VI.
Tra gesuiti e imperi d’oltremare:
storie del mondo al tramonto
1. Maffei e la storia missionaria
Se durante il Cinquecento la scoperta che anche altre popolazioni del mondo avevano un passato stimolò reazioni inattese tra alcuni storici, quella tensione creativa si affievolì con il passaggio al nuovo secolo. Non perché l’interesse fosse scemato, anzi. A rendere la scrittura di storie del mondo un esercizio sempre più delicato fu proprio l’aumentata consapevolezza del rilievo che gli orizzonti globali stavano assumendo per i poteri europei. Quel genere di opere divenne allora oggetto di una produzione ufficiale, che si affiancò alle tante edizioni per il grande pubblico lanciate dalle stamperie veneziane. Non era più tempo di reclamare la piena dignità del passato precolombiano dell’America, o di rievocare le epoche in cui le rotte dell’Oceano Indiano erano state dominate da grandiose flotte cinesi. La materia sconfinata e proteiforme della storia del mondo andò allora incontro a un processo di selezione, che rimise prepotentemente al centro l’Europa e il primato della religione cristiana, piegando il racconto all’esigenza di celebrare un particolare impero, o un ordine missionario, a scapito di altri.
Si riaffacciavano tendenze già presenti nella storiografia medievale e rinascimentale, all’origine di un duplice vizio di fondo nelle storie cosiddette universali scritte in Europa nei secoli successivi: da un lato, la corrispondenza tra la difforme attenzione riservata alle varie parti del pianeta e la posizione attribuita alle relative culture all’interno di una gerarchia con al vertice l’Europa; dall’altro, la connotazione marcatamente politica, spesso accompagnata dal tentativo di legittimare attraverso la storia un determinato ordine del mondo, nel presente o nel futuro. Le eredità di quest’ultimo atteggiamento sono ancora evidenti in alcune sintesi proposte dagli odierni assertori di un’intrinseca eccezionalità della parabola storica dell’Occidente. Alla fine del Cinquecento quella posizione significava, anzitutto, esaltare la monarchia cattolica che riuniva nelle mani del re Filippo II d’Asburgo i due grandi imperi di Portogallo e Spagna, ritraendola come il culmine verso cui convergevano i tanti passati del mondo. Galeoni carichi di uomini e merci univano direttamente l’Asia all’America e solenni processioni religiose scandivano la vita nelle città iberiche d’oltremare, ma non mancavano tensioni ad oscurare dall’interno lo splendore di quella mondializzazione. Un esempio lampante furono le rivalità che dividevano gli ordini missionari e opponevano, fra l’altro, i gesuiti ai francescani in America centrale e meridionale e agli agostiniani e ai domenicani in Asia meridionale e orientale, dove particolare intensità assunse la gara per l’evangelizzazione della Cina.
Si profilava, inoltre, all’orizzonte l’ombra minacciosa dei futuri imperi nordeuropei che in pochi decenni posero fine al sogno di un pianeta iberico e cattolico. Scrivere la storia del mondo dalla prospettiva di una potenza rivale del Portogallo e della Spagna comportava la ricerca di un racconto alternativo. Proprio il pericolo che, oltre a contrastare il potere transoceanico degli Asburgo, la diffusione delle flotte olandesi e inglesi sui mari del mondo esportasse fuori dall’Europa lo scontro fra cattolici e protestanti causava preoccupazioni comuni negli ambienti compenetrati fra loro della monarchia cattolica e dei suoi ufficiali, da un lato, e delle gerarchie ecclesiastiche e dei missionari, dall’altro. L’alleanza tra safavidi e inglesi, che nel 1622 portò alla cacciata dei portoghesi da Hormuz, all’imboccatura del Golfo Persico, avrebbe rivelato fino a che punto la saldatura tra i diversi nemici delle potenze iberiche potesse spingersi. Ma la gravità della nuova situazione che si andava configurando si manifestò in tutta la sua drammaticità già alla metà del 1588, quando una grande flotta spagnola che era entrata nel canale della Manica per invadere l’Inghilterra subì un’inaspettata battuta d’arresto, incrinando per sempre il mito dell’invincibilità sui mari degli imperi iberici. Trovavano così conferma i timori con cui si era guardato alle imprese compiute negli anni precedenti proprio dal vice-ammiraglio della squadra navale inglese, Sir Francis Drake: su incarico della regina Elisabetta I, aveva attaccato a più riprese i possedimenti spagnoli in America, incrociando, fra l’altro, il primo tentativo di fondare una colonia inglese nel Nuovo Mondo, la Virginia, promosso da Walter Raleigh.
Colpito, il composito impero iberico di portoghesi e spagnoli rimase comunque a lungo il volto principale della potenza europea nel mondo. Sempre nel 1588 vedevano la luce le Istorie delle Indie orientali del gesuita Giampietro Maffei. Bergamasco di nobili origini, da giovane aveva raggiunto a Roma lo zio Basilio, quando questi era stato nominato custode della Biblioteca Vaticana, tra i più ricchi depositi di informazioni sul mondo nell’Europa del tempo. Più tardi attese con cura alla sua storia, servendosi soprattutto delle lettere dei gesuiti e di altri documenti consultati in archivio a Lisbona e Coimbra. Era giunto in Portogallo nel 1579, su invito dell’ultimo re della dinastia degli Avis, l’anziano cardinale Enrico, che morì l’anno dopo senza eredi, aprendo la via all’annessione del regno da parte di Filippo II.
Le Istorie di Maffei uscirono in latino a Firenze, ma furono presto tradotte in italiano e conobbero molte ristampe. Sopravvalutarne l’importanza è difficile, anche se non erano una storia del mondo, ma di una delle due Indie, un nome evocativo che abbracciava le terre non europee, con la rilevante eccezione dell’Africa e della penisola araba: il suo impiego duraturo – si pensi all’Histoire des deux Indes (1770) dell’abbé Raynal – testimonia l’unità che due continenti così diversi come l’America e l’Asia conservarono a lungo agli occhi degli europei. Quella di Maffei era la prima storia delle Indie orientali a essere pubblicata nell’età delle esplorazioni. Ma a dispetto del titolo non recupera la storia millenaria dell’Asia. Si risolve, invece, in una trattazione informata e piana, tutta incentrata sulla presenza europea dallo sbarco di Vasco da Gama fino alla morte del re Giovanni III di Portogallo (1557). Grande spazio è dato ai successi attribuiti ai missionari gesuiti, giunti in India nel 1542 al seguito di padre Francesco Saverio. Se le precedenti cronache si arrestano invariabilmente alla morte del re Emanuele I (1521), Maffei ne prosegue il racconto, intrecciando le gesta dei portoghesi con l’azione dei gesuiti fino quasi a confondere i due piani. Ottiene così l’effetto di un amalgama fra impero e missione, di cui la Compagnia di Gesù emerge quale unica vera interprete. Si rispondeva così alle aspettative di una fase ormai matura della costruzione del mondo iberico: gli esperimenti, che avevano reagito sul terreno della storia alla complessità e varietà delle popolazioni e delle culture non europee, con i loro passati che non si lasciavano facilmente racchiudere in schemi prestabiliti, dovevano cedere spazio a una rassicurante dimostrazione della superiorità dei «cristiani» sui «barbari», che giustificasse la proiezione planetaria dei gesuiti e le conquiste degli imperi che spianavano loro il cammino.
Maffei progettò le sue Istorie perché confermassero l’armonia fra monarchia e gerarchie ecclesiastiche nel mondo portoghese, ma la crisi dinastica del 1580, di cui fu testimone diretto, lo costrinse a correggere il tiro: la dedica fu rivolta a Filippo II, elogiato come il sovrano sotto la cui protezione era inevitabile porre un’«esposizione sincera e accurata delle esplorazioni oceaniche compiute dalle devote e felici armate dei suoi antenati, dell’incontro con popoli di cui non si era mai u...