Il monumento mancato
Proprio perché siamo i penultimi scalciamo come un malato che non vuole stare nel suo letto, il letto è la Sicilia, qualcuno continua ad agitarsi, altri si arrendono al torpore delle lenzuola, altri ancora hanno il coraggio di scendere, di provare a stare in piedi, quanto meno a gattonare.
Sei andata via, così, sorella mia, come altre sorelle, cugine, altri fratelli. Da allora è cominciato il rituale di mamma, che è quello di ogni madre, ed è quello dell’attesa. La chiamata appena sveglia la mattina, quella a pranzo, lo squilletto della sera, l’ansia se non rispondi, il numero dell’amica/la procugina/la signora gentile del terzo piano da chiamare nel caso che, una voce al cellulare, per capire cosa non va da un’incrinatura, un tono rauco, un video su whatsapp, ti sei fatta il colore ai capelli, hai cambiato montatura, hai recuperato un mobiletto vecchio che i vicini volevano buttare via. Mamma invece manda video di gattini, angeli che augurano buon lunedì, concisi TUTTOOK? in stampatello, mie foto mosse.
Nei giorni estivi al telefono quando mamma ti chiama: ma perché rimani a Bologna/Pisa/Roma se sei in ferie/hai finito gli esami.
No, ma’, è che. E inventi una bugia qualunque.
Poi le dici che la linea è disturbata e mannaggia ’sta casa che c’è campo solo in bagno e non posso mica tenere occupato il bagno per parlare al telefono.
Ma se sei in casa da sola?
No, è che...
Poi tutto si risolve, come sempre tra siciliani, parlando di cibo.
Dimmi che vuoi mandato, chiede mamma: la caponata/la salsa/le panelle da friggere, ma non è la stessa cosa lo sai/il tonno da congelare subito.
Fin quando arriva quel giorno. Sul fornello la pentola con l’acqua che bolle, un cavolfiore in attesa dentro il lavello, l’una e cinque all’orologio. Mamma chiama.
“Mangiasti?” chiede mamma all’inizio di ogni telefonata. Non come stai, come va, che tempo fa, mica come qui che c’è un caldo che. No. “Mangiasti” chiede mamma, ed è la sua dichiarazione d’amore totale, che fa in ogni momento della giornata.
Ma non è una telefonata come le altre. Perché è quella in cui tu annunci che verrai a luglio, come sempre, sorella mia. Ti fermi giusto tre settimane: la prima per riposarti, la seconda per litigare, la terza per dire non vedo l’ora di andarmene, ma come fate a vivere ancora qui. La quarta settimana è quella del rimpianto, e te lo fai al nord tra piogge inutili d’agosto e aria condizionata a palla.
Solo che questa volta dici una cosa diversa a mamma al telefono, talmente urgente che fa slittare la conversazione.
“Mangiasti?” ti chiede mamma e tu rispondi quasi senza ascoltare la domanda: “Ho fatto i biglietti, vengo a fine luglio”. E mamma: “Buono, buono, fai bene a dirmelo ora, così mi organizzo: ti faccio il cuscus, poi la caponata, vediamo se zio va a prendere la ricotta, c’è il battesimo di”.
E tu sorella mia, come se nulla fosse: “Ah, non sono sola”.
Qui fai il fatidico annuncio: porti il fidanzato, lo zito.
Ma è un’amicizia o una conoscenza?, chiede mamma. Per lei infatti il fidanzamento non esiste, se non come anticamera del matrimonio da celebrare in chiesa, con il prete che ti ha battezzato, che oggi si è fatto anziano e stordito, ma ci tiene, eccome, a celebrare lui la funzione, e poi gli invitati, la festa, la gran mangiata.
Così come non esiste altra qualità che questa: ma è un bravo picciotto?
Sale un’inquietudine, e un’eccitazione. Arriva lo zito. Il giovane di Bologna/Pisa/Berlino che hai conosciuto al lavoro / all’università / in metro, ed è amore vero e lo porti qui, nel gomito di Sicilia, lo hai preparato bene, hai anche giocato al ribasso: posti bellissimi, però, sai, gli ospedali, le strade, il lavoro che manca. E poi dicono “andiamo a vedere un cinema”, anziché un film, “caloria” anziché caldo, “apparecchio” invece che aereo. E il dialetto, e la mafia. E magari hai fatto quella faccia triste, e lui ti ha baciato, per consolarti. Dài che ora ci sono io, sono pronto, sì, conosco la Sicilia, Taormina, Cefalù, ho uno zio di Giarre, o forse Canicattì, devo chiedere ai miei, la sorella di mio nonno dice che lì hanno l’uva buona, ma in questa parte di Sicilia non ci sono mai stato, sarà bello, vedrai.
Daremo a questo zito l’accoglienza che sappiamo dare, che è quella che conosciamo, da popolo conquistato: anche lui, nel suo piccolo, è un dominatore, un nostro Garibaldi, ha conquistato un trofeo, e il trofeo sei tu, sorella mia. E pazienza se magari l’anno prossimo lo zito cambia, un’altra latitudine, un altro accento, altri paragoni, noi faremo lo stesso festosa accoglienza, lo riempiremo di cibo, di cannoli di Dattilo grossi così con la ricotta grezza all’antica, e la pizza da Calvino, lo porteremo a Favignana nelle cale a fare il bagno, poi a San Vito Lo Capo, poi ancora a vedere i templi, e sul monte Erice, a mangiare i dolci della signora Maria, i mustazzoli come le genovesi calde. Lui farà complimenti e ti darà la mano, quando siamo in giro, accaldato e disorientato. E terminerà i pranzi in cui lo sfamiamo di tutti i nostri prodotti dicendo banalità come: “Sto scoppiando, ma come fate voi siciliani ad essere così magri e a mangiare così tanto...?”, dimenticando che di digiuni è fatta la nostra storia, di una fame atavica che abbiamo dentro e per la quale spendiamo ogni artificio d’ingegno, ed è per questo che nascono le leggendarie abbuffate ai matrimoni/battesimi/anniversari. Le stesse sfiziose e succulenti panelle – hai presente le panelle di cui vai ghiotto, zito/collega/parente forestiero? Le panelle calde da mangiare al chiosco del Fituso, quelle fritte nell’olio che non viene mai cambiato, quelle da mettere dentro la mafalda, caldissime, con sale, pepe e limone, e che prima di tornare compri in panetto per portarle a casa tua, e farle fritte, ma non avranno mai lo stesso sapore, lo sai. Le panelle sono fatte con la farina di ceci. E anche loro hanno la storia lunga e sofferta della nostra carestia, perché nascono per ovviare alla mancanza di frumento. E allora l’ingegno ci fece dire: non possiamo fare il pane, perché non c’è grano. Abbiamo i ceci, qualcosa inventeremo. Ed è così che è nata la panella. Per disperazione, mica per sfizio.
È una fame che non siamo riusciti mai a saziare e che ci divora, a partire dallo stomaco, poi prende gli occhi, per questo abbiamo inventato le sgargianti cassate, perché abbiamo bisogno di confonderci la vista. E anche lui, il tuo zito, fa parte di questa fame che abbiamo.
Lui poi ci chiederà della mafia, “e io che credevo...” dirà lasciando un “non detto” di attentati ad ogni angolo, coppole e lupare che non vede. E se vorrà indicata la mafia con una immagine, una foto, un’icona noi rimarremo imparpagliati, perché un’immagine che rappresenti la mafia di oggi non c’è.
Allora di cosa avete paura?, chiederà.
Abbiamo più paura, proprio per questo, sarà la risposta. Ma lui non capirà. Più facile raccontargli allora della strada sotto il mare.
Poi lui ritorna al punto, e chiederà come mai non ci ribelliamo alle strade piene di buche, ai randagi in branchi selvaggi che terrorizzano le vie del centro, ai treni lentissimi su un binario unico nel senso di numero e nel senso della specialità, alle facciate di pregio in lavori costanti di manutenzione, e perché solo in Sicilia accade che il sole d’estate contorca i ferri arrugginiti dei binari, o che ci siano massi franati e mai rimossi, e solo da noi accade che fai il biglietto del treno a Castelvetrano, per andare a Palermo, e ad un certo punto ti fanno salire su un bus perché la ferrovia c’è ma è come se non ci fosse...
E di fronte alle sue domande noi risponderemo con qualche battuta, cambiando discorso o misurandoci in un altro dei luoghi comuni: un sospiro, poi la frase, “ci manca sempre un soldo per fare una lira”. Gli negheremo alcune circostanze, ad esempio che ormai questa consapevolezza dell’andare via è talmente radicata che anche i bambini lo sanno. E alla domanda cosa vuoi fare da grande, non rispondono solo con un mestiere, ma aggiungono anche un luogo: e ti dicono, voglio fare l’attore a Milano, studiare legge a Bologna, il dentista a Bergamo come mio cugino il grande.
C’è sempre un momento, poi, in cui lo zito indicherà le montagnole di rifiuti in strada. Faremo sì, con la testa, stringendo i denti, un sì sornione, sorrident...