma, consentiva l’ingresso nel suo pantheon, accanto agli dèi della tradizione, agli dèi più significativi dei popoli vinti e sottomessi. Ne risultava, anche dal punto di vista architettonico, un paesaggio variegato e complesso, che comprendeva più strati. In un ipotetico viaggio a ritroso nel tempo, verso quel «centro» ideale rappresentato dalla fondazione della repubblica alla fine del VI secolo a.C., uno spettatore curioso poteva attraversare i vari livelli della vita religiosa romana repubblicana nei suoi cinque secoli di vita.
I templi più antichi risalivano al V secolo a.C. ed erano testimonianza del modo in cui la prima repubblica, sostituitasi alla monarchia, aveva cercato forme nuove di legittimazione religiosa in funzione dei due nuovi protagonisti politici: l’aristocrazia e la plebe. Era il caso, ad esempio, del tempio di Cerere, Libero e Libera, dedicato alle divinità greche corrispondenti: Demetra, Dioniso e Persefone; una testimonianza dell’influsso sempre più profondo che il mondo greco, dopo quello etrusco, aveva esercitato anche dal punto di vista religioso sulla potenza crescente di Roma. Realizzato da maestranze greche, esso risaliva ai primi anni del V secolo a.C., quando la plebe aveva incominciato ad emergere come attore politico. A questo santuario, sede degli archivi della plebe, il cui culto per tradizione era stato affidato a sacerdotesse provenienti dalla Magna Grecia, erano collegati i magistrati plebei, i tribuni e gli edili, la cui attività incideva profondamente su tutta la politica di Roma. La costruzione contemporanea del vicino tempio di Mercurio, sede della corporazione dei mercanti, costituiva una conferma dei profondi legami tra l’ascesa della plebe e le attività economiche del Foro Boario, gestite in prevalenza da gruppi sociali estranei al patriziato e quindi esclusi per principio dalla piena cittadinanza.
Un altro tempio antichissimo, frutto delle prime vittorie dei Romani e insieme del potere delle strutture religiose della città patrizia, era quello dedicato ai Dioscuri, Castore e Polluce. Il loro culto presso la fonte di Giuturna, nel Foro, era in rapporto con la loro apparizione miracolosa nei pressi di quella stessa fonte il giorno della battaglia del lago Regillo, quando i Romani, nel 499 a.C., avevano sconfitto i Latini. Secondo Dionigi di Alicarnasso2, uno scrittore vissuto a Roma all’epoca di Augusto e autore di un’opera sulla storia di Roma arcaica, i Dioscuri in un primo tempo erano intervenuti nella battaglia, ponendosi a capo della cavalleria e sbaragliando i nemici. Poi, quello stesso giorno, verso il crepuscolo, nel Foro sarebbero stati visti due giovani in abito militare: sembravano reduci da uno scontro e i loro cavalli erano madidi di sudore; i giovani li abbeverarono alla fonte di Giuturna, dove si lavarono essi stessi. A quanti si fecero incontro per avere notizie annunciarono la vittoria avvenuta, quindi scomparvero e nessuno li vide mai più. I Romani, compreso che si trattava dei Dioscuri, innalzarono ad essi un tempio nelle vicinanze immediate del luogo dove erano apparsi, che sarebbe stato dedicato loro nel 484 a.C. A ricordo, essi rimasero i protettori degli equites o cavalieri, come testimoniava anche il sacrificio compiuto ogni anno, alle idi di luglio, nel loro tempio in occasione della transvectio equitum: la parata di giovani cavalieri che, partendo dal tempio di Marte fuori dalla porta Capena, attraversava il Foro per giungere fino al Campidoglio.
Veniva poi un tempio rettangolare, risalente nelle fasi più antiche al IV o al III secolo a.C. Esso era chiamato tradizionalmente della Fortuna Virile, di quella Fortuna degli uomini alla quale, come dichiaravano i Fasti Prenestini, «spesso fanno supplica le donne», in quanto permette agli uomini di divenire e di conservarsi come tali. Nel Foro Boario era poi possibile trovare anche il tempio antichissimo di Portuno – figlio di Mater Matuta, secondo Ovidio3 –, che dominava sui porti e sulle porte: altra testimonianza di una divinità arcaica e della tendenza della religione romana a conservarne nei secoli memoria.
Ulteriore testimonianza di questa fase più antica era un tempio dedicato ad Ercole Vittorioso. Come raccontava nel V secolo d.C. nei suoi Saturnali Macrobio, attingendo ad uno scrittore più antico, Masurio Sabino, esso era stato dedicato alla divinità dal mercante Marco Ottavio Erreno a ricordo della protezione ricevuta:
Marco Ottavio Erreno, flautista nella prima giovinezza, dopo che perse fiducia nel suo mestiere, si diede al commercio e, poiché gli affari gli andarono bene, consacrò ad Ercole la decima parte dei suoi guadagni. In seguito, avendo fatto lo stesso mentre compiva un viaggio per mare, fu attaccato dai pirati; si difese con la massima energia e ne uscì vincitore. Ercole gli rivelò in sogno che si era salvato per il suo intervento. Allora Ottavio, ottenuto il terreno dai magistrati, dedicò al dio un tempio e una statua e nell’iscrizione lo chiamò Vittorioso4.
Venivano poi i templi di Largo Argentina, innalzati nell’area del Campo Marzio meridionale (e di non sicura attribuzione, per cui gli specialisti fanno ricorso a lettere dell’alfabeto). Il primo edificio eretto (corrispondente a quello denominato C) risaliva ad un periodo compreso tra la fine del IV secolo e gli inizi del III ed era dedicato con buona probabilità a Feronia, la dea proveniente dal territorio sabino dopo la conquista del 290 a.C. Il tempio A era stato invece eretto dopo la sconfitta cartaginese del 241 a.C. e dedicato da Lutazio Catulo verosimilmente a Giuturna, mentre il terzo tempio, quello denominato D, era stato dedicato nel 179 da Antonio Lepido ai Lari Permarini, ovvero i Cabiri di Samotracia che vegliavano sulla navigazione. Nel 106 a.C. M. Minucio Rufo aveva unificato l’area dei tre templi tramite una porticus, nota alle fonti come Porticus Minucia Vetus. Nel 101 a.C., infine, C.Q. Lutazio Catulo aveva fatto erigere il tempio B, connesso alle distribuzioni di frumento e dedicato alla Fortuna huiusce diei («del giorno presente», cioè quello delle frumentationes), un edificio rotondo dalle spiccate forme ellenistiche. Insieme al vicino tempio delle Ninfe, sede delle liste approntate presso l’Ara Martis dai censori con gli aventi diritto alle distribuzioni frumentarie, la Porticus Minucia Vetus funzionava come una grande cassa di risonanza dell’imperialismo romano: le divinità delle acque, «evocate» dai campi nemici, proteggevano i mari controllati dalle navi romane, mentre i templi eretti con le spoglie dei trionfi facevano da scenario alle imponenti frumentationes o donazioni di frumento, rese possibili dall’Impero di Roma, a favore di una plebe parassitaria ormai divenuta la grande massa di manovra delle fazioni politiche.
Questo viaggio a ritroso poteva concludersi di fronte al tempio di Apollo sul Palatino dedicato da Augusto nel 12 a.C. alla divinità che lo aveva protetto nel suo scontro decisivo contro Antonio e Cleopatra e che doveva celebrare la nuova era di pace, ma che in realtà celebrava l’avvento della restaurazione augustea.
Questa complessa stratigrafia religiosa ruotava intorno ad alcuni precisi luoghi, che segnavano i confini della geografia sacra della Roma augustea. Il principale tra questi era certamente il colle del Campidoglio, la roccaforte interna e il centro del culto di Roma. Il grande tempio che lo dominava, costruito per la prima volta nel VI secolo a.C., era dedicato a Giove Ottimo Massimo, che lo divideva con le sue ospiti, Giunone e Minerva, formando così la triade capitolina. Si trattava di un tempio magnifico e grandioso, che rimase anche in periodo imperiale il più grande e maestoso dei templi, il centro della vita politica e religiosa romana, dove i nuovi consoli pronunciavano il loro giuramento in occasione dell’assunzione della carica annuale, che poteva servire in occasioni determinate come luogo di raduno del senato, ma famoso soprattutto perché costituiva il punto di arrivo delle processioni trionfali e del sacrificio che le concludeva.
Lì accanto c’era una costruzione ancora più antica, dedicata a Giove Feretrio: il significato di questo culto è incerto, ma il tempio conteneva una pietra focaia sacra che si usava per stringere i trattati. Esattamente sotto, nel Foro, era poi possibile ammirare il tempio di Saturno, forse dedicato nel 497 a.C. e restaurato da L. Munazio Planco nel 47 a.C., che ospitava il Tesoro dello Stato. Ma il Foro era pieno di monumenti sacri. La pietra nera vulcanica, chiamata Lapis Niger, su cui è iscritta la più antica epigrafe latina5, era circondata da divieti sacri; forse consacrata agli dèi dell’oltretomba, intorno ad essa si dovevano compiere dei giri scaramantici. Veniva poi la Regia, il quartiere generale del pontifex maximus, la massima autorità sacerdotale. Essa conteneva gli scudi e le lance sacre di Marte, e un altare su cui veniva spruzzato il sangue di un cavallo sacrificato sul Campo Marzio. Il tempio di Vesta, infine, rotondo come un focolare e ogni volta ricostruito sul progetto originario, il Bosco sacro e le case delle Vestali, le sacerdotesse vergini consacrate per trent’anni al suo culto, formavano un complesso molto antico e di grande valore sacro.
Lungo il Foro si stendeva il colle Palatino, un’altra zona ricca di luoghi sacri. Qui si trovava l’altare-grotta dei Lupercali, associato alla leggenda della lupa che allattò Romolo e Remo, e al rito di purificazione dei Lupercali. Qui stava la capanna di Romolo, conservata come altare; qui c’era un albero di fico sacro; qui fu anche fondato il tempio della Grande Madre proveniente dalla Frigia, quando il culto di questa potente divinità straniera nel 204 a.C. venne introdotto dai Romani, alla ricerca di un importante alleato religioso per sconfiggere il generale dei Cartaginesi, Annibale.
Già agli occhi di un contemporaneo come Strabone, però, il luogo che più colpiva per le trasformazioni architettoniche che aveva conosciuto in tempi recenti era il Campo Marzio, che univa alla bellezza naturale quella dei monumenti, in particolare i templi, che i nuovi dinasti di Roma vi avevano fatto costruire:
E infatti l’ampiezza del piano è ammirevole e offre contemporaneamente, senza alcun impedimento, spazio per effettuare le corse dei carri e una serie di altre manifestazioni ippiche e insieme anche spazio per il gran numero di quanti si esercitano con la palla, al cerchio e alla lotta....