A John Middleton Murry
I
Sul calesse non c’era un filo di spazio per Lottie e Kezia. Quando Pat le issò in cima ai bagagli, le bambine vacillarono; la nonna aveva già molte cose in grembo e Linda Burnell non avrebbe mai potuto reggere il peso di una di loro per tutta la strada. Con aria di superiorità, Isabel si era appollaiata a cassetta accanto al nuovo uomo di fatica. Sul fondo erano ammucchiate sacche da viaggio, borse e scatole. «Queste sono cose assolutamente necessarie e non intendo perderle di vista nemmeno per un istante» disse Linda Burnell, la voce tremante per la fatica e l’agitazione.
Lottie e Kezia erano sul prato appena dietro il cancello, pronte a buttarsi nella mischia nei cappotti dai bottoni d’ottone con le ancore e i cappellini rotondi con i nastri alla marinara. Mano nella mano, fissarono con occhi sgranati e solenni prima le cose assolutamente necessarie e poi la madre.
«Dovremo lasciarle qui. Punto e basta. Dovremo mollarle qua» disse Linda Burnell. Dalle labbra le sfuggì una strana risatina; si appoggiò ai cuscini di cuoio guarniti di bottoni e chiuse gli occhi, con le labbra tremanti per il riso. Per fortuna in quel momento Mrs Josephs, che aveva osservato la scena da dietro la veneziana del salotto, percorse il vialetto con andatura ondeggiante.
«Berché non mi lascia le bambine per il bomeriggio, Mrs Burnell? Botrebbero venire stasera con l’uomo dell’emporio quando arriva col carro. Bisogna bortare via anche quelle cose sul vialetto, vero?»
«Sì, bisogna portare via tutto quello che c’è davanti alla casa» disse Linda Burnell, indicando con un cenno della mano bianca i tavoli e le sedie a testa in giù sul prato. Come sembravano assurdi! Bisognava girarli dall’altra parte, oppure Lottie e Kezia dovevano mettersi a testa in giù anche loro. Avrebbe tanto voluto dire: “Mettetevi a testa in giù, bambine, e aspettate l’uomo dell’emporio”. Le sembrava così divertente che non riusciva a badare a Mrs Josephs.
Il corpo grasso e scricchiolante si sporse dal cancello, e la grande faccia di gelatina sorrise. «Non si breoccubi, Mrs Burnell. Lottie e Kezia brenderanno il tè con i miei bambini e boi le metterò io sul carro.»
La nonna rifletté. «Sì, mi sembra proprio la cosa migliore. Le siamo molto riconoscenti, Mrs Josephs. Bambine, dite “grazie” a Mrs Josephs.»
Due cinguettii sommessi: «Grazie, Mrs Josephs».
«Fate le brave e... venite qua...» le bambine si avvicinarono «non dimenticate di dire a Mrs Josephs quando volete...»
«Sì, nonna.»
«Non si breoccupi, Mrs Burnell.»
All’ultimo momento Kezia lasciò la mano di Lottie e si precipitò verso il calesse.
«Voglio dare un altro bacio alla mia nonnina.»
Ma era ormai troppo tardi. Il calesse si avviò su per la salita, con Isabel che non degnava nessuno di uno sguardo, gonfia di orgoglio, Linda Burnell prostrata, e la nonna che frugava tra le bizzarre cianfrusaglie infilate all’ultimo momento nella borsa a rete di seta nera, alla ricerca di qualcosa da dare alla figlia. Il calesse si allontanò in uno sfavillio di fine polvere dorata; giunto in cima alla collina, sparì. Kezia si morse un labbro, ma Lottie, attenta a trovare prima il fazzoletto, cominciò a piagnucolare.
«Mamma! Nonnina!»
Mrs Josephs, simile a un enorme, caldo copriteiera di seta nera, la abbracciò.
«Stai tranquilla, cara. Su, su, biccolina! Vieni a giocare nella nursery.»
Mise un braccio attorno a Lottie, ancora in lacrime, e la condusse via. Kezia le seguì, facendo una smorfia all’apertura della sottana di Mrs Josephs, sbottonata come sempre, dalla quale penzolavano due lunghi lacci rosa del busto...
Il pianto di Lottie si smorzò mentre saliva le scale, ma la vista della bambina nel vano della porta, con gli occhi gonfi e il naso paonazzo, dette molta soddisfazione ai piccoli Josephs, seduti su due panche davanti a una lunga tavola ricoperta da un’incerata, apparecchiata con immensi vassoi di pane e sugo e due brocche marroni da cui saliva un tenue vapore.
«Ciao! Si vede che hai pianto!»
«Ooh! Hai gli occhi piccoli piccoli!»
«Che naso buffo!»
«Sei piena di macchie rosse!»
Lottie stava riscuotendo un gran successo. Se ne accorse e, piena d’orgoglio, abbozzò un timido sorriso.
«Su, vai a sederti vicino a Zaidee, biccolina,» disse Mrs Josephs «e tu, Kezia, là in fondo vicino a Moses.»
Moses sogghignò e, mentre Kezia si sedeva, le dette un pizzicotto ma lei fece finta di niente. Come li odiava, i maschi!
«Cosa preferisci?» chiese Stanley, sporgendosi molto educatamente verso Kezia e sorridendole. «Con cosa preferisci cominciare: fragole alla panna o pane e sugo?»
«Fragole alla panna, grazie» disse lei.
«Ah, ah, ah!» Scoppiarono tutti a ridere e si misero a battere i cucchiaini sul tavolo. C’era proprio cascata! Eccome! L’aveva proprio presa per il naso! Bravo Stan!
«Ma’! Credeva che fosse vero!»
Perfino Mrs Josephs, che stava versando il latte e l’acqua, non poté fare a meno di sorridere. «Non dovete brenderle in giro brobrio l’ultimo giorno» ansimò.
Ma Kezia diede un gran morso alla sua fetta di pane e sugo, e poi la posò sul piatto. Senza il pezzo che aveva staccato con i denti formava una specie di cancelletto. Puah! Per quel che gliene importava! Una lacrima le rotolò lungo la guancia, ma non stava piangendo. Non avrebbe mai potuto piangere davanti a quegli orribili Josephs. Rimase seduta a testa china, e mentre la lacrima scivolava giù, la colse con un guizzo della lingua e la mangiò prima che qualcuno se ne accorgesse.
II
Dopo il tè Kezia si avviò verso casa sua. Salì lentamente i gradini della porta di servizio e passando per lo stanzino entrò in cucina. Non c’era rimasto nulla, solo un grumo di sapone giallo e granuloso in un angolo del davanzale e una pezza di flanella macchiata di blu in un altro. Il camino era ingombro di spazzatura. Ci frugò in mezzo ma trovò soltanto un nécessaire da toilette con un cuore dipinto sopra che era appartenuto alla domestica. Lo lasciò dov’era e, a passo strascicato lungo lo stretto corridoio, entrò in salotto. La veneziana era abbassata ma non chiusa. Lunghi e sottili raggi di luce filtravano dentro e la tremula ombra di un cespuglio danzava sulle linee dorate. Ora era immobile e un istante dopo ricominciava a ondeggiare e quasi le lambiva i piedi. Zum! Zum! Un moscone sbatté contro il soffitto; nei chiodini della moquette erano rimasti impigliati piccoli ciuffi di lanugine rossa.
In ciascun angolo della finestra della sala da pranzo c’era un riquadro di vetro colorato. Uno era blu e l’altro giallo. Kezia si chinò per vedere ancora una volta il prato blu con le calle blu accanto al cancello, e poi un prato giallo con calle gialle e uno steccato anch’esso giallo. Mentre guardava, una Lottie che sembrava una cinesina giunse sul prato e si mise a spolverare i tavoli e le sedie con un angolo del grembiule. Ma era davvero Lottie? Kezia non ne fu sicurissima finché non ebbe guardato dal vetro normale.
Di sopra, nella camera dei genitori, trovò un portapillole nero e lucido fuori e rosso dentro, che conteneva un batuffolo d’ovatta.
“Potrei tenerci un uovo di uccello” decise.
Nella camera della domestica c’era un gancio da busto conficcato in una crepa del pavimento, e in un’altra alcune perline e un ago lungo. Sapeva che nella camera della nonna non c’era nulla; l’aveva osservata mentre faceva i bagagli. Si avvicinò alla finestra e vi si appoggiò premendo le mani contro il vetro.
A Kezia piaceva stare alla finestra in quel modo. Le piaceva la sensazione del vetro freddo e lucente contro i palmi caldi e le piaceva guardare le buffe punte bianche delle dita quando le premeva forte contro il vetro. Intanto gli ultimi, tremuli bagliori del giorno si spegnevano e calavano le tenebre. Con il buio s’intrufolò dentro anche il vento con rantoli e ululati. Le finestre della casa vuota tremarono, dalle pareti e dai pavimenti giunse uno scricchiolio, sul tetto un pezzo di lamiera rotta cominciò a sbattere sconsolato. All’improvviso Kezia rimase immobile, completamente immobile, con gli occhi spalancati e le ginocchia serrate. Era terrorizzata. Avrebbe voluto chiamare Lottie e continuare a chiamarla mentre correva giù per le scale e si precipitava fuori dalla casa. Ma quella cosa era proprio dietro di lei, in attesa davanti alla porta, in cima alle scale, in fondo alle scale, nascosta nel corridoio, pronta a saltar fuori da dietro la porta di servizio. Ma anche Lottie era dietro alla porta di servizio.
«Kezia!» chiamò tutta allegra. «È arrivato l’uomo dell’emporio. Ha caricato tutto, e ci sono ben tre cavalli, Kezia. Mrs Josephs ci ha dato un grande scialle per avvolgerci, e dice di abbottonarti il cappotto. Non esce per via dell’asma.»
Lottie si dava molta importanza.
«Allora, bambine» chiamò l’uomo. Le agganciò sotto le ascelle con i grossi pollici e si sentirono sollevare in aria. Lottie si sistemò lo scialle «in modo stupendo», e l’uomo avvolse i loro piedi in un pezzo di coperta vecchia.
«Su i piedi, ecco fatto.»
Erano come un paio di piccoli pony. L’uomo provò se le funi strette attorno al carico reggevano, sganciò la catena che bloccava la ruota e, fischiettando, saltò su accanto a loro.
«Stammi vicina, Kezia,» disse Lottie «perché sennò mi tiri via lo scialle.»
Ma Kezia si accostò un poco all’uomo dell’emporio. Torreggiava su di lei come un gigante e odorava di noci e di casse di legno nuovo.
III
Era la prima volta che Lottie e Kezia restavano fuori fino a quell’ora. Tutto pareva diverso: le case di legno verniciato erano molto più piccole che di giorno, i giardini assai più grandi e selvatici. Stelle lucenti punteggiavano il cielo e la luna, sospesa sul porto, spruzzava d’oro le onde. Riuscivano a vedere il faro di Quarantine Island, le luci verdi lungo i vecchi scafi neri come il carbone.
«Arriva il vapore da Picton» disse l’uomo indicando un piroscafo adorno di perline luminose.
Ma quando raggiunsero la cima della collina e cominciarono a scendere lungo l’altro versante, il porto scomparve, e benché fossero ancora in città si sentirono smarrite. Altri carri passavano facendo un gran rumore. Tutti conoscevano l’uomo dell’emporio.
«’Notte, Fred!»
«Ehilà, ’notte!» gridava lui.
A Kezia piaceva molto ascoltarlo. Non appena all’orizzonte si profilava un carro, lei alzava gli occhi in attesa della sua voce. Era un vecchio amico; lei e la nonna erano state spesso a casa sua a comprare l’uva. Viveva da solo in un villino con una serra, che lui stesso aveva costruito attigua alla casa. La serra era interamente circondata e ricoperta da una bellissima vite. Lui le prendeva il paniere marrone, metteva sul fondo tre grandi foglie e si tastava la cintura alla ricerca di un coltellino di corno, allungava le braccia e recideva un grosso grappolo blu che poi posava sulle foglie con tanta delicatezza che Kezia tratteneva il fiato. Era un omone. Indossava calzoni di velluto marrone e aveva una lunga barba castana, ma non portava mai il colletto, nemmeno la domenica. Il collo, dietro, era scottato dal sole.
«Dove siamo adesso?» Ogni cinque minuti una delle bambine gli faceva la stessa domanda.
«Be’, siamo in Hawk Street, o in Charlotte Crescent.»
«Oh, certo.» A quest’ultimo nome Lottie rizzò le orecchie; le pareva sempre che Charlotte Crescent fosse sua. Pochissimi avevano una strada con il loro nome.
«Guarda, Kezia, quella è Charlotte Crescent. Non ti sembra diversa?» Ora le cose familiari erano rimaste alle spalle. Ora il grande carro avanzava tra gli strepiti in un paesaggio sconosciuto, lungo strade nuove con alte scarpate d’argilla su ambo i lati, su per ripide, ripidissime colline, giù per valli fitte di vegetazione, attraverso ampi fiumi dalle acque basse. Sempre più lontano. La testa di Lottie ciondolava: la piccina chinò il capo, scivolò per metà in grembo a Kezia e restò lì. Ma Kezia non riusciva a tenere gli occhi aperti come avrebbe voluto. Il vento soffiava forte e lei tremava, sebbene avesse le guance e le orecchie in fiamme.
«Le stelle non svolazzano mai qua e là?» chiese.
«Be’, non ci ho mai fatto caso» rispose l’uomo.
«Noi abbiamo un ozìo e un’azìa che abitano vicino alla casa nuova» disse Kezia. «Hanno due bambini: il più grande si chiama Pip e il più piccolo Rags. Lui ha un montone. Deve dargli da mangiare con un’ateiera smaltata e un tappo sul beccuccio fatto con un guanto. Ha detto che ce lo farà vedere. Che differenza c’è tra un montone e una pecora?»
«Be’, un montone ha le corna e ti carica.»
Kezia rifletté. «Non ho granché voglia di vederlo» disse. «Non mi piacciono gli animali che ti saltano addosso come i cani e i pappagalli. Sogno spesso che gli animali mi saltano addosso... perfino i cammelli... e mentre lo fanno, la testa si gonfia... diventa enooorme!»
L’uomo dell’emporio non disse nulla. Kezia gli diede una sbirciatina stringendo gli occhi. Poi allungò un dito e gli sfiorò la manica; era pelosa. «Quanto manca?» chiese.
«Non molto, ora» rispose l’uomo. «Stanca?»
«Be’, non ho neanche un briciolo di sonno» disse Kezia. «Ma gli occhi continuano ad arricciarsi in su, che strano.» Fece un sospirone, e per impedire agli occhi di arricciarsi in su li chiuse... Quando li riaprì stavano percorrendo sferragliando un viale che fendeva il giardino come una scudisciata e, all’improvviso, girava intorno a un’isola di verde; dietro l’isola, invisibile finché non ci si trovava proprio sotto, c’era la casa. Era una costruzione lunga e bassa con una veranda a colonne e una balconata che correva tutt’intorno. La delicata massa bianca si distendeva sul giardino verde come una bestia addormentata. Ora una finestra ora un’altra si illuminavano di colpo. Qualcuno attraversava le st...