La penombra che abbiamo attraversato
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La penombra che abbiamo attraversato

  1. 256 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La penombra che abbiamo attraversato

Informazioni su questo libro

«Affrescato a motivi pompeiani, l' "Albergo Europa" è un microcosmo in cui l'armonia di una società patriarcale è attraversata da trasalimenti e ombre e interrogativi. Siamo negli anni attorno alla Prima Guerra Mondiale. Si è detto "microcosmo" non per dire: questo mondo è piccolo davvero, è un paese di montagna in una delle valli di Cuneo, un paese con i bassi porticati e i balconi di legno; ed è il mondo davvero, per la bambina che vi nacque e lo registrò ora per ora.
L'immagine proustiana del titolo significa qui l'infanzia, età in sé folgorante, ma ombrosa, oscura per chi la guarda dall'altra sponda, quella della maturità; ma è anche la vita stessa, lo spazio che deve essere riattraversato per ritrovare la tormentosa età, nella quale a nostra insaputa tutto era stato giocato una volta per tutte.
Il riscatto del tempo è il motivo vero del raccontare di Lalla Romano. Sin dai primi libri si è venuto precisando il filo di una poesia tutta discrezione e rigore che consiste nel raccogliere come rivelatori proprio i momenti della vita che si sogliono chiamare dispersi». Italo Calvino

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2013
Print ISBN
9788806216917
eBook ISBN
9788858410318

Parte seconda

I.

Ero appoggiata al vecchio parapetto, nel punto dove una volta stava la lesa. Di fronte a me era la casa, alta e chiusa; di nuovo inaccessibile, remota (rientrata nell’ordine: io non volevo che fosse viva).
Ora fuori della casa doveva continuare l’inventario: di una sconfitta?
Un lento ma doloroso decadere era avvenuto in me, in quel tempo che ora consideravo «sottratto al tempo». Era stato il contatto col mondo?
Intorno alla casa era il mondo, nel quale dovetti pur avventurarmi da sola. Quando poi stavo per rincasare, provavo sempre un vago timore di non ritrovare la casa, i genitori, le cose consuete. Dimenticavo quel timore appena imbucato il portico.
Ma certe volte la casa stessa mi era preclusa. Io sola però vedevo l’ostacolo in una proporzione allarmante, mentre a chiunque altro – anche bambino – sarebbe parso da nulla, da ridere.
Sbucavo dai portici ritornando da scuola, di corsa; ma sul punto di imbucare la piazza, rallentavo, incerta, dubbiosa; paralizzata dalla vista di due cagnolini.
Stavano davanti al portico, per lo piú accucciati nel mezzo della strada; aspettavano il cavalier Mattei che doveva rincasare dall’Ufficio. La cameriera-signora li aveva portati lí. Erano madre e figlio. Lei grassa, lenta. Lui minuscolo, spiritato, saltellava sulle gambine esili come fuscelli; aveva qualcosa di elettrico, come un ordigno. Se abbaiava incollerito, la sua stessa voce lo scuoteva tutto.
Alzavo gli occhi alle finestre di casa. La mamma e Ciota affacciate insieme e stranamente familiari, anzi complici, mi facevano segno di avvicinarmi, di non temere; ma intanto ridevano, e ciò mi faceva disperare di qualsiasi aiuto.
Decidevo di tentare l’altra sorte. Facevo dietro-front, oltrepassavo la panetteria d’angolo. Il percorso, lungo, mi consentiva una tregua.
Dalle finestre basse a raso terra del forno, il panettiere Blin mi chiamava, mi allungava attraverso la grata un grissino fresco. Rosicchiando il grissino salivo adagio la strada acciottolata.
Dopo la panetteria il muro era cieco; dall’altro lato c’era una casa bianca con una scala a due rampe. Io la sogguardavo passando, nella speranza di vedere qualcosa attraverso l’uscio, aperto sull’interno scuro. Là dentro viveva, immobile su una brandina, la figlia del nostro falegname. La mamma mi accompagnava qualche volta a trovarla. Era una bambina molto bella, ma era penoso starle vicino; si sprigionava da lei un calore umido, un odore dolciastro. Il suo viso non era magro, era ovale, di un pallore opaco; i suoi occhi erano neri, luccicanti, ed il loro sguardo troppo serio mi turbava come un rimprovero. La malattia rendeva quella bambina privilegiata: la mamma le parlava con rispetto, e lei poteva giudicarmi.
Arrivata davanti alla caserma – il soldato di sentinella stava nella sua garitta – svoltavo. Fino alla porta di casa, che era a metà strada, non c’era altro che muri: da un lato quello del cortile, dall’altro quello altissimo della caserma, arroccata sul monte dietro il Belvedere. Ma in fondo, davanti alla Trattoria, c’era un altro cane: Blesilla. (Chi avrà dato quel nome alla cagnetta gialla, stonata, irritabilissima?)
Dovevo arrivare alla porta senza farmi notare da Blesilla. Pareva dormisse; ma quando già mi consideravo salva, scattava, strepitava e, peggio, mi veniva incontro. Meglio i cagnolini; che almeno saltavano sul posto. Tornavo indietro.
Il cavalier Mattei tardava, i cani erano ancora lí. La mamma non era piú alla finestra. Disperata facevo, ormai stancamente, un altro tentativo di là.
Non mi riesce di ricordare il momento in cui dovevo pur finire coll’infilare l’uno o l’altro ingresso, il cuore in gola. E nemmeno come fossi accolta in casa: forse con risa e canzonature. Le canzonature non riguardavano tanto la paura dei cani in generale, quanto il fatto che si trattava di cani piccolissimi.
La «paura dei cani» aveva in apparenza un motivo plausibile, «esterno». In realtà la collera dei cani scuoteva in me un allarme segreto. La vera paura non era di essere assalita o morsa; ma di essere incorsa in un errore inconsapevole, come se avessi violato un divieto, fatto scattare una trappola apprestata da una potenza maligna.
Infatti il cane che poco prima mi era apparso come una presenza demoniaca, se veniva chetato dal padrone e mi si accostava tutto buono, tornava a essere quello che realmente era, un povero cane.
Questo però non accadde mai né coi cagnolini del cavalier Mattei, né con Blesilla: non li vidi mai ammansiti.
Nei sogni erano «il Diavolo»; specie il piú piccolo, nero, quasi incorporeo. Lo vedevo zampettare in qualche parte nella casa, sapevo «chi» era, e mi svegliavo tutta gelata.
Il mio grande amico, quand’ero piccola, fu il mio cane Murò. Murò era un «setter laverac focato», come diceva papà con compiacimento. Era figlio di Maura, la cagna del veterinario.
Murò era dolce e discreto, paziente nei giochi come papà stesso. La sua fronte pensierosa esprimeva lo sforzo costante di comprendere, di prevenire.
In molte fotografie Murò appare come il mio custode. In una è accanto a me, nell’orto, seduto sulle zampe di dietro, il collo eretto; è fiero, consapevole della sua dignità. C’è una somiglianza tra il cane e la bambina. Entrambi hanno sulla fronte – rigida e scura quella di lui, bianca e convessa quella della bambina – un leggero corrugamento, un’ombra di malinconia. Ma l’occhio di Murò è fisso, intrepido ed ingenuo come quello di una recluta, mentre gli occhi della bambina sembrano rivolti a considerar qualcosa di lontano e preoccupante.
Anche Murò era stato, come tutti, giovane e gaglioffo. Una volta mangiò tutti i «tomini» che uno di Boves aveva portato. I cacciatori prima cosa dicevano di lui: – Questo è il cane a cui piacciono i tomini di Boves!
Si prendevano questa confidenza, ma sapevano bene come Murò fosse prezioso alla caccia, e avevano per lui grande considerazione: ne parlavano con quella gravità affettuosa che osservavo nei cacciatori quando lodavano i loro cani.
Sovente la mamma ed io seguivamo papà e Murò a caccia, specie agli uccelli, lungo il Cant.
Per quel genere inferiore di caccia il cane era d’impaccio e io dovevo trattenere Murò. In quei momenti Murò non era certo dolce, ma diventava anche piú bello. Dava strattoni, tendeva la testa selvaggiamente, attirato da un richiamo che pareva farlo uscire di sé. Io lo stringevo attorno al collo con le mie braccia di bambina, mi appendevo al suo collare. Quante volte Murò mi trascinò tra gli sterpi ed i sassi, di peso: gemendo lui di desiderio, io di impotenza. Dopo, mentre lui ansava trafelato, lo abbracciavo con tenerezza e gli toglievo a una a una le lappole e le pagliuzze.
Diventò vecchio e negli ultimi tempi era sordo e quasi cieco. Urtava nelle gambe dei tavoli, camminava a testa bassa, chiuso in sé e avvilito. Papà disse che l’avrebbe mandato per un certo tempo presso un allevatore dove l’avrebbero curato.
Fui distratta da altre cose? Ho potuto sorvolare su quella perdita? Siccome non ricordo il momento in cui dovetti capire che non avrei piú rivisto Murò; peggio, che qualcuno doveva averlo finito. (È possibile che l’abbia dimenticato proprio perché ne soffersi molto; che abbia voluto fuggire quel pensiero).
Murò aveva subito altre umiliazioni, nella sua vecchiaia. Papà aveva preso due cani giovani, dalle lunghe orecchie, che «lo ignoravano»: erano sempre in movimento, con aria stordita e spensierata, e divoravano la zuppa in un lampo. (Già Ciota l’aveva sempre angariato: la zuppa del mattino doveva servire anche per la sera, e lei gliela toglieva dinnanzi quando ne aveva mangiato la metà).
Era il tempo della sorellina. In una fotografia lei è su una strada di campagna in mezzo ai cani; piange disperatamente, ed è buffa. Murò, mortificato, sta in disparte. Non era piú il custode della sorellina.
Prima che il mio, Murò era stato il custode della mamma. Papà l’aveva davvero lasciata sola qualche volta, se lei, come raccontò, faceva accucciare Murò ai piedi del letto.
– Lo facevo anche salire sopra, – disse con l’aria quasi proterva che prendeva in certi momenti, – avevo paura e lui mi faceva coraggio.
La mamma poteva aver paura? Di che cosa aveva paura? Tante volte la mamma rabbrividiva, si stringeva a papà; ma sembrava un vezzo, uno scherzo. Zia Carlotta aveva detto che la mamma da bambina era paurosissima, e i suoi fratelli la canzonavano. Da bambina; ma ora?
Anche la signora Borgo confessava che quando suo marito il veterinario era chiamato di notte, lei aveva paura. Lui si portava via Maura, e lei per non restar sola (non era ancora nata Bellina), qualche volta lo seguiva.
– Cosí, in babbucce di casa, per spicciarmi; ma poi si attraversano i prati e quando torno a casa le babbucce sono tutte «mezze» –. (Voleva dire fradice; usava parole strane perché era toscana). Non era piú pauroso attraversare i prati di notte? Non capivo le paure delle mamme.
Forse le lunghe assenze di papà erano quelle per la caccia ai camosci. Tornava dopo alcuni giorni, magari la sera tardi, con tutta la compagnia (la Squadra Mobile, diceva lui) e invitava tutti. Erano infangati, sporchi di sangue; ammucchiavano i fucili, le cartuccere, le bisacce nel corridoio d’ingresso.
A quel tempo non c’era ancora Ciota, ma la vecchia Catlina, l’antica governante di papà. Catlina non perdeva la calma, aveva già esperienza di invasioni.
Alla mamma il camoscio pareva una preda nobile e importante; ma inorridiva, soffriva nel vedere la bella testa inerte, gli occhi velati.
Quando parlò con noi diventate grandi delle imprese di papà, le piacevano le bugie a cui era ricorso come uno scolaro, per dissimulare le spedizioni di caccia agli occhi di qualche autorità o benpensante di riguardo.
– Devo visitare una bandita, – diceva con un gesto vago.
Papà che inventava frottole per prendersi una vacanza era ormai incredibile; però era ben suo quel farsi gioco del tipo noioso e dabbene che non capiva, non sospettava nemmeno la passione di un giorno di caccia in montagna.
Non sempre la caccia si concludeva con quelle invasioni. Si radunavano anche alle Tre Colombe, da Lino. Lino era uno dei cacciatori e siccome era il padrone, invitava anche la mamma. Lei ci andò qualche volta; le piaceva la moglie di Lino, morbida e bianca, tutta sorrisi, che non perdeva il suo pallore in mezzo ai fornelli roventi. Lino invece era irsuto e goffo come un cane da pastore. Quando la moglie morí, si risposò con una contadina taciturna che lasciò decadere l’albergo. (Cosí diceva papà, con rammarico).
Vedevo Lino davanti alle Tre Colombe, un piede al di qua e uno al di là di un sudicio rigagnolo, o meglio scolo tra le selci. Si grattava il testone grigio per levarsi il cappello, poi lo rimetteva all’indietro, sputava nello scolo, sospirava: – Una vita da bestia!
Si vergognava davanti alla mamma. Si confondeva, le prendeva la mano con tutt’e due le sue, rammentava che una volta in montagna lei si era degnata di bere alla sua borraccia di zucca; poi parlava di una medaglietta che io da piccola portavo appesa al polso con un filo d’oro, e prendeva tra le sue manone i quattro ossicini della mia.
Lorenzo era un altro cacciatore che la mamma aveva conosciuto da Lino. Lorenzo abitava sulla montagna e doveva prima degli altri lasciare la compagnia. Ogni tanto diceva: – Gertrude mi aspetta –. Gli altri lodavano, seri, la pazienza di questa Gertrude. Allora la mamma: – È vostra sorella?
– No, è la mula.
C’era come una malinconia, nella mamma, quando raccontava a noi quelle piccole storie dei cacciatori; appartenevano al «tempo di prima», che per me era l’età dell’oro, e forse per lei era stato il tempo piú difficile.
Tutti i cacciatori a me parevano personaggi romanzeschi. Uno piú di tutti, altero e freddo di modi, che aveva gli occhi verdi, dolci. Si chiamava Cometto.
Ero già grandina, in quarta, quando papà mi portò con sé a una spedizione di caccia. Uscimmo di casa che era notte, e lungo lo stradone bianco sotto la luna i cacciatori sembravano banditi. Salimmo sulla montagna di Festiona, boscosa, fino a una cappella; lí si doveva aspettare l’alba.
Non c’era piú la luna, eravamo nel buio dei boschi. Lino sacramentava, poi si scusava con me: quasi io fossi la mamma!
Quello dagli occhi verdi, invitato dagli altri, raccontò di un cacciatore (uno della squadra? non disse il nome) che si era sparato.
– Com’è lei? – domandarono. – Sembra una Madonna –. E aggiunse che era venuta dalla Francia, che portava i capelli tagliati corti. Poi con la sua voce profonda, quasi mormorando, spiegò: – Ha appoggiato la canna cosí, – e sfiorò con le bocche della sua doppietta sotto il mento, fece il gesto di premere il grilletto…
Le foglie dei boschi frusciavano nell’avvicinarsi dell’alba; io sbarravo gli occhi tra il sonno e il freddo, e il cuore mi si gonfiava di una incomprensibile emozione.
Sul muretto che segue la rampa del Belvedere stava accucciato Murò quando papà e la mamma andavano in città e rimanevano lontani per qualche giorno. Rifiutava di mangiare e di rientrare. Ogni tanto saltava giú, scrutava la strada, poi riprendeva il suo posto. Tutti l’avevano visto. Ne parlarono a lungo e lo ricordarono sempre.
Questo era avvenuto quando io non ero ancora nata. Dopo, rimase in casa perché ormai c’ero io, che lui doveva custodire.
I genitori mi portavano quasi sempre con loro nei viaggi. Ma quando mi lasciavano a casa, temevo che potessero non tornare.
Ciota cercava di tenermi allegra. Una volta ammucchiò sul tavolo di cucina i servizi da caffè, di bicchieri, per «far festa», disse. Ma a me sembrò una stravaganza, ed ebbi persino paura. Anche Madrina era partita; solo Murò mi consolava.
In un sogno mi vidi rannicchiata contro il muro dell’andito, davanti alla porta di casa. Papà e mamma erano morti. La nave era affondata nell’Oceano e io vedevo il punto. L’Oceano era la planimetria della Stura, che avevo visto nell’ufficio di papà e che mi piaceva perché le larghe anse del fiume erano colorate di azzurro. Nel sogno e dopo nel ripensare al sogno, il senso di essere orfana era una tristezza fonda e compatta, ma come per una sciagura lontana, accaduta da tanto tempo.

II.

Non c’era ancora la sorellina, quando viaggiavamo in carrozza. Da Ponte Stura per andare in città si prendeva il postale (la diligenza); ma papà noleggiava un calesse. Il vetturino farfugliava perché era sempre un po’ bevuto, specie al ritorno. I suoi occhi erano rossi e torvi, i capelli arruffati e il suo alito sapeva di vino acido. La mamma aveva molta paura nelle discese e gridava: – Metta la m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La penombra che abbiamo attraversato
  3. Introduzione di Lalla Romano
  4. Parte prima
  5. Parte seconda
  6. Note di Lalla Romano
  7. Postfazione di Giulio Ferroni
  8. Appendice a cura di Antonio Ria
  9. Cronologia della vita e delle opere
  10. Opere di Lalla Romano
  11. Antologia della critica
  12. Bibliografia della critica
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright